Otto

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Mia
Restammo assieme fino alle tre passate.
Dopo il cinema, ci fermammo in macchina a parlare.
Lo rimproverai per non essere uscito allo scoperto al mio "Chiesa è un fuoriclasse".
«Ero talmente onorato che ho preferito non dire niente» rispose lui con un sorriso. «Ma lo pensi davvero?»
«Forse sì, forse no» lo punzecchiai.
Lui però si incupì ed io, dopo aver capito quanto ci tenesse, lo rassicurai.
«Sei IL fuoriclasse».
«Ti va di fare una passeggiata?»
«Piove» gli feci notare.
«Dovrei avere un ombrello nel portabagagli».
L'ombrello di cui parlava, si rivelò piccolissimo, rosa e con qualche unicorno glitterato sopra.
«Non sapevo che Federico Chiesa avesse una passione segreta per gli unicorni».
«È di mia sorella».
«Certo» lo provocai e lui cercò di farmi il solletico.
«Questo è sleale!» esclamai tra una risata e l'altra.
«Ah, lo soffri?» chiese ironico.
Camminammo per le vie illuminate di Firenze, praticamente appiccicati.
Mi portò, nonostante il freddo di dicembre, a prendere un gelato.
«Il tuo è al pistacchio?»
«Vorresti avere il privilegio di assaggiarlo?»
«Dovevo prenderlo pure io al pistacchio» commentò sconsolato.
«Condividere il cibo è come stringere un patto per la vita» asserii, passandogli il mio cono.
«Patto per la vita sia».
«Lo dici perché non mi conosci».
«Non ancora» puntualizzò, facendomi sorridere. «La prossima volta scelgo meglio».
L'idea che ci sarebbe stata una 'prossima volta' mi scombussolò la mente.
Era bello sentirselo dire.
Era come se ci fossimo fatti una promessa.
Se avessi potuto, l'avrei rivisto anche il giorno successivo, e, pure in quel caso, avrei comunque dovuto aspettare fin troppo tempo.
«Ho gli allenamenti domani» sospirò il calciatore, dando una rapida occhiata all'ora.
«Meglio andare a casa».
Gli indicai la strada e, durante il tragitto, cantammo a squarciagola qualunque cosa passasse per la radio.
Mi riaccompagnò fino al portone e, guardandomi negli occhi, mi domandò: «Posso rivederti?»
«Il mio numero ce l'hai».
«Buonanotte Mia».
«Buonanotte Federico».

Federico
Se mi avessero chiesto di descrivere il nostro incontro con una sola parola, avrei sicuramente detto: wow.
Quando tornai a casa, non riuscii a dormire neanche un'ora.
Senza accorgermene, arrivarono le sette del mattino.
Io ero rimasto sul divano ed avevo passato il tempo a curiosare il suo profilo Instagram.
Mi ero reso conto che nessuna fotografia avrebbe reso giustizia al suo sorriso.
Amelia era esattamente come l'avevo immaginata.
Se avessi dovuto disegnarla, prima ancora di vederla, l'avrei fatta proprio in quel modo.
Dal naso all'insù, alla forma della bocca.
Dalla dimensione degli occhi, alla tenerezza del suo incarnato.
Come se la sua immagine fosse già stata impressa dentro di me.
"Dormi?" le scrissi ad un certo punto.
"Vorrei, ma non riesco" fu la sua risposta.
"Siamo in due".
"Non ho proprio chiuso occhio".
"A cosa pensi?"
"Tu?" replicò.
"L'ho chiesto prima io".
"È la classica risposta di un ventunenne amante degli unicorni".
Scoppiai a ridere da solo, illuminato soltanto dallo schermo del cellulare.
Quella ragazza aveva l'innata capacità di farmi sorridere.
Sentii bussare diverse volte e, come uno stupido, sperai subito che fosse lei.
Solo quando aprii la porta e mi ritrovai davanti Caterina, realizzai che Mia non avesse la benché minima idea di dove fosse casa mia.
«Buongiorno bellissimo!» mi salutò, andando a tirare su le tapparelle.
«Ciao».
«Ho portato la colazione!» esclamò, dandomi un bacio.
«È ancora presto» borbottai, accecato da quell'improvvisa ondata di luce.
«Sono le sette e quaranta» disse. «Non hai gli allenamenti tra mezz'ora?»
«Oh, cazzo!»
Me ne ero completamente scordato.
E pensare che avevo salutato Mia soltanto perché mi sarei dovuto svegliare presto.
Il sovraccarico di pensieri mi aveva messo a soqquadro la mente.
«Tra l'altro...hai delle occhiaie terribili».
«Grazie».
«Ma hai dormito?»
«Non proprio».
«Ieri sera mi hai fatta andare via perché dovevi dormire».
Mi diedi una sistemata ed ingurgitai il cornetto che aveva portato Cate.
«Vado» le annunciai. «Ed anche tu».
«Non posso restare qua?»
«A fare?»
«Ad aspettarti».
«Non serve» la liquidai, invitandola ad uscire dall'appartamento.
Quando se ne andò, presi il borsone e, per le scale, risposi all'ultimo messaggio che avevo ricevuto.
"Non so tu, ma io sto pensando a te".

Stubborn Love / Federico ChiesaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora