Chapter 11

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Louis Tomlinson svoltò l’ennesimo angolo per trovarsi in una stretta stradina circondata da palazzoni e qualche panchina. Era completamente giorno ormai, il caldo si faceva via via più sentire e, con l’aiuto dell’ansia di perdere Harry, fece sudare freddo e affannare il moro, sempre più teso.
Manca poco, ancora pochi passi.
Questa strada è così lunga, cazzo.
Harry, perché scappi?
Non sei felice con me?
Io pensavo lo fossi… io…
Non so più cosa pensare.
E la mente di Louis, quasi a volergli giocare un brutto scherzo, si soffermò sull’immagine del riccio, sorridente e sporco di cioccolato, che gli chiedeva con un tono malizioso se ‘mi pulisci tu, Loulou?’ che anche solo dal tono fece rabbrividire Louis, stringersi nelle spalle e accelerare il passo.
Il vociare di gente, accompagnato dalle risatine di bambini lo fece sospirare; era arrivato al parco pubblico.
Superò il cancello principale in ferro battuto, evitando lo scontro con una bambina intenta a rincorrere una palla, spostando lo sguardo prima da una parte, poi dall’altra.
Voleva gridare, dentro di sé voleva chiedere aiuto a tutti, ma allo stesso tempo non voleva attirare troppo l’attenzione generale; dopotutto erano ‘ricercati’.
Sbuffò, si morse il labbro, imprecò mentalmente contro la sua sorte e iniziò a correre per il vasto prato che aveva davanti, non lasciandosi sfuggire il minimo angolo o la più piccola attrazione per bambini.
Il cuore gli martellava in petto ad un ritmo anomalo, le gambe che gli facevano fin troppo male, la voglia di sedersi a riflettere, prendere tempo, anche se di tempo effettivo non ce ne era.
-“Harry” si lasciò scappare istintivamente, un suono che per un poco aveva pensato di non dover più pronunciare.
Sgranò gli occhi, constatando che proprio quel riccio che parlava con un bambino era Harry, il suo Harry.
Si morse il labbro, prese un lungo respiro e iniziò a correre verso le due altalene, poste sotto un albero in una zona poco illuminata del parco.
Quasi scivolò su una zolla di terra, per poi fermarsi a pochi metri dal riccio, piegandosi sulle gambe per prendere fiato.
L’altalena scricchiolò leggermente per la ruggine, quindi un insieme di voci confuse, dove Louis distinse quella roca di Harry e quella più acuto del bambino.
-“Loulou…?” sussurrò tra i denti il riccio, scuotendo la testa e sorridendo amaramente.
Louis strinse le mani a pugno, tirandosi in piedi e squadrando da capo a piedi Harry, ancora seduto sull’altalena a dondolarsi leggermente.
- “Perché” sputò quindi rabbioso, passandosi una mano tra i capelli, mossi dalla corsa.
Harry sospirò, rimanendo in silenzio e abbassando lo sguardo sulle sue scarpe, che spingevano leggermente contro il terreno per far muovere l’altalena.
-“Louis?” la voce del bambino più flebile, una intonazione diversa a rompere il silenzio.
Il moro si irrigidì, voltandosi di scatto verso il piccolo, seduto anche lui sull’altalena, per poi constatare fosse una bambina.
Le gambe esili sospese dal terreno, un paio di scarpe consumato dalle continue corse rosa acceso, un lungo vestitino giallo limone, con qualche piccola stampa di animali; lunghi capelli biondi, lisci e sciolti, abbandonati al vento.
Due occhi azzurro cielo.
Louis sentì il terreno sotto di lui cedere, i giochi per bambini attorno a lui girare in modo anomalo, quindi dovette appoggiarsi al tronco dell’albero vicino, prendendo fiato.
-“Loulou, ti prego stai bene?” la voce roca e preoccupata del riccio, lontana, ovattata.
Il maggiore deglutì a fatica, accennando di si con la testa, per poi voltarsi verso Felicite, che lo scrutava curiosa.
-“Felicite, cosa… cosa ci fai qui?” cominciò Louis, provando a mantenere la calma.
Era da un paio di giorni che non si faceva sentire dai suoi, l’ultimo loro saluto una specie di addio nascosto, chiaro solo a Louis.
La bambina si strinse nelle spalle, sorrise allegra e si voltò verso Harry, con la fronte sempre più corrugata e gli occhi sgranati, di chi non sa più né dove si trova né il motivo.
-“Ho fatto amicizia con lui, si chiama Harry. E’ simpatico. L’ho battuto due volte a chi va più in alto in altalena.” E concluse il tutto con sguardo trionfante, il petto in fuori di chi ha compiuto qualcosa di grandioso, il tono di voce innocente e all’oscuro di tutto.
Louis scosse la testa, guardando poi Harry che sorrise imbarazzato, stringendosi nelle spalle e
“mi sono sempre piaciuti i bambini” come unica scusante.
Il maggiore sbuffò, passandosi le mani tra i capelli.
-“Si ma, Felicite, intendo sei qui con la mamma? O con…papà?” pronunciò le ultime parole con un leggero tremolio, che strinse il cuore al riccio.
La bambina sorrise e fece un cenno di assenso, guardandosi intorno per poi indicare una panchina poco distante con un dito grassoccio e
“si vedi? Mamma è laggiù che ci guarda!” gridò stridula, facendole un segno di saluto con la manina e correndole incontro; i capelli biondi svolazzanti col vestito.
Louis si irrigidì sul posto, incrociando lo sguardo allibito della madre.
-“Loulou…quindi, io avrei giocato con tua sorella?” sussurrò un poco Harry, imbarazzato e non volendo recare troppi danni.
Louis si voltò verso di lui, lo sguardo basso, quasi deluso e con lo stesso tono “vieni, a questo punto ti presento mia madre” che fece innervosire Harry.
Si aspettava la sua ira, si aspettava di tutto.
Non di conoscere improvvisamente la madre del suo ragazzo.
Poteva chiamarlo ragazzo? Non lo sapeva, come non sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco.
Poche cose dava per certo, che non sarebbe più scappato, non si sarebbe più allontanato da Louis, non avrebbe più cercato la solitudine.
E che aveva appositamente fatto vincere Felicite all’altalena.
 
Il quartiere della casa di Louis era molto artistico e curato.
Ricco di fiori e piante di ogni genere, le case villette a schiera separate l’una dall’altra da un sottile cancelletto in legno.
A Harry piaceva quella casa, ma una sensazione di inquietudine lo invase, facendolo sentire irrimediabilmente solo e abbandonato.
Quella casa non era la sua, quell’atmosfera di amore e affetto non centrava nulla con lui.
Lui era l’ostacolo, il peso che gravava sulla vita di Louis, che non gli avrebbe portato altro che dolore e fregature.
Entrarono, un silenzio imbarazzante, dove Harry cercava lo sguardo di Louis, sempre basso, oppure  un cenno di consenso di Johannah, la madre del moro, senza anche qui ottenere molto.
L’ambiente era esteso e luminoso.
Profumava di cibo appena cucinato, tutte le spezie usate, e di caldo.
Qualcosa di caldo aleggiava nell’aria.
La frenesia e l’accoglienza di una famiglia numerosa.
Un caldo penetrante, che ti attraversa le viscere, raggiunge il petto e poi ti lascia svuotato.
Una sensazione mai provata da Harry, abituato solo al freddo dei muri bianchi di un ospedale, o le cure e l’affetto professionale dei medici.
Nulla di eguagliabile, e tutto ciò sapeva ad Harry di nuovo, un qualcosa da scoprire ma, piacevole.
Sorrise inconsciamente e fu l’attimo in cui Louis alzò lo sguardo dalle sue scarpe e lo fulminò con lo sguardo; non era il momento di sorridere, quella era la famosa calma prima di una tempesta imminente.
Felicite era l’unica che in tutto il viaggio dal parco aveva strillato e parlato continuamente, cercando attenzione che, né Louis, né la madre volevano donargli e che quindi si erano sfogate sul suo nuovo amico, Harry Styles, che le sorrideva timidamente e spostava lo sguardo su qualsiasi altra cosa pur di evitare di parlare.
La bimba entrò velocemente in casa, correndo poi su per le scale in legno davanti l’ingresso che davano al piano superiore; si voltò però sull’ultimo gradino, prendendo fiato e
“Harry ti faccio vedere le mie bambole, sali!” che fece arrossire il riccio.
Johannah scosse la testa, prendendo la sua borsa a tracolla e dirigendosi in cucina, con lei la muta richiesta di essere seguita.
Louis guardò prima le schiena magra della madre, poi fece un cenno ad Harry e si dirise in cucina, scomparendo dietro lo stipite della porta.
“Harry! Muoviti dai!” trillò la bambina dalla rampa di scale, il viso rosso per lo sforzo e le mani strette lungo i fianchi.
Il riccio sospirò sorridendo, facendole il gesto con la mano che l’avrebbe raggiunta dopo, facendola nuovamente sorridere e scomparire definitivamente in una stanza.
Harry sospirò, si passò una mano tra i capelli; i muscoli tesi di chi è quasi pronto a scappare, raggiungendo quindi l’entrata della cucina.
Vi era un enorme tavolo in mogano al centro, diverse sedie a circondarlo sulle quali due vi stavano apparentemente in modo comodo seduti Louis e Johannah.
Il riccio si morse il labbro, scegliendo una sedia accanto al moro e prendendo una posizione composta.
La donna, china sulla sua borsa a cercare chissà cosa, ne tirò fuori un cellulare di vecchio tipo, ammaccato ai lati, e lo abbandonò in malo modo sulla superficie del tavolo.
Louis non fece in tempo a sbuffare che
“Per Dio Louis! Hai vent’anni compiuti e non ti permetti nemmeno di usare un dannato cellulare! Sono stata in pensiero!” cominciò seccata a voce non troppo alta la donna, sbuffando e abbandonandosi contro la sedia, le braccia conserte e lo sguardo omicida in volto verso il figlio.
Harry fu felice di non essere Louis in quel momento, ma sentiva dentro di sé il dovere di giustificarlo, dopotutto non era solo colpa sua.
-“Scusi, è colpa mia. Sono un paziente in cura all’ospedale dove lavora Louis e…” iniziò quindi deciso, venendo interrotto dalla mano di Louis che, con fare protettivo, gli stringeva il braccio, quasi a volerlo fermare.
Harry deglutì a fatica, pensando che sarebbe potuto morire felice in quel momento, ma continuò, badando bene di essere ascoltato dalla donna accigliata che aveva di fronte.
-“Mamma li avrai visti i telegiornali in televisione” sussurrò quindi il maggiore a denti stretti, venendo in soccorso del riccio che, imprecando mentalmente, stava cercando le parole giuste da dire.
Johannah annuì con fare solenne, chiudendo gli occhi e passandosi le mani tra i capelli corti.
Silenzio, rotto solamente dai rumori al piano di sopra di Felicite che parlava.
Harry e Louis si guardarono a lungo, non sapevano come comportarsi, cosa dire, ma in quel momento erano vicini, non solo fisicamente, a condividere una situazione spiacevole, a darsi forza l’un l’altro.
Johannah alzò lo sguardo dal tavolo e rimase a guardarli, la consapevolezza di qualcosa di più grande in quello sguardo, la sensazione spiacevole di essere di troppo.
E allora capì cosa fare, si sentì di agire per amore e la felicità del figlio, come solo una madre potrebbe comprendere; sospirò rumorosamente.
-“Harry, da quel che ho capito sei molto malato e non hai un posto dove stare, giusto?”
Harry strabuzzò gli occhi, rompendo il contatto visivo col maggiore e annuendo goffamente, cercando la mano di Louis con la propria sotto il tavolo.
-“Abbiamo giusto una stanza degli ospiti, al piano di sopra, non sarà una reggia ma te la può far vedere poi Louis e…”
Il moro si irrigidì sulla sedia, la sorpresa e la felicità mischiato al risentimento per il dolore portato alla madre.
-“Sul serio, ma’ ?” chiese quindi incredulo.
La donna annuì semplicemente, alzandosi dalla sedia e tornando a rovistare nella sua borsa, quasi a far vedere che non aveva più nulla da dire.
Harry rimase spiazzato da tutto ciò, semplicemente non se lo aspettava, doveva ancora realizzare la situazione.
Io, lui… a casa, insieme?
Stanza degli ospiti?
Dio, non ci posso credere.
Non posso, non…
-“Signora io…”- iniziò quindi, incerto, alzando poi lo sguardo su Johannah, ancora interessata alla sua borsa.
-“Chiamami Jay caro, signora mi sa tanto di vecchio”
-“Non posso accettare, voglio dire…non voglio essere un peso. Tutta la mia vita lo è sempre stata e…”
La voce roca gli si incrinò e per l’imbarazzo tornò a giocherellare con le mani; Louis gli circondò le spalle con un braccio, osservando la madre, ora più attenta ad Harry.
-“Non ti avrei invitato se fossi un peso, credimi ho cinque figli un diverso dall’altro, ognuno coi suoi pensieri, le sue paturnie…malgrado tutto mai, e sottolineo mai sono stai un peso per me. Tu sei un bravo ragazzo, da cui forse Louis dovrebbe prendere esempio, non darai certo fastidio” Louis roteò gli occhi al cielo per quella frecciata velata della madre e, sospirando, prese per mano il riccio, iniziando a camminare verso il giardino sul retro della villa.
-“Allora, grazie!” riuscì a dire ad alta voce Harry, trascinato da Louis lontano dalla stanza e accompagnato dalla risatina di Johannah che, scuotendo ancora la testa, tornò alla sua borsa.
 
 Il tepore di mezzogiorno solleticava la pelle ad Harry che, finalmente tranquillo si godeva un attimo di tregua seduto sul prato dei Tomlinson, a guardare le nuvole, con Louis accanto, molto meno rilassato e con un filo d’erba mangiucchiato tra le mani.
-“Tua madre è un angelo, voglio dire, la mia mi avrebbe subito cacciato di casa invece di accogliere anche te” esordì il riccio, pensieroso, dopo lunghi attimi di silenzio, imbarazzati e dolorosi.
Parole mute che bramavano di uscire ma, non trovando una breccia in quel muro invisibile, stavano nascoste, in attesa.
Louis Tomlinson, che di muri e barriere conosceva solo il nome, sospirò, chiudendo gli occhi e godendosi quell’ultimo attimo di silenzio.
-“Harry – iniziò quindi, con voce grave, la velata preoccupazione che Harry volesse fuggire da lui e che lo avrebbe fatto di nuovo, forse per sempre – perché sei scappato in quel modo, oggi.”
E il riccio storse il naso mangiucchiandosi l’unghia del pollice con sguardo assente.
-“Non me lo ricordo” provò allora, non volendo continuare il discorso di Louis.
Proprio che ora va tutto bene.
Proprio ora che siamo insieme.
Siamo felici.
Saremo mai davvero felici, tu ed io?
Sembra di no, sembra ti piaccia essere triste, avere sempre l’espressione preoccupata in volto.
Vivere di ansie.
Loulou, ti prego per una volta non facciamo gli adulti, comportiamoci da bambini e parliamo solo di quello che ci piace.
Facciamo a gara sull’altalena, giochiamo alle bambole con le tue sorelle minori.
Viviamo di illusioni, perché è quello che stiamo facendo anche adesso.
Loulou, noi siamo solo l’illusione di qualcosa di grande.
Louis rise amaramente, scuotendo la testa e osservando a lungo Harry, fino a che questo non si decise a ricambiare e sorridere timidamente, stringendosi nelle spalle.
-“Sei bellissimo” sussurrò allora il maggiore, arrossendo leggermente sugli zigomi e portando una mano sulla guancia del riccio, carezzandola con due dita.
Harry socchiuse gli occhi e, Louis ne fu certo, se fosse stato un gatto avrebbe fatto le fusa.
-“Sei bellissimo e così distante. A volte mi sembra di conoscerti, capire cosa ti passa per la testa, quando il giorno dopo mi scivoli dalle dita così, come se fossi sabbia. Io ti voglio conoscere, capire, perché solo così potrò…”
E il riccio sorrise, capendo anche le parole in sospeso, scosse la testa, sospirò ancora e rimase a osservare Louis giocherellare con dei fili d’erba, le parole bloccate in gola, il rossore come unica prova di imbarazzo sul suo viso sfacciato e bello da far venire i brividi.
-“Louis, guardami bene per favore” cominciò quindi il minore, avvicinandosi a lui e prendendogli le mani, stringendogliele forte.
L’altro alzò lo sguardo distrattamente.
-“Io non voglio che tu mi ami, non voglio lasciartelo fare. Non ti meriti di condividere con me il dolore che porto da quando sono nato. Ho visto i miei parenti soffrire tanto per me, tutta la gente che mi sta intorno essere triste. Io semplicemente vorrei scomparire prima di lasciare troppi segni del mio passaggio. E fa male, Louis, fa un male cane, credimi. Un male ben diverso da qualsiasi cosa, puntura, taglio, ceretta o chissà cosa, fa male e non posso guarire. Fa male baciarti sapendo di farti star male.” Lo sguardo basso, velato da lacrime, la voce rassegnata e con un leggero tremolio, prima del pianto.
Louis semplicemente strinse di più le mani, lo fece forte, con tutta la sua energia, quindi poggiò la propria fronte su quella del riccio, delicatamente.
-“Le senti le mie mani Harry? Le senti come tremano, quando stringono le tue? La mia forza, la tua disperazione? Tutto questo è reale, tutto questo esiste, ed è presente e tutto fottutamente bello. Anche io potrei morire un giorno, ma mi godo l’attimo. La vita è fatta di attimi. Vivi Harry, io ti ho portato via da quella prigione per farti vivere, fregatene delle conseguenze, sii felice senza limiti per una volta. Perché il tuo unico limite non è la tua malattia, sei tu stesso.”
Silenzio.
Qualche cinguettio lontano di uccelli, un frusciare del vento tra le foglie.
-“Ho paura Louis. Sono solo un ragazzo e io… ho paura” sussurrò quindi contro le labbra dell’altro, le fronti sempre a contatto, i nasi che si sfiorano timidamente.
-“E io te lo ripeterò sempre, fino a che non ti entrerà in testa: ci sono io accanto a te, non devi mai avere paura, non sarai mai davvero da solo.”
Harry singhiozzò silenziosamente, piccole lacrime veloci gli scorsero lungo le guance.
-“Me…me lo prometti, Loulou?” un altro sussurrò, una voce più flebile.
Louis sorrise.
-“Te lo prometto”
E Harry si avvicinò, sfiorandogli le labbra tremanti timidamente, una richiesta di aiuto muta, una prova per dire ‘io ci sono’.
E Louis sorrise ancora contro le labbra del riccio, e il sole continuò a splendere e a portare calore, ma stavolta, anche nel mondo di Harry.
Jay Tomlinson sapeva quello che aveva appena fatto con noncuranza, con un semplice gesto.
Aveva mutamente approvato i sentimenti del figlio verso quel ragazzo riccio e malato.
Lo sapeva, aveva visto i loro sguardi, di chi vive solo se l’altro ricambia.
Un tempo anche lei aveva provato emozioni del genere, verso Mark.
Erano giovani, incoscienti e con la voglia di vivere, di sposarsi, fare figli e mostrare il loro amore al mondo.
Tutto il lato positivo del vivere ai loro occhi, il lato negativo nascosto dai loro sorrisi, dagli sguardi affettuosi dei parenti, dalle carezze delle madri.
Poi era arrivata la casa, la convivenza, i lavori part-time e il pancione, sempre più pesante e vistoso, portatore di ansie, preoccupazioni e tanto affetto.
Erano quindi arrivati Louis, Felicite, Lottie, Daisy e Phoebe.
Ed erano anche arrivati primi litigi, le grida, i pianti e gli abbracci riappacificatori.
Era arrivata la crescita veloce e senza freno dei figli, la scuola, le confessioni.
L’amore tra Jay e Mark c’era, presente tra quelle quattro mura, ma meno visibile, oscurato dai nuovi impegni e i nuovi orari.
Le incomprensioni e il lavoro invadente di Mark avevano fatto il resto.
La routine di Johannah ora si era stabilizzata: portare le figlie a scuola, andare a fare la spesa, cucinare, pulire la casa e aspettare la sera.
Mark tra tutto ciò non ci stava, o non ci è mai voluto veramente stare, con la scusa del lavoro, e a Jay andava bene così, crescere le proprie figlie serenamente, purché Mark non scomparisse definitivamente dalla loro vita.
Da tanto non cenavano tutti assieme riuniti intorno ad un tavolo, o rimboccavano le coperte ai figli come un tempo.
Ma a Mark andava bene così, Jay se lo faceva bastare.
La donna aveva imparato a farsi bastare le cose, le situazioni, gli sforzi.
I saluti dei figli, i vari accenni di conversazione tra di loro.
Johannah poteva vantarsi di sapere chi fosse la migliore amica di Lottie, o il gusto di gelato preferito da Felicite, o di come volevano essere prese in braccio Daisy e Phoebe, o delle chiamate evasive e ricche di confessioni di Georgia.
Ma di Louis non sapeva molto, per non dire nulla.
Con le figlie poteva chiacchierare, scherzare, o giocare a bambole, per vedere i loro sorrisi.
Con Louis cosa poteva fare? Rovistare nei cassetti della biancheria quando faceva le pulizie, o provare a parlarci alla mattina presto, prima che andasse in ospedale.
Jay però aveva intuito la preoccupazione di Louis, il suo stare sempre solo o lontano da casa, il suo nascondersi agli occhi dei genitori.
Tutto ciò la faceva sorridere, perché una madre ama e amerà sempre i suoi bambini, anche se avranno quaranta anni e una famiglia già costruita che non permetterà loro di farle una telefonata.
Anche se avranno speso tutti i loro soldi per un automobile di ultimo modello, o sceglieranno carriere di lavoro insulse.
Anche se saranno diversi.
Quello che non capiva Johannah, era che Mark non la pensava così.
E Louis lo sapeva bene. 

Thank you, Lou. {L.S.}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora