Quel bar di Tokyo.

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Ero l'ultima supersite in quel bar, me ne rendevo conto.

Il barista aveva già tirato fuori lo straccio, intento a pulire il bancone, ben più attento a delineare i miei angoli. Una sorta di piccolo rito per invogliarmi ad andarmene. Ma i baristi, si sa, hanno una sorta di codice d'onore : sono ben pochi quelli che ti cacciano. I più ti osservano, perché sanno che chi beve in solitudine non ha niente di bello da raccontare. E men che meno, non ha nessun bel posto dove andare. Nessuna persona ad accoglierne il rientro.

Così stanziavo sul bancone, gli occhi cerchiati dalle occhiaie, e il mio bicchiere di vino rosso riempito fino all'orlo. I miei pensieri correvano lungo un'intersecarsi infinito di rette non proprio parallele. Ero stanca, soprattutto. Ma il vino rendeva le mie pene leggere, e non potevo fare a meno di bere.

Anche dall'altra parte del mondo, i pensieri domestici avevano un peso insostenibile.

E io che pensavo che scappando, si potessero affievolire.

Il barista mi parlò sottovoce, nel suo inglese maccheronico. "Credo che dovrebbe andare a casa a riposarsi" mi suggerì. Alzai gli occhi, per guardarlo direttamente. Fu allora che aggiunse "Oh scusi, intendevo in albergo".

Già, il senso d'estraniazione. Non avere gli occhi a mandorla ti rendeva immediatamente altro. Straniero, esente, non conforme alle loro abitudini.

"Ryonshusho o o-negai shimasu". Chiesi il conto nel mio perfetto e lucido giapponese, aggiungendo poi che avrei portato via la bottiglia. Non avevo di certo pagato una follia per un vino rosso italiano che non mi potessi finire poi tranquillamente nel mio appartamento.

Un po' scosso dalle stranezze che rappresentava la mia persona (una donna sola, sulla quarantina, di bell'aspetto, ubriaca, straniera di aspetto ma non nell'effettivo), mi portò il conto senza guardarmi negli occhi e spense le luci del bar.

Con una camminata non proprio sicura, comincia a destreggiarmi al meglio per tenermi in equilibrio. Ma non era il vino la fonte del mio essere brilla. Il vino mi stava aiutando. Il vino mi ricordava il sapore che avevo dimenticato. La compagnia, gli affetti. La giovinezza, la spensieratezza. Le coltivazioni fresche.

In quella sera di metà agosto, non ero più io. Mi stavo perdendo, dall'altra parte del mondo. Sfocatamente, stavo dicendo addio alla mia identità. Resamene conto, mi ricordai di quel bar dove si vendevano vini italiani importati. Ottima qualità, prezzi esorbitanti. Ma non avevo niente da perdere.

Nel vino ritrovai me stessa, le ultime gocce che rimanevano.

E non importava che fosse sconveniente, per una donna come me, stare in giro a quell'ora.

O stare da sola, ancor peggio.

Mi allontanai tra i neon di Tokyo, i quartieri e le insegne che mi rimbalzano addosso la loro voglia di vivere. E io ero una donna senza volto, in una città noncurante di chi fossi, con una bottiglia di vino sottobraccio...come fosse stato il compagno migliore che si potesse desiderare.

Improvvisamente non avevo più quarant'anni, e non ero neanche più una donna : ero un ragazzo adolescente, intento a vestirsi elegantemente per il ballo della scuola. Sognando il suo primo bacio. Cercando in ogni modo di procurarsi un po' di alcolici, per sentirsi grande.

Avrei mai potuto immaginare che poi li avrei cercati per sentirmi giovane?

Di nuovo pensieri positivi nella mia testa, un sorriso fugace.

Ero già meno sola.

Ero già meno sola

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