Paradiso e inferno

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Per la maggior parte delle persone li dentro, l' ospedale San Nicholas era l' inferno, fatto di sofferenza e morte.
Per me, era il paradiso.
Passai giorni sereni, tanto da non sentire nemmeno più il dolore del mio corpo.
La risata di Abigail mentre giocava, il sorriso sereno di Castiel, gli scherzi con Charlie... Erano una cura per la mia anima, più di qualsiasi medicina.
Avevo dimenticato cosa volesse dire addormentarsi in un letto, con qualcuno da proteggere tra le braccia, come facevo quando Sammy era piccolo e aveva gli incubi.
Avevo dimenticato cosa volesse dire avere un tetto sulla testa quando fuori piove, avere la pancia piena, vestiti caldi addosso, non doversi sempre guardare intorno con il fucile in mano.
Ma più di tutto avevo dimenticato cosa fosse la gioia...
Giocare a nascondino con Abigail, prenderla in braccio, vederla disegnare un' albero, accarezzare un cane, rincorrere una palla colorata.
Poter ridere con Charlie, che era sempre pronta a farmi qualche battuta, o a tirarmi il pane quando nessuno ci guardava, che per ore mi narrava le sue storie preferite, fingendo di essere li, in quei mondi remoti e affascinanti.
Ma più di ogni cosa, era Castiel a scaldarmi il cuore.
Avevo scoperto in lui una dolcezza, che non avrei mai creduto possibile.
Sembrava quasi un' altra persona, una persona felice.
Giocava con la piccola, l' aiutava a mangiare, le faceva fare le capriole.
E rideva, rideva tanto, e la sua risata era così forte da riempire la stanza.
Era sempre accanto a me, ogni volta che mi voltavo.
Ogni tanto, all' improvviso lo scoprivo a guardarmi e sorridere.
Mi teneva la mano, quando ero nel letto con la piccola, ed era sicuro che nessuno ci guardasse.
Mi baciava la fronte, quando per un momento rimanevamo da soli, mi accarezzava il viso, mi scompigliava i capelli quando ero chino con la piccola a giocare.
Anche se ogni tanto, quando pensava di essere solo, lo scoprivo a pregare dio di perdonarlo, perché era debole, perché aveva ceduto ai sentimenti,
perché aveva paura.
Sapevo quanto dovesse essere difficile per lui, accettare l' amore nella sua vita.
O più semplicemente, accettare di essere umano.
Poi arrivò quel giorno.
Il giorno in cui un soldato entrò dalla porta, e ci richiamò alla realtà.
La guerra non era ancora finita, come aveva detto Castiel, e nonostante le mie speranze, non si era dimenticata di noi.
Aveva ancora un caro tributo da chiedere, prima di cessare, e ridarci ciò che rimaneva delle nostre vite.
Arrivò quel maledetto giorno, e noi ci rimettemmo la giacca e l' elmetto, ci caricammo il fucile in spalla, e dicemmo addio.
Abbracciai Charlie, le baciai le guance, e nonostante tutto il mio odio verso dio, mi scopri a pregarlo di aiutarla, di proteggerla, di vegliare su di lei, come Castiel stava facendo con me.
Le affidai la piccola Abigail. Sapevo che lei se ne sarebbe presa cura, che l' avrebbe fatta ridere e giocare, che l' avrebbe cullata per farla dormire.
All' inizio aveva paura, era una responsabilità enorme, farsi carico di un' altra vita.
Ma era coraggiosa, lo era sempre stata, e non si tirò indietro.
Le diedi l' indirizzo della mia casa, e le dissi di andare li, se le cose fossero diventate troppo pericolose per loro.
Lo scrissi dietro alla foto di mia madre, così avrebbe saputo che ero stato io a dargliela.
Non sapevo se sarei mai riuscito a tornare a casa, se avrei potuto rivederla... Ma sapevo che le avrebbe accolte come figlie, se avessero bussato alla sua porta.
"Abigail... Piccola mia. Dovrai essere forte adesso. Dovrai essere coraggiosa... anche se hai paura. Lo farai per me?"
Lei annuii, stringendomi forte, con le sue piccole manine.
Per la seconda volta, le stavo dicendo addio, affidandola a qualcuno che pensavo l' avrebbe protetta da ogni male.
Speravo con tutto il mio cuore, che sarebbe stato così questa volta.
Che sarebbero potute essere felici, e diventare grandi in un mondo che non facesse paura.

Non passarono che pochi giorni, ed il paradiso si tramutò in inferno.
Eravamo a sud di Brema, e combattevamo da quando era iniziato il giorno.
Campi spogli e fangosi, accoglievano la nostra battaglia.
Trincee infinite, buchi scavati nella terra dove poterci nascondere.
Dove poter morire, con gli occhi rivolti al cielo grigio e terso.
Chissà se un giorno, qualcuno sarebbe venuto a portare un fiore, dove ora giacevano i corpi dei soldati.
Avevo quasi finito le munizioni, e stavo vagando in una di quelle maledette trincee, per cercarne altre.
Purtroppo gli altri ragazzi erano messi più o meno come me.
Non eravamo preparati a quello che stava succedendo.
C' era un' uomo sulla quarantina vicino a me, aveva uno strano accento e una cicatrice sull'occhio destro. Si voltò un' istante per darmi un po' delle sue scorte, e un proiettile lo centrò alla gola.
Cadde all' indietro, neanche il tempo di toccare il suolo ed era già soffocato nel suo sangue.
Presi le sue munizioni e ricominciai a sparare.
Non sapevo dove fosse Castiel, ma ogni tanto mi sembrava di sentire la sua voce urlare di avanzare. E così facevo.
Di trincea in trincea.
C' era da spostare i morti per riuscire a mettersi in posizione.
Cercavo di farlo con più rispetto possibile, vista la situazione.
Altri semplicemente ci camminavano sopra, o li calpestavano mentre erano intenti a sparare dall' altra parte del campo.
C' era un ragazzo morto ai miei piedi, non aveva neanche la mia età, e dal taschino si intravedeva la foto di una bella donna di mezza età.
Immagino che fosse sua madre...
Aveva gli occhi sbarrati rivolti verso di me.
Ed io non riuscivo a concentrarmi, con quegli occhi spaventati che mi fissavano.
Gli misi la foto tra le mani, e glieli chiusi.
Poi ricominciai a sparare.
Beccai un paio di tedeschi, poi di nuovo sentii la voce di Castiel che ci incitava ad avanzare.
Mentre correvo, un tizio accanto a me saltò in aria.
Pezzi del suo corpo mi ricoprivano i vestiti.
Poi un' altro.
"Mine!" Sentii che urlava un soldato alla mia destra. "Tornate indietro!"
Mentre cercava di arretrare, ne calpestò una.
Chiusi gli occhi e mi riparai la testa con le braccia.
Mi fischiavano le orecchie, e avevo le sue budella sulle scarpe.
Vomitai, poi corsi verso sinistra, e ricominciai a sparare.
Feci fuori quattro o cinque tedeschi, prima di ributtarmi nella trincea.
Un tizio di colore mi passò delle granate.
"Lancia figliolo! Presto!" Mi disse mettendomele in mano.
Si sollevò e ne lanciò una dritta davanti a sé. Poi un' altra ancora.
Sentivamo le urla strazianti davanti a noi.
Non sapevamo se erano nemici o amici, urlano tutti allo stesso modo, quando stanno per morire.
Mi misi a lanciare più che potevo, verso la mitraglietta tedesca che ci stava sputando proiettili adesso.
Riuscì a distruggerla al terzo tentativo.
Il tizio di colore mi diede una pacca sulla spalla.
"Ben fatto figliolo!" Disse sorridendo.
Allungò il braccio per tirarne un' altra.
Qualcosa lo colpì con tale violenza, da staccarglielo di netto.
Il sangue caldo mi schizzò in faccia, mentre il suo braccio volava via.
"Medico! Ci serve un medico!" Urlai, slacciandomi la cintura e mettendogliela intorno al gomito, per fermare il sangue.
"Il mio braccio..." Ripeteva l' uomo in agonia. "Dov' è il mio braccio?"
"Non lo so... Dobbiamo cercare un medico, io non..."
"Hai visto il mio braccio figliolo?" Mi chiese guardandomi dritto negli occhi.
"N-No io... Non so dove sia... Mi dispiace!"
"Devi trovarlo. Ti prego, non posso morire senza il mio braccio."
Mi guardai intorno, c' erano cadaveri ovunque, fango che ricopriva ogni cosa...
Mi misi a cercarlo, scavando nel fango, spostando i corpi.
Un ragazzo chiamava il padre, allungando la mano verso il cielo.
Gliela presi. "Va tutto bene... Non avere paura."
Aveva gli occhi azzurri e le lentiggini.
Portava ancora l' apparecchio per i denti.
Morì stringendomi la mano, chiamandomi papà.
Volevo piangere, urlare, ma non ne avevo il tempo.
Mollai la presa, e ricominciai a cercare.
Non so nemmeno perché mi dessi tanto da fare, ma non volevo che morisse senza il suo dannato braccio.
Alla fine lo trovai, semi sepolto dal fango.
Corsi dall' uomo, sorridendo, urlando che c' è l' avevo fatta.
Lo trovai a faccia in giù, nella mano la foto di un bambino.
Mi guardai intorno.
Erano tutti morti in quella trincea.
Ero solo, solo con i cadaveri.
Urlai con tutto il fiato che avevo, accovacciandomi a terra.
Rimasi li a piangere, cercando la forza di alzarmi.
Non potevo arrendermi, non adesso.
Non volevo morire li, da solo, nel fango e nel sangue rappreso.
Poi mi sentii toccare la spalla.
D' istinto mi voltai con il fucile in mano, pronto a sparare.
"Sono io! Kansas! Sono io..."
Aveva il fucile puntato sul viso. Ci misi qualche secondo a riconoscerlo, sconvolto com' ero.
Lo abbassai subito. "Cas... Cas..." Non riuscì a finire la frase.
Lui mi mise una mano dietro il collo e mi avvicinò alla sua fronte.
"Va tutto bene. Ci sono io adesso ok? Ti porterò via da qui, te lo prometto."
Lo guardai negli occhi.
Aveva paura anche lui.
"Alzati adesso." Disse staccandosi da me.
"Ho detto alzati, Dean Winchester!" Urlò.
I suoi occhi ardevano di nuovo come il fuoco.
Come se fosse più forte della paura stessa.
Ripresi coraggio e mi alzai.
"Dobbiamo raggiungere il carro armato, ci farà da scudo!"
Ci mettemmo a correre, e ogni volta che trovava un soldato ferito, lo faceva alzare.
Se trovava qualcuno nascosto ed impaurito, lo faceva alzare.
"Seguitemi! Non è ancora il vostro momento!"
Sparò ed uccise una decina di tedeschi, prima di arrivare a quel carro armato.
Quando finalmente fummo al sicuro, dietro quella macchina di morte, si tolse l' elmetto e respirò, facendosi bagnare dalla pioggia.
Quando alla fine la battaglia fini, ci dissero che erano due giorni che stavamo combattendo.
Non me n' ero nemmeno accorto...
Ci fermammo sulle rive del fiume Elba, che era notte fonda.
Accendemmo un fuoco, e ci mettemmo tutto intorno.
Era piacevole, sentire un po' di calore.
Distribuirono del cibo, e mandarono un dottore a darci un' occhiata.
Qualcuno pianse, qualcuno cantò una canzone, qualcuno ringraziò dio, la maggior parte si sdraiò a dormire, sognando di tornare a casa.
Avrei voluto dormire anch' io.
Non ero mai stato così stanco...
Ma volevo vedere Castiel, assicurarmi che stesse bene.
Lo cercai per un po', sulle rive del fiume, finché finalmente la luce della luna ne illuminò la figura.
Era immerso nell' acqua fino alla vita, con il torso nudo.
Si stava lavando le braccia, sfregando via il sangue dalla pelle, togliendo il fango dai capelli, i resti degli amici dal corpo.
Era bellissimo, e non potei fare a meno di restare a guardarlo...
Le notai dopo, le sue ali.
Due grandi ali nere, tatuate sulla schiena.
Ad ogni movimento sembravano schiudersi ed aprirsi...
Mi avvicinai piano, entrando nell' acqua fredda.
Lui si voltò appena, e sorrise, con la sigaretta al lato della bocca.
"Non ti chiederò se stai bene, perché so' che non è cosi. Ma sei vivo, questo è l' importante..."
"Grazie a te..."
"No... Hai fatto tutto da solo. Avevi solo bisogno che qualcuno ti ricordasse di non arrenderti."
Annuii, avvicinandomi di più a lui.
"Avrei bisogno di un' altra cosa da te oggi, se non è chiedere troppo."
"Cosa?"
"Ricordamelo di nuovo Cas... Ricordami che c' è ancora qualcosa di bello a questo mondo..."
Lui abbozzo un sorriso, poi chinò il viso.
"Ti prego Castiel... Sono due giorni che vedo morire le persone." Esclamai, avvicinandomi ancora. "E credevo che ci sarei morto anch' io, in quel maledetto fango."
Gli misi le braccia intorno al collo, appoggiandomi al suo petto.
"Ho bisogno di te..."
Lui tirò su il viso, guardandomi con gli occhi che si accendevano e brillavano come stelle.
"Nessuno mi aveva mai detto di aver bisogno di me..."
"Io ne ho Cas..."
"Perché mi rendi tutto così difficile?" Disse sospirando, con lo sguardo carico di dolore.
"Mi dispiace..."
"No... Non devi scusarti. Tu, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata..."
Mi strinse con forza, baciandomi in un' impeto di passione.
Era bello, sentire le sue labbra muoversi sulle mie, la sua lingua insidiarsi nella mia bocca.
Mi sfilò la giacca, strappandomi la camicia, finché non rimanemmo entrambi a torso nudo, e potemmo sentire il calore reciproco della nostra pelle, mentre l' acqua ci ripuliva dai nostri peccati.

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