Capitolo 3 - Imprevisti

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È l'alba.

Io e Kiljan siamo su un taxi che ci sta conducendo agli uffici della Holt.

«Profumi ancora di fragola», mi prende in giro Kiljan, mentre mi annusa smaccatamente, alludendo all'incidente di ieri sera.

«Finiscila!», intimo esasperato.

Kiljan si sbellica dalle risate.

«Te le ha suonate di santa ragione», continua a sfottermi. «Il grande Zackary messo al tappeto da un cocktail rosa», infierisce dandomi una gomitata.

Sto per mandarlo al diavolo, ma poi mi sforzo di stare al gioco. So benissimo perché lo sta facendo. Vuole distrarre la mia mente dalla nostra meta e non posso che essergliene grato.

Kiljan è come un fratello per me. Se non ci fosse stato lui quando è morta mia madre, non so che cosa avrei fatto o come mi sarei ridotto.

«Devi riconoscere, però, che ho scelto bene. Chissà di quali acrobazie sarebbe stata capace a letto una bomba a orologeria del genere», commento ripensando alla ragazza di ieri sera.

Mi pare ancora di sentire i suoi capelli di seta tra le dita: nerissimi, lucenti e in armonioso contrasto con gli occhi blu e la pelle chiarissima.

"Lex", rievoco mentalmente il suo nome quando la conversazione muore.

Mi è rimasto impresso nonostante, di solito, quelli delle mie conquiste svaniscano pochi attimi dopo la stretta di mano.

Probabilmente è l'unico dettaglio bello di questa dannata città, forse il solo evento che vale la pena di essere ricordato anche se mi costerà una fortuna di tintoria.

Le strade di Manhattan mi scorrono davanti agli occhi, mi pare di vedere un brutto film che ho già guardato troppe volte e sono obbligato a sorbirmi all'infinito.

Mentre un turista proverebbe stupore osservando i due grattacieli art déco più famosi del mondo, il Chrysler Building e l'Empire State Building, o guardando la luce del sole che sorge e sembra riflettersi all'infinito sulle vetrate degli scintillanti palazzi, quasi ne fosse imprigionata, io avverto solo fastidio, oppressione al petto e dolore.

"Non sono pronto per entrare lì dentro", è la frase che mi rimbomba in testa da stamattina appena ho aperto gli occhi.

Non sono più un adolescente rancoroso che ha appena litigato con suo padre, però. Sono un uomo, un adulto e di successo pure.

È il momento di lasciarsi il passato alle spalle, di chiuderlo per sempre, di dare a mio padre, anche se da morto, ciò che si merita.

«Eccoci qui», dice Kiljan quando scendiamo ai piedi del grattacielo sulla Fifth Avenue.

«Andiamo. Non ho voglia di incontrare nessuno», rispondo avviandomi con passo deciso verso l'ingresso del palazzo.

Punto dritto verso l'ascensore che conduce al piano dov'è sito l'ufficio che era di mio padre.

Non guardo il grande atrio, non saluto il portiere, come invece fa Kiljan, cerco di vedere il meno possibile.

"Maledizione, persino il trillo del campanello è lo stesso di quando ero ragazzo", impreco mentalmente quando le porte si richiudono.

Kiljan non fiata, si esime dal fare battute, sa benissimo quanto mi pesi trovarmi qui dentro.

Quando le porte si aprono sul piano dirigenziale, non c'è ancora nessuno.

Camminiamo per i corridoi silenziosi. Fisso solo il parquet, non ho bisogno di guardarmi intorno.

Conosco a memoria la strada per quell'ufficio.

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