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|13| - Où le passé laisse à André et Lolita le temps d'une promenade et d'une crêpe

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|13| - Où le passé laisse à André et Lolita le temps d'une promenade et d'une crêpe

Quel mattino, André si butta giù dal letto col sorriso già stampato in faccia. Le lenzuola fresche e cambiate solo la notte prima, l'odore del mattino che si fa spazio dalla finestra, e finalmente tante ore di riposo che lo hanno saziato. Ma sai quanto può interessargli, ora? Che tra poco deve incontrare Lolita e deve sbrigarsi a prepararsi. Canticchia con gli occhi persi, mentre si spoglia dei pochi indumenti che lo coprono, ed entra subito nella doccia. Getto gelido, bagnoschiuma e shampoo. Si ritrova a canticchiare il motivetto de Les Prénoms de Paris, mentre esce dalla doccia e si asciuga. Volge lo sguardo allo specchio - che deve ricordarsi di lavare - e soppesa se fare o meno la barba. Nota ancora la mandibola e le guance spoglie, e si dice che ci vuole ancora un po'. Esce dal bagno, dirigendosi in cucina, i capelli ancora umidi e da dover assolutamente spuntare, prepara la caffettiera e la mette sul fuoco. Corre in camera, spalancando le ante dell'armadio: cammina avanti e indietro e pensa a cosa poter indossare. Guarda fuori il cielo azzurro di Montmartre, i primi rumori che svegliano il XVIII arrondissement, la luce ancor timida del sole che rischiara appena i tetti. Puntella le labbra con l'indice, pensieroso. Poi afferra una camicia azzurra, di quelle più nuove, e i pantaloni neri. Sente il rumore della caffettiera ormai vecchia che annuncia che il caffè e pronto, saltella fino in cucina mentre alza i pantaloni fin sui fianchi, la camicia ancora sbottonata. Spegne il fuoco e versa il caffè nella tazza, aprendo la finestrella della cucina che dà in strada. Finisce di abbottonare la camicia, la infila nei pantaloni e abbottona pure questi ultimi; torna in stanza e si infila le scarpe e lotta con le bretelle per attaccarle vicino i passanti del pantalone. Finito di acconciarsi, prega i capelli si asciughino in fretta e intanto torna in cucina, soffia sul caffè per farlo un po' raffreddare, così da non doversi bruciare la lingua. Lo beve in fretta e corre a lavarsi i denti e la faccia; appena uscito spruzza, come suo solito, il profumo sul collo, qualche goccia sui polsi e dietro le orecchie. Chiude le finestre, prende gli anelli, le chiavi, il quadernetto e la penna e si appresta ad uscire dal suo appartamento. Quasi corre al suo studio - ma non proprio, altrimenti suda e oggi non vuole sudare per nulla al mondo. Il passo è svelto, e un leggero venticello gli carezza i capelli e la stoffa della camicia. Salvatore, che sta sistemando i tavoli, e guarda il pittore tutto sorridente che si dirige allo studio. Trattiene uno sguardo curioso e una risata, e lo saluta.

-Salve, signor André! La vedo di buon umore oggi, eh! - esclama, con quella sua "r" così marcata, tipico dell'accento italiano, contento della cosa. André ricambia con un ampio sorriso.
-Decisamente, Salvatore! Buona giornata anche a te! - gli augura, riprendendo il ritmo svelto della camminata. Salvatore lo guarda, mettendo lo straccio sulla spalla e sospira, scuotendo la testa divertito.

-Chissà cosa passa per la testa a 'sti ragazzi: il giorno prima c'hanno il mondo che li schiaccia, e il giorno dopo sono loro a mangiarselo col sorriso! - esclama nella sua lingua madre, ridacchiando e ricordandosi di quando, non tanto tempo fa, anche lui era così. André prosegue nel suo cammino, saluta i conoscenti che vanno al lavoro e arriva davanti il suo studio. Si volge a guardare la cupola della Basilica del Sacro Cuore: sospira, riponendo in quella cupola bianca una sorta di speranza. Si volta: non c'è nessuno quel giorno sul marciapiede, ma non se ne preoccupa; anzi è meglio, avrà modo di sistemare un po' di cose nello studio e continuare il dipinto del paesaggio della Senna. Apre il locale, poggia le cose sullo sgabello più vecchio e afferra pennelli e colori. Si rende conto che ormai ha quasi finito tutto e, appena finito di fare colazione con Lolita - il respiro gli cede solo a pensarci - andrà dal suo fornitore, prendendo tutti i colori scaturiti dallo spettro e le tele più belle. Si siede sullo sgabello, cercando di continuare con i pochi colori rimastigli il dipinto. Molte volte sporge lo sguardo verso la porta, impaziente di sentire i tacchi di Lolita, di sentire la sua aura, il suo profumo, il frusciare della stoffa dei suoi vestiti. Arrossisce poi, riprendendo il lavoro, con gli occhi ebbri della figura della giovane, il corpo affamato della sua voce, le labbra desiderose di sentire ancora una volta la sua pelle. Si massaggia gli occhi con le dita, ridacchiando esasperato: sta rasentando la follia, lo sa bene; ma non riesce a farne a meno. Continua il dipinto della Senna, tratteggiando una figura nelle acque del fiume: e non può non ammettere sia la sua Musa, la sua Verità. Quasi si commuove a ripensare a quel giorno che pare ormai così lontano, alla sorpresa degli occhi di lei, alla sua voce celestiale, al suo sorriso splendente e ai suoi occhi ricolmi di nuova vita. E poi ripensa a ciò che gli ha raccontato, a come Brooklyn sembri averla distrutta e fatto vivere un'intera vita in soli quattro anni. Si chiede se c'è un motivo preciso che l'abbia portata qui a Parigi, si chiede se stia solo scappando da quel posto che l'abbia fatta soffrire troppo, o se sia scappata da un qualcosa di più grande di lei, qualcosa di più grande d'ogni suo respiro, qualcosa che la opprime più della corrente della Senna. Si ricorda dei suoi occhi sofferenti e che forse i suoi colori non riusciranno mai a rappresentare per davvero, e si domanda quanto una persona così piccola possa nascondere di così grande nel corpo e nel cuore. Si ricorda poi della dolcezza nei suoi occhi quando gli sorride, quella curva meravigliosa che le abbellisce il tenero viso, e André sente solo per un istante il respiro venir meno. Vorrebbe saper maneggiare le parole come fa Eugène, solo per farle capire quanto, da quando è entrata nella sua vita, sia tutto cambiato, mutato e non abbia metodo di tornare uguale.

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