IX: Scelta

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Le prime avvisaglie dell'errore si palesarono quella stessa sera, in cui la bruma s'affollava per il nostro piccolo quartiere di Sunset Lane. Non avevo urlato il nome di Leo, non volevo che vedesse le budella sanguinanti del suo gatto luccicare alla luce della luna.

Avevo le lacrime agli occhi, non solo perché ero sconvolto dalla minaccia fine a se stessa, ma perché colpire l'innocenza di un animale deturpandolo in quella maniera sembrava ancora più mostruoso che sgozzare il corridore razzista e omofobo che mi aveva preso a pugni nel cortile della scuola.

Così ero scattato e non me ne pentivo neppure, almeno fino a quando non ricevetti l'ultimo messaggio prima della tempesta. Ero corso a prendere tutto il necessario per pulire, di nascosto a mia nonna, facendo attenzione a non far sbattere secchio e scopa, a non rovesciare l'acqua sul pavimento.

Eppure, fuori dal portico non c'era più nulla: solo gradini sporchi di rosso e una vibrazione nella tasca dei jeans che mi aveva fatto sobbalzare.
"Se non vuoi giocare con me, allora sarà qualcun altro a farlo."


***

Diamine. Dovrei stare attento a quello che dico prima di liberarlo dalle labbra, aprendo tutti i lucchetti che incatenano le parole alla lingua. Dovrei zittirmi in tempo. Dovrei contare fino a cinque.

Avevo promesso a Dimitrij Jones che avrei messo piede a casa sua per il progetto di letteratura solo nei suoi sogni, così come mi ero convinto, in un angolo speranzoso del mio essere, che stesse ironizzando sulla sua sprezzante ospitalità e non avesse alcuna intenzione di volermi tra i piedi. Invece, a quasi una settimana dall'accaduto, mi trovo costretto a dover cedere all'invito, guardando con amarezza il suo anello ancora incastrato al dito.

«Cazzo!» sbraito, sbattendo la mano contro il volante dell'auto, dal momento che sto guidando verso casa sua, con l'indirizzo impostato da google e un diavolo per capello.

Ci sono cose più importanti di cui dovrei preoccuparmi, come ad esempio dell'inquietante silenzio che ha seguito il minaccioso messaggio dell'assassino. Dovrei essere sollevato dalla quiete che si sta finalmente diffondendo nella mia routine, priva di inquietanti chiamate o criptici sms da mittente anonimo, di cui conosco solo parzialmente l'identità.

Invece, non c'è niente di più spaventoso del silenzio. È come se riuscissi a sentire il killer tramare nell'ombra, preparando la sua nuova mossa mentre affila i coltelli.
Chi ha intenzione di far partecipare al suo perfido gioco? Chi sarà il nuovo martire? Sarò lasciato in pace per davvero?

Ci sono troppi elementi da prendere in considerazione e troppi brutti pensieri che s'affollano nella mia testa. Il più terrorizzante è l'ipotesi - o forse consapevolezza - di avere l'assassino molto, troppo vicino. Come faceva a sapere che avevo raccontato la faccenda del bosco a Leo? Come era riuscito a portare via il cadavere del suo gatto tanto in fretta dal portico dei nonni?

Forse gli è bastato sapere che ero stato convocato dalla polizia poco dopo la morte di Carter, per dubitare di ciò che avevo detto e della mia abilità di tenere la bocca chiusa. In fin dei conti mi avevano visto tutti entrare dentro all'ufficio della segretaria per tener testa allo Sceriffo Davidson e il suo vice, Park. In una piccola città, le voci si spargono piuttosto in fretta. Ma è davvero così? Un giorno prima avevo parlato e quello dopo era accaduto l'incidente a Kitty. Un tempismo perfetto.

C'era un sospetto angosciante che, nell'ultima settimana, non aveva fatto che tormentarmi giorno e notte. Uno di quei sospetti che ti portano a guardare il tuo vicino di casa come se non fosse lo zuccheroso ed esaltato ragazzo gay che si spaccia come il tuo migliore amico, ma lo spietato assassino che sapeva del tuo arrivo in città fin da subito. Non volevo, non voglio dargli ascolto.

Leo non può essere l'assassino, anche se solo lui sa del bosco, solo lui poteva essere abbastanza vicino da disfarsi del cadavere del suo gatto, solo lui mi è stato vicino sin dall'inizio.

"Fra duecento metri, svoltare a destra"

Il timbro piatto del navigatore mi risveglia dal torpore dei dubbi e delle preoccupazioni, sostituendolo con un tipo d'ansia ben più pressante che mi afferra la bocca dello stomaco. Il motivo? Dimitrij. Dovrò affrontarlo senza fare la figura dello stupido, e non so se avrò la forza di tener testa alle sue provocazioni. Fisso il suo anello incastrato al dito e qualche battito mi bombarda il petto, con una puntualità che mi spiazza.


Dannazione, che ho che non va?

Sembra che più io tenti di resistere e andare avanti, più gli eventi intorno a me diventino catastrofici. Così finisco per girare la rotellina del volume della radio al massimo, in modo che la voce del cantante dei Placebo diventi più forte della mia, che mi parla nella testa. "Where is my mind? Where is my mind?" Canta lui, facendo eco ai miei pensieri. Non so se concentrarmi di più sull'imbarazzante incontro che avverrà presto, o sul lato più macabro della mia vita. Dove diamine finirà la mia mente, di questo passo?

Una volta svoltato nel vialetto di casa Jones si capisce subito quale sia il problema che prevale. Jones, per l'appunto. Me lo ritrovo lì, sotto al portico, a braccia mollemente conserte con un piglio da teppista e una spalla abbandonata allo stipite della porta socchiusa, a guardare dritto verso di me. Aspettava che arrivassi, a quanto sembra.

Perciò, mentre il mio cuore ha un vago sussulto per chissà quale motivo, faccio una rapida manovra parcheggiando davanti al suo garage chiuso, che immagino conservi la fantomatica Harley Davidson che sfoggia ogni mattina davanti all'ingresso della scuola, facendo sospirare e bisbigliare il solito stormo di ochette.

Immediatamente dopo, spengo la radio ed esito a slacciarmi la cintura, non molto volenteroso di abbandonare la zona comfort che è il mio pick-up per gettarmi direttamente nelle fauci del lupo. Purtroppo però, è proprio quello che sono costretto a fare. Ci manca solo che, per colpa dell'attesa, Dimitrij venga ad aprirmi lo sportello caricandomisi in spalla per trascinarmi dentro casa come un bottino di guerra. Mi affretto a chiudere l'auto e poi mi guardo frettolosamente intorno: un piccolo giardino poco curato, erba quasi tutta secca di chi se ne frega di azionare l'irrigazione automatica, cespugli incolti e solo qualche fiore nato per caso, non grazie alla cura di qualcuno. Forse è come me l'aspettavo. Sebbene il tatuaggio sul collo del russo rechi delle rigogliose rose rosse, proprio non mi immaginavo di trovare splendidi fiorellini potati, cosa che invece tutti, nel quartiere dei nonni, possiedono.

Tuttavia, la sua è una casa piuttosto bella ed ampia, con le tegole blu cobalto, ampie finestre - coperte da spesse tende che impediscono di sbirciare all'interno - e decori in delicato stucco bianco come il resto della vernice sui muri esterni. Salgo le scalette del portico, dentro cui non c'è assolutamente nulla, nemmeno un tappetino dinnanzi alla porta, dando un'aria sterile all'ingresso; poi mi fermo ad un metro dal biondo, un po' ingessato, con le mani ficcate dentro alle tasche dei jeans per emulare una disinvoltura che mi riesce molto male, visto che tutto il mio corpo grida palesemente "portatemi via di qui!"

