Due

4K 156 10
                                    

Federico
La 'mattina delle mattine' iniziò come tutte le altre.
Il giorno prima avevo avuto l'ennesima discussione con Caterina e, soltanto quello dopo, avevo conosciuto Mia.
Passai l'allenamento ed il pranzo a pensare a come potesse essere.
Me la immaginai con i capelli chiari, gli occhi azzurri e sicuramente i tratti dolci...non che fosse molto importante.
Ero consapevole che si sarebbe potuto benissimo trattare di un camionista con neanche un pelo in testa o di un'ultra cinquantenne con la passione per i gatti e le telenovelas, ma, una parte di me, era convinta del contrario.
Non avevo mai creduto a quel genere di cose.
Mia madre me lo diceva sempre che le cose migliori accadono per caso.
Avevo sempre pensato che il caso non esistesse proprio.
Io credevo nel destino.
Da quella mattina però, cominciai a pensare che non ci fosse alcuna differenza.
Probabilmente, se non ci fossimo conosciuti quel giorno o in quel modo, sarebbe successo comunque. Forse più avanti, forse da vecchi.
Ci saremmo incontrati in un bar, su internet o alla stazione dei treni. Le avrei chiesto l'ora o direttamente di uscire.
Mia c'era sempre stata.
Dovevo solo trovarla e quel giorno ci ero riuscito.
Tra milioni di persone, avevo scritto proprio a lei.
«Resti a fissare gli scarpini tutto il giorno?» domandò Simeone, indicando l'uscita dello spogliatoio. «Andiamo?»
«Arrivo» dissi, tirando fuori il cellulare per l'ultima volta.
"Ciao Federico" aveva risposto.
Non replicai e lasciai il Campini, prima che Giovanni desse di matto.
Durante la sessione mattutina, tra un tiro e l'altro, avevo cercato di elaborare un discorso da fare a Caterina.
«Con Cate?» aveva chiesto Luis, quasi leggendomi nel pensiero.
«Sinceramente non lo so neanche io».
«Ma avete parlato?»
«Dovrei chiamarla».
«Dovresti?»
«Non l'ho ancora fatto» spiegai. L'idea di sentirla lamentarsi per ore non mi allettava molto e, rimandare quel momento, sembrava la soluzione migliore per le mie povere orecchie.
«Non farlo».
Muriel non era l'unico a non sopportarla. Tutta la squadra non vedeva l'ora che ci lasciassimo e persino il mio migliore amico, Gianmarco.
Decisi di passare a casa sua per parlarle.
«Che ci fai qua?» domandò, non appena entrai.
«Non ho ancora capito perché sei arrabbiata con me».
«Potevi almeno mandare un messaggio».
«Non ricordavo il tuo nuovo numero» ammisi, pensando, inevitabilmente, ad Amelia.
«Immagino».
«Credo di aver bisogno di una pausa».
«Che?» esclamò, come se fosse appena caduta dalle nuvole. «Sei tu che hai sbagliato e vuoi lasciarmi?»
«Ti ho chiesto solo una pausa» puntualizzai.
«Ma perché?»
«Intanto dimmi che cosa ho fatto di male».
Per Caterina provavo un sentimento che non riuscivo a capire. Lì per lì, non sarei stato capace di descriverlo.
Col tempo, mi resi conto di non esserne proprio in grado.
«Non è importante» mormorò, avvicinandosi. «Facciamo finta che non sia successo nulla».
Iniziai a credere che fosse bipolare.
«Ma...».
«Lascia stare» sussurrò, mettendomi un dito sulle labbra.
«Sei dispiaciuto, no?Basta questo».
«Eh?»
«Vengo a vedere la partita domenica e poi stiamo un pò insieme».
Quando era sugli spalti, la Fiorentina perdeva.
Era un dato di fatto, ma evitai di dirglielo.
Cercai di chiudere la conversazione, ma lei mi trattenne a casa sua per tutto il pomeriggio e non smise un attimo di parlare.
Quando tornai al mio appartamento era già sera.
"Buonanotte" scrissi a Mia senza pensarci.
"Così di punto in bianco?"
"Credo di sì".
"Notte Federico".
"È stata una giornataccia".
Mi sentii uno stupido due secondi dopo aver premuto invio.
Non comprendevo come fosse possibile nutrire tutto quel interesse per una sconosciuta.
Di lei non sapevo niente. Né che aspetto avesse né la sua età e nemmeno dove abitasse.
Mi stesi sul divano ed accesi la televisione, sperando che, avere come sottofondo una partita di pallacanestro, potesse conciliare il sonno.
Inconsapevolmente però aspettavo un messaggio da parte di Mia.
Avevo anche provato a salvare il numero, ma, sul suo profilo Whatsapp, non trovai alcuna foto.
La curiosità stava divorando ogni parte di me.
Il telefono s'illuminò, ma rimasi deluso nel constatare che fosse soltanto Caterina.
L'avevo convinta a non passare la notte assieme e, da quando l'avevo salutata, mi aveva mandato almeno una ventina di messaggi.
Avevamo chiarito, ma l'idea di prendere una pausa continuava a girare intorno a me come una trottola.
Ne avrei volentieri presa una.
Una di quelle che si prolungano all'infinito.
Lei un pò mi piaceva, ma ero sicuro che non fosse la ragazza per me.
Sono cose che ti senti addosso. Sulla pelle.
Il pensiero di averla accanto non mi faceva venire i brividi e, se mi fosse successo qualcosa di bello, non sarebbe stata la prima persona alla quale lo avrei detto.
Non ne avrei avuto l'esigenza.
Non ero innamorato e probabilmente non lo ero mai stato veramente.
La colpa non era sua o delle altre. Era una cosa soltanto mia.
Ero io che chiedevo troppo.
Quella che cercavo era un'intesa totale, di quelle che non si hanno con chiunque.
Qualcosa che andasse oltre.
«Oltre cosa?» aveva domandato Gianmarco, quando, dopo un bicchiere di vino di troppo, gliel'avevo confessato.
Ci pensai tantissimo, ma finii per capirlo.
'Oltre sé stesso' era la risposta giusta.
Un legame che oltrepassasse i suoi stessi limiti.
Con Cate non c'era mai stato niente di tutto ciò. Nessun'attrazione che superasse quella fisica.
Non c'era mai stato un momento in cui avessi pensato che, se non l'avessi stretta tra le mia braccia, non sarei riuscito a superare la giornata.
"Vuoi parlarne?" chiese Mia.
"Ti interessa davvero?"
"Non riesco a dormire".
"È che voi ragazze siete complicate".
Lo dissi un pò per scherzo, un pò per frustrazione, senza neanche lontanamente immaginare che avrei scelto di complicarmi la vita proprio con lei.
Di rendere complesso, qualcosa di apparentemente semplice.
Era il complicato, però, quello che mi avrebbe fatto innamorare: i suoi casini, le sue debolezze, le sue paranoie. I suoi sbalzi d'umore e la sua paura di essere lasciata da sola. I ricordi di suo padre e gli incubi che non raccontava.
"Non siamo tutte uguali".
"Fa finta che non ti abbia scritto una cosa del genere" digitai.
"Perché?"
"Non intendevo dire che anche tu sei così. Non ti conosco".
"Quindi perché mi scrivi?' replicò.
Era una bella domanda.
Al tempo ci stavamo già aspettando, senza saperlo.
In silenzio e da lontano.
Aspettavamo qualcuno per cui perdere la testa.
Una persona con cui svegliarsi la mattina, con i segni del cuscino sul volto ed il caffè da preparare.
Non volevamo qualcosa di facile. Desideravamo soltanto che ne valesse la pena.
"Hai ragione. Ora smetto".
La chiamai.

Stubborn Love / Federico ChiesaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora