morire sarebbe stato più facile anziché essere rinchiuso dentro queste quattro mura, come un uccello in gabbia.
le mie idee non riusciranno a passare attraverso strati di cemento e mattoni, e in quel momento, quando non sarò più libero di esprimere me stesso, la mia anima diventerà polvere.
le voci si nascosero -in qualche angolo buio del mio cervello- nel preciso istante in cui misi piede dentro l'ospedale psichiatrico.
anime dannate urlavano a squarciagola nella speranza di essere capite, ricevendo soltanto minacce da parte degli infermieri.
persone dalle mille sfumature, bisognose di libertà o semplicemente troppo eccentriche, trattate come bestie al macello, ed io avrei fatto la stessa fine.
mi schedarono come "paziente numero zero" e in un attimo la mia essenza svanì, diventando così un numero insieme a tanti altri.
ma alla fin fine, siamo tutti dei microscopici puntini uguali visti dall'alto, nulla di più.
nessuno ebbe il coraggio di rivolgermi la parola o semplicemente chiedere spiegazioni per i reati commessi.
tutti sapevano tutto di me, dato che le strade erano tapezzate di manifesti raffigurante la mia faccia.
effettivamente, come puoi giustificarti quando vieni colto in flagrante?
evitai di finire in un carcere prettamente maschile grazie ai miei referti medici, che il mio psichiatra si curò di lasciare prima del suo decesso.
il caro Dr. Albert era sempre così spaventato in mia presenza, l'unica volta che mi avvicinai, iniziò a tremare come se si trovasse al polo nord, senza alcun indumento addosso.
"ma come biasimarlo, ho un fascino molto particolare" quel pensiero mi fece ridere di gusto, lasciando i medici e guardie senza parole.
<prendete questo individuo e isolatelo dal resto> le parole del dottore risuonarono in tutta la stanza, come un tuono a ciel sereno.
improvvisamente, il mio sguardo tornò ad essere serio e da esso non traspariva alcun tipo di emozione.
le guardie seguirono gli ordini del dottore come due cagnolini obbedienti al padrone, mi afferrarono per i polsi -precedentemente stretti dalle manette- e mi portarono fino alla porta della mia stanza, la numero 555.
"ti sei mai sentito come la "marionetta della situazione"?
un burattino sballottato da avvenimenti imprevisti, che ci fanno sentire incapaci di gestirci, come persi nell'immensità e nelle difficoltà della nostra esistenza"
il tessuto stringeva all'altezza del petto e delle ascelle, con le maniche bloccate in entrambe le estremità degli arti in modo da immobilizzare le braccia in una posizione incrociata, una cinghia all'altezza del cavallo impediva che io la strappassi via tirandola, la camicia di forza.
seduto sul bordo del letto, con i pensieri bloccati da una grossa catena, e ora anche il corpo.
dentro quella stanza, con una sola finestra in alto, impossibile da aprire per via dell'inferriata.
le guardie si fermarono davanti la soglia della porta, non osarono guardarmi negli occhi e a testa bassa pronunciarono un qualcosa che a malapena riuscì a sentire.
<benvenuto all'inferno> finirono la frase con un espressione beffarda, come per prendersi gioco di me.
infine, chiusero la porta, girando più volte la chiave nella serratura, lasciandomi solo.
nessuna parola, nessun pensiero.
soltanto il silenzio assordante e quel vuoto che non capisci se sia fuori o dentro la tua testa.
passai le ore rannicchiato sul letto, con la speranza che le voci venissero in mio soccorso, ma niente, l'oblio totale.
forse è realmente arrivata la fine, o magari è solo l'inizio di essa?