Capitolo 1 Rabbia

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Detesto quella sensazione che ti risale lungo la schiena e ti dice che stai per commettere uno sbaglio agendo d'impulso, non la sopporto davvero, mi rende irritabile.

Guardando dal finestrino, mentre stiamo atterrando, mi dico che, però, ho dei buoni motivi per essere nervoso, o almeno tento di tranquillizzarmi così.

"Odio essere qui", è il primo pensiero che mi colpisce appena scendo dall'aereo e metto piede sul suolo del John Fitzgerald Kennedy International.

Detesto questo aeroporto, sono intollerante all'odore di questa città, ai suoi suoni, colori, ricordi.

A tutto.

New York per me significa dolore, mi rammenta un passato distante che vorrei non fosse mai esistito e tornarci lo riaccende con prepotenza.

Wilson Holt ha deciso di tirare le cuoia all'improvviso, però, quindi mi tocca.


Ma non è per questo che sono venuto, no. Non presenzierò certo al funerale di mio padre.


Che marcisca sottoterra e sia circondato, mentre si accinge a farlo, da tutte le persone rivoltanti delle quali si è contornato per la sua intera esistenza. Che ci vadano le sue amanti al suo fottuto funerale.


Sono venuto fin qui perché, essendo il suo unico erede, la Holt ora è mia e mi toglierò la più grande soddisfazione della mia vita.


Distruggerò la casa di moda di mio padre, chiuderò tutto.


Finito.


Sarà il mio modo di cancellare il suo nome e portarci quello di mia madre.


Era già da un po' che pensavo di espandere la mia azienda a New York, volevo fargli concorrenza, rovinargli il mercato, distruggerlo; il negozio è quasi pronto per l'apertura, volevo iniziare pestandogli i piedi con quello e guardarmi intorno per acquistare uffici, magazzini e stabilimenti per la produzione, ma la chiusura della Holt mi dà accesso immediato agli spazi che mi servono.


Purtroppo, il bastardo mi ha tolto anche la possibilità di godermi la soddisfazione di assistere alla sua rovina poco per volta, mi accontenterò di sapere che da domani in poi non sarà più confezionato nessun abito marchiato Holt.


Ancora mi domando, visto il nostro odio reciproco, come mai non mi abbia diseredato intestando diversamente i suoi beni. L'unica risposta che riesco a darmi è la sua arroganza.Probabilmente era convinto di campare ancora a lungo, talmente a lungo da non necessitare di cambiare il testamento. La morte ha sorpreso anche lui e solo questo mi consola. Almeno, in tutto ciò, qualcuno che si è preso gioco di lui esiste: il destino. O, forse, è stato il karma.


Quale sia stata la causa, non posso che esserne felice, anche se avrei preferito rovinarlo con le mie mani.


«TriBeCa», interrompe le mie riflessioni la voce di Kiljan.


Sono stato talmente preso dai miei pensieri truci che ho raggiunto il taxi senza neppure rendermene conto.


Il mio amico e socio in affari mi lancia un'occhiata.


«Spero che la casa ti piacerà», dice guardando fuori dal finestrino.

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