«Ehi.» gli rivolgo un cenno del capo, mentre mi scruta da capo a piedi, analizzando la mia maglietta di un grigio scolorito con il logo dei metallica, appena nascosta dalla giacca jeans, per poi studiare tutto il resto del mio abbigliamento con lo sguardo affilato e attento di chi non vuole farsi sfuggire i dettagli, anche nel caso in cui si trattasse del numero delle mie lentiggini.

«Entra.»

Una volta soddisfatto e sicuro di avermi messo ancor più in imbarazzo, si scosta dalla porta per lasciarmi libero il passaggio, poi la richiude alle nostre spalle. E finalmente posso prendermi la libertà di sbirciare l'interno, cercando di nascondere la tremenda curiosità che mi sta logorando da giorni. Esatto, da quando mi ha chiesto di andare a casa sua. Non che io volessi venirci è chiaro, ma il fatto che ora ci sia dentro... rende tutto solo più assurdo e surreale.

Studio la casa con una certa discrezione, ma non posso fermarmi dal restare impalato a guardare le pile di libri che si ergono in mezzo ai corridoi, accanto alle librerie troppo piene, al fianco del divanetto a fare da comodino - visto che piantine e tazze vi sono appoggiate sopra in un equilibrio precario. Mi fermo a fissare un titolo con un sopracciglio alzato. "Cosa successe a Meredith Kercher? Parlano i testimoni - J. Jones"

Aggrotto la fronte. Non stiamo parlando di un famoso caso di cronaca nera?
In fretta mi rendo conto che "J.Jones" si ripete in quasi tutti i libri della casa, il che mi stupisce non poco. Prima che possa fare domande, il russo si accorge che invece di seguirlo sono immobile davanti ad una libreria a curiosare e mi raggiunge in fretta, mettendosi davanti agli scaffali.

«Che stai facendo?» domanda, ma dalla sua aria vagamente accigliata direi che l'ha capito benissimo. Per una volta sono io che lo infastidisco e non il contrario, sono quasi contento di questo.

Solo che, come rimedio al mio ficcanasare, mi stringe la mano come un bambino delle elementari che ha bisogno di essere accompagnato per rimettersi educatamente in fila con gli altri. Velocizza il passo, così non mi dà il tempo di guardare nient'altro, solo pochi dettagli colti da un guizzo rapido d'occhi: un cesto con delle mele, fra cui qualcuna guasta; una pila di quotidiani vecchi tutti ammassati, la totale mancanza di foto di famiglia e una catasta di piatti sporchi dentro al lavello, insieme alle vecchie pellicole del cibo pre-confezionato ancora in giro.
Poi, saliamo le scale di legno e la prima porta di uno striminzito corridoio si rivela essere camera sua. Come potrei descrivere la camera da letto di Dimitrij Jones? E' difficile.

Di sicuro, al contrario del resto della casa non è poi tanto disordinata. E' meglio di ciò che ci si aspetterebbe da uno pseudo-motociclista russo ripetente. Pareti bianche e una sola nera, dal lato del letto; qualche poster di band straniere che non conosco - a parte quella dei pink floyd -, un letto a mezza piazza con un piumone nero, una scrivania strapiena di fogli e spartiti, una chitarra elettrica sistemata ad un angolo con tanto di amplificatore e qualche paio di anfibi - non immaginavo che potesse averne più di uno - sparso per il pavimento. E non dimentichiamoci dell'ampia finestra incassata nel muro a mo' di alcova, con tanto di cuscino su cui potersi sedere per ammirare la visuale del bosco e, più lontano, delle Blue Ridge Mountains. Praticamente l'unica cosa bella di questo postaccio.

«Wow. Tu suoni?» domando, ammirando la sua chitarra, talmente ben messa che fa quasi gola sfiorarla. Ma io mi avvicino semplicemente, stringendo le palpebre come se volessi mettere a fuoco ogni dettaglio della sua perlacea lucentezza, con quei dettagli rosso fuoco che starebbero bene soltanto su una Ferrari.

«La cosa ti sorprende?» Si siede davanti alla finestra, sulla punta del cuscino e le gambe lunghe un sogno stese in avanti, con le caviglie incrociate. Rovista fra le tasche alla ricerca del pacchetto di sigarette, mentre apre uno spiraglio fra le ante in modo che il fumo possa uscire. «In realtà, non lo faccio da un po'.» Parla a denti stretti per non farsi cadere la sigaretta dalla bocca, cercando lo zippo nei jeans.

«E perché?» chiedo, cercando di mettermi a mio agio in un ambiente che di sicuro non mi è amichevole: sarebbe strano restare in piedi come uno stoccafisso, ma sarebbe ancora più strano sedersi sul suo letto, quindi rimango appoggiato al bordo della testiera posteriore cercando di non sembrare uno che cammina in un campo minato e sta molto attento a dove mette i piedi, con la paura estrema di saltare in aria. Eppure, la mina più grossa ha un aspetto a dir poco invitante, con quella maglietta bianca che nella sua semi-trasparenza lascia intravedere la linea marcata dei muscoli sul suo petto.

Distolgo lo sguardo, in imbarazzo, inalando l'odore di tabacco che si sparge dalle sue labbra in anelli di denso fumo bianco. «Non sono ispirato.» Alza le spalle, continuando a fare esattamente quello che fa a scuola: puntarmi ostinatamente con quegli ipnotici occhi di vetro, capaci di riflettere perfino l'oscurità delle mie pupille.

«Ah.» mi limito a rispondere, grattandomi la nuca con un'aria imbarazzata, andando a prendere poi lo zaino dalle mie spalle in cerca di un'ancora di salvezza, qualcosa, qualsiasi cosa capace di distrarmi. Per lunghi attimi in cui lui tace, io non so proprio che altro dire: tante idee di conversazione mi tentano, tipo domandare dei gruppi nei poster sulle pareti, oppure chiedere di quei libri. Nel pensare a J. Jones mi viene alla mente l'interrogatorio che abbiamo sostenuto insieme, e il momento in cui il vice-sceriffo per provocarlo ha fatto menzione a suo padre. «Quindi... Vivi da solo?»

Cerco di giostrarmela in questo modo, muovendomi irrequieto per la stanza come un turista nella mostra d'arte di un pittore che non ha mai sentito nominare, fissando dettagli della camera oltre a quelli che attirano subito l'attenzione. La manica della giacca di pelle che sporge dall'orlo chiuso dell'armadio, il cestino pieno di fogli o giornali accartocciati o la totale mancanza di libri al contrario del resto della casa.

«No.» Inala una copiosa boccata di fumo grigio, poi sbatte la cenere fuori dalla finestra senza aggiungere altro. Evidentemente non ha la minima intenzione di scendere nei dettagli, e forse è il momento che io chiuda il capitolo "Dimitrij Jones" per aprire quello del buon senso dentro al cervello.

«Allora, la Phantasmagoriana.» Cambio in fretta l'argomento, acciuffando il libro dallo zaino per arrivare dritto al sodo: abbiamo chiacchierato fin troppo. Sono venuto a casa sua solo per un semplicissimo compito di letteratura. «Qual è il racconto che dovremmo scegliere, alla fine? Manca poco alla presentazione dei nostri lavori.» Lavori, poi, è una parola molto pomposa.

Devo aver attivato qualcosa nella sua testa, perché all'improvviso getta la cicca dalla finestra e mi si avvicina con un'aria tutt'altro che studiosa, ravvivandosi il ciuffo chiaro all'indietro. Di nuovo, un battito persistente bussa contro al mio petto, facendomi chiudere di corsa lo stomaco.

«Credi che ti abbia invitato qui per questo?» esclama, lasciando andare una risata bassa e roca, che sporcata dall'appuntito accento slavo lo fa apparire a tratti sensuale, a tratti esotico come una spezia sconosciuta sotto al palato. «Per uno stupido compito di letteratura?» Man mano che si avvicina, io indietreggio, fino a cadere a sedere sul letto. Il suo letto, per la cronaca.

