CAPITOLO 3: MADRI

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Capitolo 3: Madri

Maryjane, segregata in una spoglia camera mortuaria, aveva nascosto la paura che l'attanagliava fino a quel momento. Aveva tirato un sospiro di sollievo soltanto quando la chiave aveva piroettato tre volte su sé stessa per serrare la gigantesca lastra di marmo e legno che la separava da losco figuro.

Nel preciso istante in cui quell'essere si era allontanato da lei le sue gracili di mani avevano formato una cornice intorno al tenero volto che ormai era costellato lacrime luccicanti, una galassia di stelline che, come nella Via Lattea, lasciavano uno strascico nuziale dietro di loro.

Era pavida e presa da un melancolico strazio che si attorcigliava, come una serpe, nelle sue membra fatte di spirito mescolato a ciò che restava nel suo gracile corpicino. Posò la schiena sui lenzuoli che ricoprivano la pietra su cui era adagiata e si rannicchiò sperando che il buio la occultasse come un uccellino intrappolato nella fitta boscaglia. Si girava e rigirava, inerme dinanzi a tutto, non potendo aggrapparsi nemmeno al desiderio di morte. La cosa che la faceva sprofondare in un caotico oblio era il non sapere che cosa l'attendesse, non poter comprendere cosa le stesse realmente accadendo.

Lì, agonizzante, pareva una preda senza via di scampo in un percorso senza uscita, un labirinto di cunicoli che terminavano tutti con lo stesso vicolo cieco, dove, ad aspettarla, c'era il sorriso malvagio di un carnefice compiaciuto nel vederla tremare i suoi piedi.

Le mancavano le carezze di sua madre che al mattino, soprattutto durante la malattia, le avevano alleggerito il rossore delle gote febbricitanti e dolcemente l'avevano protetta fin dalla sua nascita. Non riusciva più a distinguere cosa significasse venire al mondo e cosa non esserne più parte, non faceva altro che urlare con ogni sua cellula ormai trasformata in qualcosa di non più tangibile e lasciare che dalla sua bocca non fuoriuscisse neanche il più malinconico dei lamenti.

Gli occhi, verdi come due smeraldi, erano socchiusi, ancora bagnati e gravidi di un risentimento senza né inizio né fine.

Sordi singhiozzi scalpitavano dal basso ventre per poi risalire serpeggianti ed essere sputati fuori da un tossicchiare forzato, si stava accorgendo per la prima volta di quanto ci tenesse alla sua vita e di cosa significasse abbandonare tutto quello che un momento prima l'aveva sostenuta, fino a quando nascere sembrava essere stato così facile.

Le gocce, che sgorgavano a frotte dai suoi occhi, erano per quella donna che, per nove lunghi mesi, l'aveva portata in grembo e dopo soli ventisei anni se l'era vista strappare dal suo abbraccio materno, piangeva per quel padre che, all'età di cinque anni aveva, costruito un cavallino di legno per vederla sorridere.

Il suo cuore si stava risvegliando lentamente, dal momento in cui aveva cessato di battere aveva posto una invalicabile cinta muraria tra lei e i suoi affetti.

Avrebbe voluto che tutto quello, come le aveva detto Sebastian, fosse stato solo un orribile incubo, ma purtroppo lei lo sapeva che era stata proprio la sua fragilità a trasportarla su quel giaciglio, in un postaccio che, in cuor suo, credeva di non meritare, una pena ingiusta per una ragazza innamorata della vita.

Ad un tratto la chiave ripeté i suoi tre giri e fece schioccare la serratura della porta, questa si spalancò e un grande fascio di luce le illuminò il viso lasciando che le lacrime irraggiassero la sua tristezza per tutta la stanza.

I passi di quell'uomo si fecero sonori e lei non riuscì neanche guardare la sua entrata in pompa magna.

"Che c'è ragazzina? Stai piangendo? Pensavo ti piacesse questo posto? Dov'è finita la tua ironia?" Disse Sebastian mentre stava ancora camminando verso la fanciulla dalle candide vesti. Lei, nel sentire quelle parole, non poté che abbracciare i veli della gonna e stringersi ancora di più nelle spalle.

SETTE GIORNI ALL'INFERNODove le storie prendono vita. Scoprilo ora