Dieci

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Federico
Non riuscii a concentrarmi più di tanto.
I miei occhi viaggiarono dalla palla alla curva per novanta minuti e recupero.
Mia era là ed era bellissima.
Non potevo fare a meno di cercare il suo sguardo.
Ad un certo punto, mi persi talmente tanto, che, andando a festeggiare un gol, inciampai da solo, proprio davanti a lei.
Cercai di sdrammatizzare, mettendomi a ridere, ma capii subito di aver fatto una figuraccia.
La partita finì ed io, dopo essermi cambiato velocemente, corsi da lei, Silvia e Gianmarco.
«Vuoi che andiamo a bere qualcosa?» mi domandò quest'ultimo, mentre le due amiche parlottavano tra di loro.
«Veramente...».
«Capito» mi interruppe, guardando Mia. «Vedi di non correre troppo».
«Correre?»
«La conosci appena».
«È quello che voglio. Conoscerla».
«E Caterina?»
'L'ho completamente rimossa dalla mia testa' sarebbe stata la risposta giusta.
«Mia è un'amica» mi limitai a dire, amareggiato dalle mie stesse parole.
«Va bene» farfugliò poco convinto.
Si diresse verso le due ragazze e mise un braccio attorno alla mora, stringendola a sé.
Amelia distolse per l'ennesima volta lo sguardo, riponendo l'attenzione sui suoi guanti di lana.
Mi avvicinai a lei e, con delicatezza, le tirai su il mento.
«Ti va se andiamo a fare un giro?»
«Sì» rispose, incapace di restare seria.
Presi il borsone e lasciammo il Franchi.
Camminando verso la macchina, la sentii battere i denti.
«Hai freddo?»
«Beh...» replicò, con le labbra praticamente viola. «Avrei dovuto tenere la sciarpa».
«Vuoi che ti porto a casa?»
«Vuoi che vada a casa?»
«No, ma non voglio che tu muoia di freddo».
«Va bene allora...» commentò incupita.
«Ti porto a casa» annunciai. «Casa mia però».
Durante il viaggio in macchina, rimase incollata alle ventole dell'aria calda.
Arrivammo da me dopo neanche dieci minuti, durante i quali, il mio desiderio di abbracciarla, crebbe alle stelle.
La feci entrare ed accomodare sul divano, per poi porgerle una coperta.
Mia non aveva smesso di guardarsi attorno un attimo.
Le sue pupille si erano dilatate dalla curiosità da quando aveva varcato l'ingresso, spostandosi dai quadri alle pareti, al caminetto ancora spento.
«So io che cosa ci vuole» asserii, dirigendomi in cucina.
«Cosa?»
Mi seguì e, quando tirai fuori il preparato per la cioccolata calda, i suoi occhi diventarono a cuore.
«Io ti adoro!» esclamò. «Sì, cioè...nel senso...».
«Ho capito» risi, sperando di aver mal interpretato il significato di quella frase.
«Ti aspetto di là» mi comunicò con un certo imbarazzo nella voce.
Non appena fu tutto pronto, riempii due tazze e la raggiunsi in salotto.
«Tutto qua?»
«Eh?»
«Mi aspettavo come minimo una tazza a forma di sirena».
«La conservo gelosamente vicino a quella con gli unicorni» scherzai, rigirando il cucchiaino. «Hai ancora freddo?»
Lei scosse la testa e sorrise.
Riuscii ad intravedere delle pagliuzze color smeraldo nelle sue iridi azzurre, illuminate dalla fioca luce della lampada.
«Ti va un film?»
«Tanto poi non lo guarderei neanche» replicai, aggiungendo un pò di latte.
Piuttosto che uno schermo, sarei rimasto ad osservare lei tutta la notte.
Ogni volta che posavo i miei occhi su Mia, ne scoprivo una nuova sfaccettatura.
«Ti ho sognata» le confessai, senza neanche sapere perché.
Il giorno prima, mi ero addormentato pensando a quanto potessero essere morbidi i suoi capelli ed a quanto avrei voluto avvolgerci attorno le dita.
Quel pensiero mi aveva accompagnato anche nei sogni ed, al mio risveglio, non ero più stato in grado di togliermelo dalla testa.
«Anche io».
«Ti sei sognata?»
«Ho sognato te» rise, coprendosi la faccia. «È una cosa imbarazzante».
«Perché?»
«Quasi non ti conosco».
Ero stufo di sentirmelo dire.
«Io voglio conoscerti» sussurrai, scandendo bene ogni parola. «Credo di non aver mai voluto qualcosa così tanto».
«La mia vita è un casino».
«Ho tutto il tempo del mondo».

Mia
Le ore passarono così velocemente che neanche me ne resi conto.
Alla fine, preparò un'altra cioccolata calda ed accese il camino e la televisione.
Come aveva preannunciato, non la guardò neanche per un istante.
Davanti al fuoco, cominciammo a parlare di qualunque cosa.
Da com'era nata la mia passione per la letteratura, all'ansia che aveva ogni volta che giocava una partita con la Nazionale.
Cercai di farlo entrare nel mio mondo un passo alla volta, svelandomi poco a poco.
Gli raccontai di quella volta in cui mi ubriacai fino a stare male e dei miei sogni nel cassetto.
«Qual è la tua paura più grande?» domandò all'improvviso.
«Che ora è?»
Cambiare argomento era sempre la scelta giusta in momenti come quello.
«Ehm...le tre» rispose, tirando fuori il cellulare.
«Devo andare».
Frugai nella borsa alla ricerca delle chiavi di casa e del telefono, ma non trovai le prime da nessuna parte.
«Hai provato nelle tasche?» chiese Federico.
«Sì.»
«E?»
«Niente. Mi sa che dormirò sulla sdraio in giardino».
«Tua madre?»
«Mi ammazza se la sveglio» sospirai.
«Vittorio?»
«È da un amico».
Feci per andarmene, ma lui mi bloccò prima che potessi raggiungere il portone.
«Dormi qui» propose. «Ormai è notte fonda».
«Qui?»
«Io sto sul divano» mi rassicurò con un sorriso. «Ti presto qualcosa da mettere».
«D'accordo».
«Vado a prenderti dei vestiti» disse, andando in camera sua.
Non appena il numero venticinque sparì dalla mia vista, riagguantai la borsa, sperando, in quel casino, di trovare almeno un burrocacao.
Dopo averla quasi svuotata, mi accorsi della presenza delle chiavi di casa, nascoste tra le salviette struccanti, le gomme ed il portamonete.
«Ecco!» esclamò Chiesa, sopraggiunto dall'altra stanza.
«Ecco!» ripetei io nervosa, cercando di rimettere tutto in ordine.
«Le hai trovate?»
«No» mentii.
Non sarei stata capace di spiegare il perché l'avessi fatto.
Forse sì.
Forse era più facile convincersi di no.

Stubborn Love / Federico ChiesaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora