2 - Eiji Okumura

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Sono tornato in Giappone da un po' e non riesco a non pensare ad Ash.
Gli avevo lasciato un biglietto aereo per raggiungermi ma non l'ho né visto né sentito in alcun modo.
Adesso sono affacciato alla finestra della mia stanza a guardare la goccioline della pioggia infrangersi sul vetro e scontrarsi tra loro, com'è successo tra me e lui.
Non so cosa aspettarmi d'ora in poi, potrei riprendere la carriera agonistica da astista, così potrei avviarmi ai campionati, vincere dei soldi e tornare a New York...
Nonostante questa prospettiva mi sproni ad alzarmi e iniziare questo percorso non ci riesco.
Sento di essere rimasto solo, di essere stato abbandonato, anche se in un certo senso, anche se non volevo, sono stato io ad abbandonare Ash.
Ash...che nome strano per me, ma osservando l'estero è molto diffuso.
Ma quello non è il suo vero nome.
Nonostante lo chiamino tutti così, io so il suo vero nome.
Un nome potente, regale, di grande impatto.
Aslan.
È ormai impresso a fuoco nella mia mente, e dubito che la cicatrice se ne andrà mai via.

Ad un tratto sento bussare alla porta e mi giro di poco verso la porta, posta al capo opposto della stanza rispetto a dove mi trovo.

"Eiji è pronta la cena, scendi. Ho fatto il ramen" esclama mia madre da dietro la porta.

Guardo l'orologio sul comodino accanto al letto e noto solo ora che sono passate un paio d'ore da quando mi son chiuso in stanza a pensare.

Ormai è così da quando ho rimesso piede in patria e son tornato a casa, non esco dalla mia stanza se non per mangiare e andare in bagno, tantomeno esco all'esterno.
La mia famiglia si sta iniziando a preoccupare per me ma non posso farci molto.
Non sono più depresso per via delle conseguenze dell'infortunio, ma ho addosso una malinconia ancora peggiore.

- Adesso arrivo -dico con tono di voce basso, appena udibile attraverso la porta della mia camera.

Sento dei passi allontanarsi e dopo un paio di minuti decido di raccogliere le forze e alzarmi, per poi uscire e dirigermi in cucina.
Mi siedo a tavola senza dire una parola, mentre la mia famiglia cerca invano di intavolare una conversazione con me.
Evitano di parlare dell'unica cosa, dell'unico luogo, dell'unica persona di cui mi importa davvero per cercare di farmi dimenticare e reinserire nel mio ambiente abituale.
Ibe è stato costretto a raccontargli tutto e da quel giorno non si è più fatto vivo.

Mi alzo, prendo il piatto e vado a sciacquarlo nel lavandino, dopodiché me ne torno nella mia stanza.
Mi guardo un po' attorno, è tutto come prima ma ogni cosa sembra estranea ai miei occhi.

Decido finalmente di uscire ma senza dirlo alla mia famiglia, gli darei solo speranze inutili.
Mi infilo le scarpe e una felpa sopra la tuta che già indosso, dopodiché scendo piano le scale che portano al primo piano e di conseguenza alla porta d'uscita.

È tardi ma so già la mia meta.

Decido di fare una corsetta per smaltire un po' la tensione, l'aria sul volto mi fa sentire libero.
Non molto tempo dopo raggiungo la casa del mio amico giornalista e busso finché non mi apre, squadrandomi in cerca di una risposta ma allo stesso tempo con uno sguardo triste e dispiaciuto.

- Ibe, posso entrare? - chiedo cortesemente, in ogni caso sono un ragazzo educato e l'ho fatto tanto preoccupare, è il minimo.

Lui mi fa un cenno con la testa e si scosta dalla porta affinchè io possa passare.
Mi vado a sedere sul divano in salotto e lui si siede sulla poltrona davanti a me.
Ci guardiamo per alcuni secondi finché lui non decide di parlare.

- Perché sei venuto? - mi chiede pacato.

In realtà non lo so, è stato l'istinto a suggerirmelo, magari lui potrà dare un senso a tutti questi pensieri e a tutta questa tristezza che ho addosso, e magari porvi rimedio in qualche modo.

- Non ne ho idea, avevo bisogno di uscire e casa tua è stato il primo luogo che mi è venuto in mente - rispondo sincero.

Lui studia per un paio di minuti la mia espressione e sospira.

- Sei ancora fermo a quello che è successo in America e non riesci ad andare avanti vero? -

Ci penso un po' su ed effettivamente è così, già lo sapevo ma non volevo ammetterlo a me stesso.

- Ash non ti ha raggiunto perchè l'hanno accoltellato, ma sono riusciti a chiamare un'ambulanza e ora sta bene - mi comunica il mio amico.

Alzo di scatto la testa e lo fisso incredulo, incapace di proferire parola.

- Dov'è ora? - mi esce frettolosamente questa frase dalle labbra, incapace di fermare la smania di sapere cosa gli è successo.

- Il signore che l'ha salvato l'ha preso in custodia, ora è a casa sua - mi dice.

- E tu come lo sai? -

-Ti ricordo che Max è un giornalista, e quest'uomo è abbastanza un pezzo grosso, è il dirigente di una grossa azienza, il fatto che abbia portato a casa con sé un ragazzo mai visto prima ha suscitato scalpore e curiosità -

Rifletto qualche istante sulle parole che ho appena sentito e mi alzo di scatto.

- Devo andare da lui. Come si chiama quest'uomo? - chiedo con gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa e l'ansia di sapere come sta lui.

- Non lo so, Max mi ha solo detto queste cose, e in ogni caso non te le direi, se ti succedesse di nuovo qualcosa i tuoi andrebbero fuori di testa -

- Ibe non me ne frega un cazzo, informati e dimmelo, altrimenti andrò da solo e ci volesse una vita intera lo troverò - mi tappo la bocca e sgrano gli occhi, non ho mai parlato in questo modo.

Lui mi guarda e si alza, capendo che non ha scelta.

- Va bene, ma non posso venire con te, sarei tuo complice e se i tuoi mi denunciassero sarei fregato. Chiederò ad una mia conoscente di ospitarti qualche giorno, ma non di più-

- Va bene, grazie - finalmente mi calmo e prima di dirigermi verso la porta per uscire faccio un inchino, come segno di ringraziamento.

I soldi non saranno un problema, ne ho molti da parte.

Torno verso casa il più veloce possibile, pee evitare che i miei si accorgano della mia assenza ingiustificata.

Non appena arrivo salgo in camera e mi distendo sul letto.

Dopo un po' che il mio sguardo vaga esso si concentra su un blocchetto poggiato sulla scrivania, tra le varie cianfrusaglie.
Decido di alzarmi e andare a prenderlo, lì vicino trovo anche qualche matita e dopo aver preso il tutto ritorno sul letto, stavolta seduto a gambe incrociate e con la schiena poggiata alla finestra dietro di me.

Inizio a scarabocchiare, la cosa va avanti per parecchio tempo mentre io son perso nuovamente nei miei pensieri, fin quando la matita che sto usando crea un fastidioso stridio sul foglio, dovuto al legno, poiché l'avevo esaurita fino a quel punto senza accorgemene.

Scorgo ciò che ho creato e la cosa mi lascia al tempo stesso stupito e turbato.
Ho disegnato Ash, con metà volto sorridente e metà triste, come se ci fosse una linea invisibile a dividere due figure distinte tra loro, perché troppo diverse.

Decido di poggiare il quaderno e infilarmi sotto le coperte, ho bisogno di spegnere i pensieri.

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Mi risveglio in una stanza che non è la mia, mi guardo attorno e noto che è una specie di dormitorio con tanti letti in un unica stanza, anche se ogni spazio ha il suo separé.
Mi alzo e lo scosto, vedendone tanti altri, chiusi o aperti che siano.
Esploro con lo sguardo fino a che non scorgo una ciocca bionda spuntare da sotto una coperta arancione.
Mi dirigo cautamente verso quel punto e allungo la mano, con l'intenzione di scuotere la figura per farla svegliare.
Quando però ciò avviene la persona lì distesa non si muove affatto, così mi allarmo.
Mi allontano leggermente con un brutto presentimento.
Non appena lo faccio la figura si alza improvvisamente e noto che non è il mio amico ma Arthur.
Mi giro e scappo più velocemente possibile lungo un corridoio che sembra infinito, mentre il ragazzo mi segue a pochi passi.
In lontananza vedo Ash.
Corro a perdifiato per raggiungerlo ma ad un certo punto non sento più la terra sotto i piedi e cado, chiudendo gli occhi e aspettando l'impatto.

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Strong souls never die | banana fish |Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora