Perché anche gli angeli, a volte, han paura della morte
Erano in Grecia, quando guardarono, dopo quelle due settimane di viaggio, il telegiornale.
Soggiornavano a casa di una famiglia che abitava sull'isola di Karokairi: la loro casa era proprio sopra il mare.
Emma era seduta accanto a Timothée, stavano mangiando del riso. Cassandra, la padrona di casa, era intenta a rigovernare qualche vecchio piatto, mentre ascoltava qualche radio locale con gli auricolari.
Timothée si divertiva ad attirare l'attenzione di Alexos, il grande labrador bianco.
E poi c'era Emma, che continuava a fissare il mare azzurro oltre la finestra. Le piaceva tantissimo quell'isola. Si diceva che avrebbe potuto viverci tutta la vita.
Poi però posò gli occhi sullo schermo illuminato della televisione davanti a loro, la televisione a cui nessuno stava prestando attenzione.
Non capiva una sola parola del greco, ma i suoi occhi si pietrificarono non appena incontrarono lo scorrersi delle immagini.
C'era una foto di Timothée: la tunica da diploma, il cappellino nero; poi c'era una foto di un uomo: giacca, cravatta, occhi scuri, e poi una bara coperta da un telo con il suo corpo nascosto. Emma deglutì a fatica.
Posò una mano sul ginocchio di Timothée, per attirare la sua attenzione, senza muovere gli occhi dallo schermo.
«Cosa c'è?» chiese lui, ma le immagine risposero al posto della ragazza.
Poi comparse un altro volto, sul televisore: i capelli castani tagliati sopra le spalle, gli occhi scuri, poi qualche immagine del Royal College of Arts.
Emma sobbalzò sulla sedia, non appena la televisione diventò uno specchio davanti a lei. Il telegiornale mostrò poi l'uomo del ferramenta, poi la Ferrari rossa.
La polizia li seguiva, veloce, attenta. E gli stava seguendo chissà da quanto tempo.
Alla fine comparve il volto di una donna: la madre di Emma. Stava piangendo, davanti alle telecamere della televisione.
Timothée spense la spense, una lacrima rigò il viso di Emma.
«Cosa credi che ci faranno se ci trovano?» chiese la ragazza, fissando il piatto pieno di riso.
«Ci conviene che non lo facciano» sospirò Timothée.
«Hai un cellulare con te?» le chiese poi.
Emma continuava a tenere gli occhi sul piatto. Timothée la sentiva ansimare, fermare il muco con il naso, vedeva le lacrime tracciarle lente il profilo della faccia.
«Non preoccuparti» le disse, sfiorandole la coscia. Non era bravo a consolare, non sapeva come consolare. Si trovò in imbarazzo in quel momento.
Emma asciugò le lacrime con le dita, poi chiuse con forza le palpebre, come se così riuscisse a cessare la voglia di continuare.
«Hai un cellulare con te?» le chiese ancora Timothée. Emma annuì, poi glielo passò. Pensava che volesse chiamare qualcuno, un amico, un fratello, un parente, ma lui lo scaraventò al suolo, riducendolo in mille pezzi.
«Che fai?!» lo sgridò Emma, e le lacrime ricominciarono a scendere.
«Con quello in tasca ci trovano in mezza giornata» disse Timothée. Gli dispiaceva parlarle così, mentre i suoi occhi si coloravano di rosso, ma quella era l'unica soluzione.
«Volevo chiamare mia mamma» disse la ragazza in un singhiozzo.
Ed avrebbe così tanto voluta aiutarla, Timothée.
Ed in quel momento, mentre la vedeva piangere, si pentì di essere passato sotto casa sua, quella sera, a Londra.
Si disse che aveva sbagliato tutto, che era un mostro. Che sarebbe dovuto cadere all'inferno da solo, che non avrebbe dovuto trascinare giù anche lei.
STAI LEGGENDO
Torna a casa || Timothée Chalamet
KurzgeschichtenE quando persino Londra le diventa troppo stretta, non le importa più di cosa sia giusto e di cosa no: scappa con lui.