«E per quale altro...» mi zittisco nell'istante in cui mi raggiunge. Le nostre ginocchia collidono in uno strofinio di jeans, il mio polso non si ribella alla morsa delle sue dita, ai cerchi che mi disegna col pollice sul palmo dellamano. «Che stai...» Ancora una volta non concludo la frase, con le parole appese sulla lingua e la mia dignità sul filo del rasoio, in attesa di cadere. Lascio cadere la schiena sul materasso, la testa appena inclinata in avanti e il corpo tutto ingabbiato sotto il suo. Incombe su di me come un'aquila su un agnello, un ginocchio fra le mie gambe e una mano accanto ai miei capelli, che si sposta poi sulla mia nuca, inanellandosi fra la corolla di ricci bruni che mi porto appresso ogni giorno.

«Ti avevo detto che avrei finito quello che abbiamo cominciato, Lentiggini.» sussurra, ad un soffio dalla mia gola, con le labbra carnose che mi sfiorano la pelle per riempirmi di brividi elettrici. Riesco a sentirli correre su tutta la schiena, solcarmi la carne, pervadermi il sangue. Brividi di un sentimento che non riesco a decifrare. Sa di calore, e mi esplode sulle guance in un rosso del tutto eccessivo.

So a cosa si riferisce: la festa di Helen, lo stanzino, i sette minuti in paradiso che mi sono sembrati più un giretto fra le fiamme dell'inferno. Perché sono sicuro, anche adesso, di sentirmi bruciare da capo a piedi solo a causa della sua vicinanza. «Che... che cosa vuoi dalla mia vita?» sussurro, mordendomi le labbra per non far vacillare la voce. «Stai cercando di... di ridicolizzarmi?» Sento il mio fiato farsi più corto e le sue mani scivolare sotto alla mia maglietta, più fredde sul ventre, spingendomi ad inarcare leggermente il corpo. Lo sento disegnare le linee della pelle, sfiorare l'ombelico, arrivare allo sterno, e poi tornare giù, lentamente. «Di dire a tutti che... le tue attenzioni mi piacciono?»

Cazzo.

Vorrei rimangiarmi immediatamente quello che ho detto, ma dal suo sogghignare soddisfatto direi proprio che è troppo tardi. «Quindi ti piacciono, mh?» Distolgo lo sguardo, avvampando violentemente senza più avere scuse nel mio repertorio. Perché non mi disgusta? Non riesco a capirlo. E' un uomo, proprio come me, e fino ad ora non avevo mai provato attrazione per qualcuno del mio stesso sesso. Non che ne avessi provata per una ragazza, in verità. Brancolo in un territorio del tutto inesplorato mentre sento il corpo farsi un tizzone ardente, il sangue lava sfrigolante, il cuore un tamburo.

«Guardami in faccia, altrimenti non è divertente...» mormora, spingendomi automaticamente ad incrociare il suo sguardo. Mi folgora. Abbastanza da non rendermi conto che mi ha sollevato la maglietta alle spalle, ed ora disegna la linea dei miei fianchi con entrambe le mani, come se volesse delineare la mia sagoma per ritagliarla. Poi le dita armeggiano con i bottoni dei miei jeans, e sobbalzo a mettergli le mani sul petto, del tutto colto alla sprovvista.

«Aspetta!» gracido, quasi senza voce, col risultato di farmi prendere le mani, farmi leccare i polsi, seminare una scia di baci sugli avambracci.

«Lasciami fare.» Ma che bastardo. Eppure il suo sguardo è così intenso e spiazzante che non riesco ad oppormi, è come se i miei arti fossero di gelatina. Non un muscolo riesce a ribellarsi, l'unico è il cuore, che non smette di darmi il tormento nel gridare dentro alle mie orecchie, in un modo talmente rumoroso che deve sicuramente sentirlo anche lui. «Lasciami fare...» ripete, schioccandomi un bacio sulla bocca. Due.

