8. L'angelo del ghetto (II)

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Camelie fu svegliata dal borbottio di una teiera. Di quella che doveva essere una teiera gigante, considerata la veemenza degli scoppi e del gorgoglio dell'acqua.

Non c'era niente di familiare in quel risveglio e la ragazza tentò di ricordare in quale delle sue stanze si fosse addormentata la sera prima. Le stanze lavanda dove si rintanava quando non voleva essere disturbata? Impossibile, c'era troppa confusione. Le calde stanze corallo? Neanche, dal momento che aveva i piedi congelati. Ma allora non poteva che trattarsi delle sterminate stanze ardesia, dove crollava ogni qualvolta organizzava un party. Il mal di testa lancinante poteva essere una spia di un festino che aveva preso una piega inaspettata, ma il profumo intenso di orchidee era decisamente fuori posto. Era talmente avvolgente che offuscò per un attimo gli altri sensi, tanto che la ragazza fu costretta a domandarsi come mai fosse in grado di associare con precisione quell'aroma a una pianta che sua madre non aveva mai voluto coltivare. Graziella Lambert aveva infatti sempre avuto una forte repulsione per gli eleganti fiori che...

I ricordi terrificanti della notte precedente le crollarono addosso, e Camelie spalancò gli occhi in preda al panico. Non era nella tenuta Lambert, non era affatto in una delle sue camere da letto. Ricordava distintamente di essere svenuta su un marciapiede ghiacciato del ghetto.

Mentre si guardava attorno allarmata, tentò di sollevarsi, ricadendo però all'indietro. Capì subito il motivo della difficoltà a muoversi: non era stesa in un letto, ma in una grossa amaca che la fasciava come il bozzolo di una crisalide.

Un paio di braccia scure la afferrarono per le spalle, aiutandola a sedersi.

Nell'incrociare lo sguardo cristallino del ragazzo dai tratti latini che l'aveva salvata dai malviventi, Camelie sentì il cuore balzarle in gola. L'angelo del ghetto non era dunque il protagonista dell'incubo più reale che avesse mai avuto, ma una persona in carne e ossa.

Era talmente attraente che Camelie non riuscì a non divorarne con lo sguardo ogni dettaglio. Una chioma ebano, di ciocche mosse, gli incorniciava le mandibole squadrate, ricoperte da un accenno di barba che gli donava un'aria deliziosamente trascurata. Gli occhi acquamarina avevano un magnetismo che Camelie, abituata alle iridi rosse dei suoi coetanei - tutte artificialmente simili - non aveva mai sperimentato. Ovviamente c'erano svariate persone con gli occhi chiari tra i suoi conoscenti, dal momento che i tratti albini erano un'esclusiva della sua generazione, ma era la prima volta che scovava una tonalità tanto seducente di smeraldo.

Incapace di darsi un tono, la ragazza abbassò lo sguardo sulle spalle scoperte e sui bicipiti in bella mostra. Non le sembrava facesse tanto caldo in quell'ampia camera... o meglio sala... in quello spiazzo riparato... insomma, ovunque fossero.

«Come ti senti?» le domandò divertito il giovane. «Hai dormito almeno venti ore di fila e ti starai chiedendo dove sei capitata».

«Dove sono capitata?» gli fece eco lei alzando il capo su un soffitto apparentemente di cerata. Persino la voce del ragazzo le piaceva, era sicura e ammaliante.

«Sei ancora nel ghetto di Nilemouth. In uno dei tendoni del circo».

«Dove?!» sobbalzò Camelie tornando a fissare il suo interlocutore.

«Come ti chiami?» sorrise l'altro.

La ragazza aprì la bocca, pronta a rivelare il suo nome al suo personale angelo del ghetto, quando fortunatamente si ricordò dove fosse e un senso di allerta le suggerì di non svelare troppo.

«Venice».

«E non ce l'hai un cognome, Venice?»

La ragazza sapeva bene che i suoi capelli nivei e le iridi rubino erano un segnale inconfutabile dell'appartenenza al ceto borghese di Nilemouth. Sarebbe stato inutile tentare di nasconderlo, ma ciò non significava dover rivelare il suo vero cognome.

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