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2 Ottobre, 12:23

Ci avevano messo un po' per capire che si era trattato di un falso allarme e che non c'era nessun incendio, o chissà cos'altro, a minacciare la sicurezza - se non consideriamo che uno degli studenti che girava armato - ma alla fine ci erano riusciti. Erano trascorse un paio d'ore da quando ero sfrecciato via da quel bagno, tutto sembrava essere ritornato alla normalità e niente avrebbe portato a indicarmi come colpevole di quella falsa emergenza. Non che mi importasse molto, in quel momento, mentre ancora la scarica di adrenalina faceva il suo effetto. Mi sentivo stranamente rilassato, anche se il pensiero di tutto ciò che era accaduto non accennava proprio a lasciarmi in pace. E come avrebbe potuto, del resto? Avevo salvato la vita ad un ragazzo riportando indietro il tempo per evitare che Jung SonoPienoDiSoldi Hoseok lo uccidesse con una pistola di cui non volevo neanche immaginare l'origine. Non c'era niente di normale in tutta quella faccenda, eppure mi intrigava, fin troppo.
Nell'immenso spazio verde che faceva da spazio comune a tutto il complesso di edifici, mi ero accomodato sull'erba ai piedi di un albero, riparandomi dal sole grazie alla sua ombra. Il tempo iniziava ad essere più fresco, ma il sole picchiava ancora forte, specie a quell'ora, in pieno giorno. Mi era mancata Seoul, dovevo ammetterlo. Era pur sempre la città in cui ero nato.
Avevo divorato il mio sandwich in pochi minuti, con la fame che avevo, e mi ero accorto di avere ancora un po' di tempo libero da spendere come più desideravo. Così, con lo stomaco pieno, tirai fuori dalla borsa uno dei miei libri preferiti che avevo già letto almeno tre volte in passato; lo avevo portato con me da Nagoya insieme ad altri, con l'intenzione di leggerlo ancora, ma non ricordavo di averci lasciato tra le pagine una particolare foto a fare da segnalibro. Quando lo sfogliai saltò fuori subito ed io avrei preferito non aver mangiato nulla, in quel momento, talmente mi si rigirò lo stomaco.

Era una foto che ritraeva me e un altro ragazzo, entrambi tredicenni, impegnati nel fare una faccia buffa. Si chiamava Taehyung. Taehyung era, o forse era stato, il mio migliore amico sin dalla più tenera età. Era il fratello che non avevo mai avuto, peccato che poi tutto si fosse trasformato in ben altro, ma soltanto per me, e fu così che alla fine partire per il Giappone mi fece bene, perché mi obbligò ad allontanarmi da lui, a lasciarmi quella stupida cotta adolescenziale alle spalle. Mi ero reso conto di provare qualcosa per quel ragazzo a soli tredici anni ed ero convinto del fatto che sarebbe passato tutto in poco tempo, che magari fosse solo una mia impressione, un breve periodo, una piccola parentesi; non sapevo neanche cosa significasse amare qualcuno, mi spaventava a morte la sola idea di apprezzare un ragazzo piuttosto che una ragazza. Credevo che non ci avrei più pensato nel giro di qualche settimana, eppure quella storia continuò per mesi, e alla fine neanche il Giappone mi servì per sbarazzarmi dei pensieri che facevo su Taehyung. Gli avevo promesso che non ci saremmo mai separati, che non mi avrebbe mai perso, ma quando partii per Nagoya non avevo alcuna intenzione di mantenere quella promessa, e infatti non lo feci, preferendo pensare più a me stesso, da perfetto egoista, piuttosto che alla nostra amicizia che negli ultimi tempi mi faceva venire le farfalle allo stomaco. Forse ero solo arrabbiato perché mentre io gli morivo silenziosamente dietro, lui continuava a vedermi come un compagno di giochi e di conquiste, rubando il cuore a tante belle ragazze, e questo mi provocava una forte gelosia, ma rimaneva comunque il fatto che non lo sentivo da ben cinque anni, avevo tagliato completamente i ponti con lui senza neanche dargli una misera spiegazione e non sarei stato sorpreso se, incontrandomi, avesse fatto finta di non conoscermi. Me lo sarei meritato, dato il mio comportamento. Non ero stato corretto.

Il problema però in quel momento era un altro: io ero tornato a Seoul e non mi ero ancora degnato di farglielo sapere. Lui viveva ancora lì, quindi avrei potuto incontrarlo in qualsiasi momento e ritrovarmi faccia a faccia col ragazzo di cui mi ero invaghito. Avrei dovuto chiamarlo e non lo avevo ancora fatto, un po' perché mi faceva comodo non doverlo affrontare, un po' perché avevo paura che mi mandasse giustamente a fanculo dopo averlo letteralmente abbandonato e un po' perché mi ero reso conto di non aver mai smesso di pensare a lui, e non come amico.
Rivedere il suo viso in quella foto mi fece contorcere lo stomaco e accelerare il battito cardiaco. Eravamo felici, il giorno in cui la scattai. Insieme noi lo eravamo sempre. Sul retro la data era un po' sbiadita, ma io ricordavo bene che era stata scattata qualche mese prima dell'incidente in cui suo padre aveva perso la vita, mentre la sua, di vita, era rimasta segnata per sempre - altro motivo per cui avrei dovuto rimanergli vicino.
Taehyung ci aveva scritto sopra "migliori amici per sempre" con un pennarello indelebile rosso, indelebile come la sua impronta nella mia anima e rosso come il colore con cui avrebbe voluto tingere i suoi capelli un giorno, così mi diceva sempre. Chissà se lo aveva fatto davvero, alla fine. Non me lo sarei mai dimenticato quel sorriso, così come non avrei mai dimenticato il modo in cui aveva iniziato a farmi sentire quando si avvicinava troppo a me, anche solo per abbracciarmi. Mi voleva un gran bene, Taehyung, ma io crescendo avevo capito di aver bisogno di qualcosa di più, qualcosa che da lui non avrei mai potuto avere, perché era il mio migliore amico, e perché probabilmente gli avrei fatto schifo.
Eravamo sempre stati inseparabili, e poi più niente. A quattordici anni io partii, meno di un anno dopo aver scattato quella foto, e tutto svanì, o almeno così credevo, dato che rivederlo anche solo in fotografia mi aveva scosso parecchio. Mi mancava, mi mancava da morire, ma se era andata in quel modo era tutta colpa mia e non potevo proprio lamentarmi.

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