4.

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"Buondí Rachel!'
uno spiraglio di vento spostò una ciocca di capelli dal viso di lei.
"Rachel? Allora?"
Rachel si girò dall'altra parte.
"Oh andiamo alzati!
Lei rimase immobile dopo che le tolsero le lenzuola di dosso.
Brividi.
"Uffa" sbuffò lei.
"Oh, finalmente"
Aprì gli occhi per trovarsi di fronte una figura che conosceva bene, fin troppo bene.
"Marcus?"
"Sì?"
"Marcus?! Come sei entrato in casa mia?"
Marcus arrossì.
"Marcus."
"Dalla finestra" disse infine.
"Dalla finestra. Ottimo."
"Davvero? Mi stai dicen-"
"Ma sei stupido?" esclamò lei.
"Rachel io volevo solo venire a svegliarti"
"Un messaggio no? Una chiamata?"
"Ci ho provato ma non mi hai risposto"
Lei prese in mano il telefono e lo controllò, trovando tre chiamate perse e svariati messaggi da parte sua.
"Comunque potevi anche risparmiartelo" disse infine per non dargli soddisfazione, accennando un sorriso.
Quella mattina Marcus la portò al bar dove andava sempre lei, il suo bar.
Lei prese il solito caffè, rigorosamente amaro.
Quando arrivò, Rachel prese la tazza bollente tra le mani e in un sorso lo buttò giù.
Lo beveva sempre così, in un colpo solo.
Uscirono dal bar ed andarono in un parco, si sedettero su una panchina e rimasero in silenzio.
Di fronte a loro c'era un signore, anziano, con qualche capello ormai bianco e il viso rugoso.
La guardava, guardava i suoi capelli, i suoi occhi e il tubicino nel suo naso.
Gli occhi gli divennero lucidi.
"Sei malata vero?" chiese all'improvviso.
Rachel annuì.
"Lo so da quel tubicino che hai nel naso, ce lo aveva anche mia moglie, era malata anche lei" continuò.
Gli occhi di Rachel si fecero cupi, ora erano un cielo grigio, annuvolato.
"Aveva il cancro. È morta cinque anni fa. Era bellissima." disse con la voce che gli tremava e una lacrima scivolò sulla sua guancia.
"Mi dispiace" fu quello che riuscì a dire lei.
Marcus rimase in silenzio tutto il tempo.
"Buona fortuna" le augurò il signore prima di alzarsi e lasciare il parco.
Rachel non rispose.
Si alzò, andò ai piedi di un albero e stette lì, in silenzio, a guardare la gente.
C'era tanta gente, forse troppa, per lei.
Bambini che giocavano spensierati, ragazzi che leggevano, adulti che sorseggiavano caffè e anziani che passeggiavano.
C'era un bambino però, che era da solo, isolato.
Piangeva, e osservando meglio si accorse che aveva un ginocchio sbucciato.
Si ricordò di quando anche lei, da bambina, si sbucciò un ginocchio, di quando pianse, di quando le attaccarono un cerotto.
E pensò che erano bei tempi, quando si piangeva per quello.
Quando si tornava a casa con le scarpe rotte, sudati, sanguinanti, perché correndo si inciampava, si cadeva, ci si faceva male, ma ci si rialzava. E c'era sempre un cerotto per tappare le ferite.
Oggi invece, piangi per altro.
Piangi per un cuore spezzato, torni a casa sanguinante, ma non hai nessun cerotto per fermare il sangue.
Correndo, forse troppo forte, sei inciampata nella realtà, ma non ti sei più rialzata.
Sei rimasta a terra, con il cuore frantumato tra le mani.
Ed è così che daresti qualsiasi cosa per tornare bambino, per correre ancora dietro agli altri, per cadere, e sbucciarti ancora quelle ginocchia.
Perché nonostante il dolore, un ginocchio sbucciato fa sempre meno male di un cuore spezzato.
Ora quel bambino ha smesso di piangere, ha un cerotto sul ginocchio; anche lei ha smesso di piangere, solo che ha un cerotto sul cuore.
E chissà quante altre persone sono cadute come lei, chissà in quanti si sono rialzati e in quanti sono ancora a terra, e chissà quel signore, se ha anche lui un cerotto sul cuore, o se invece sanguina ancora.
E chissà Marcus, se si è mai sbucciato un ginocchio.

ArtistWhere stories live. Discover now