E poi mi morde il labbro inferiore tirandomi a sé, fino a placare del tutto la mia fiacca ribellione. Schiudo timidamente la bocca col risultato di annaspare nel suo bacio, labbra a labbra, lingua a lingua e respiri contro respiri. Come la prima volta, sa di agrumi e di tabacco, e il suo respiro è talmente caldo che potrebbe riscaldarmi l'anima tutta insieme. Se fino a poco fa avevo dei problemi, delle preoccupazioni, delle paure, adesso sono un flebile ricordo che sfuma rispetto al bollore delle sue attenzioni.

In qualche modo è riuscito a sbottonarmi i pantaloni e non smette di stuzzicarmi l'elastico dei boxer con il solito fare beffardo con cui mi chiama Lentiggini. Gli stringo una mano sul petto, aggrappandomi alla sua maglietta, confuso, come se non riuscissi a credere a tutto quello che sta accadendo. Ma riesco a sentirla, la pelle solida sotto al mio tocco che sembra farsi finalmente più calda.

Socchiudo gli occhi, travolto dal bacio e con la pelle d'oca, inarcando il bacino quando sento chiaramente le sue dita accarezzare la mia intimità, stringendo in un pugno il lembo della sua maglietta con un gemito che gorgoglia fra le nostre labbra. Mi stacco, cercando di stare al passo con la velocità di quello che sta succedendo.

«Fer... Ah-» sospiro, inerme al suo tocco, che si fa più approfondito, così come lo fanno i suoi baci sul collo, i succhiotti, i piccoli morsi che continuano a lasciarmi costellazioni di segni rossi lungo tutta la curva del mio collo. «Ngh... Dim..» annaspo, con i boxer calati alle cosce e il dorso della mano che mi preme sulla bocca per impedirmi di ansimare ancora più forte, nonostante le sue dita ora stiano stringendo la virilità per incominciare a muoverla, perfettamente consapevole delle sensazioni che riesca a provocarmi.

Reclino la testa all'indietro, tappandomi la bocca più forte, con un susseguirsi di gemiti più forti e più persistenti che gridano dalla gola e sperano di essere liberati, uditi. Qualcosa si sente, qualcosa si soffoca, ma la mia espressione stravolta dal piacere sconosciuto di ciò che sta succedendo sicuramente parla per sé. E Dimitrij Jones non si perde nemmeno un singolo istante.

«Ah...!» mugolo, aggrappandomi al lenzuolo per strattonarlo fra un brivido e l'altro.
E poi all'improvviso un suono: quello di una chiamata in arrivo sul mio cellulare. Il russo lo ignora, e ovviamente... Ovviamente lo ignoro anch'io. Troppo trascinato in quello che sta succedendo, troppo focalizzato sulle sensazioni che scaturiscono con impetuosa brama dal bacino in giù, spingendomi ad arricciare le dita dei piedi e strizzare gli occhi, tendendo tutto il corpo come una corda di violino.

Ma il suono si ripete ancora una volta. E ancora una volta. Le chiamate diventano due e poi quattro, e alla fine scatto ad alzarmi repentino boxer e pantaloni insieme, recuperando dalla tasca il cellulare per rispondere con una voce affannata e stravolta, senza fiato, stridula quasi. E' Leo.

«Cosa? Che... che c'è... Che c'è, che c'è?» balbetto, cercando di mettermi in piedi barcollando mentre mi abbottono i pantaloni, sotto allo sguardo divoratore del biondo. Sembra che io sia il gelato e lui il cucchiaino.

«Quello mi ha scritto!» Una pausa sbigottita. «Carter! Carter mi ha scritto!»
Cioè: l'assassino gli ha scritto.



***


Blood calls Blood | 𝑩𝒐𝒚𝒙𝑩𝒐𝒚 | (IN PAUSA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora