04. Al piano otto, in fondo a destra

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Eva è decisa a cambiare qualcosa, nella sua esistenza banale e inutile. E la prima cosa che vuole cambiare è il suo lavoro, perché non se ne parla affatto, di trovare un uomo. Quindi si mette a cercare un'agenzia e poi si fa consigliare che lavoro cercare.

Tra tutti, l'unico che sembra andare bene è l'impiegata in un ufficio pubblico. E in quella città fatta di grigio, lei si deve adattare alla tendenza.

E così, nel giorno in cui non deve lavorare né dalla signora Agnese né in altre case, si reca sul posto, coi capelli puliti e il miglior vestito che possiede nell'armadio stretto.

L'edificio è in centro, ed è costretta ad arrivarci camminando, perché non ha una macchina. Lungo la strada, è sicura di essere stata guardata da più d'una persona. Attira l'attenzione, coi bottoni della camicia che sembrano esplodere sul petto e la borsa che a malapena l'entra sulla spalla. Ma ignora tutto e tutti, arriva davanti al grande ufficio e fa un bel respiro prima di entrare.

Non appena spinge la porta d'entrata, un paio di persone si girano a guardarla: si stringe nella sua pelle, chiude alle sue spalle l'uscio e si avvia a testa bassa alla reception.

— Salve, io avrei un appuntamento col signor...

Niente, il nome le sfugge dalla mente. Eppure ce l'ha sulla punta della lingua, in bilico per cadere giù!

— Rinaldi?

— Esatto!

E menomale che c'è la receptionist, che le cose le ricorda meglio di lei, anche se la guarda schifata.

— Piano otto, l'ascensore è rotto. Stanza in fondo al corridoio, a destra.

Eva resta un attimo interdetta, poi capta il sorrisino sornione della ragazza, giovane, bella, castana, magra. Un moto di rabbiosa tristezza le infiamma il petto, ma gli occhi rimangono cheti e bassi.

Ringrazia e si avvicina al cartello delle scale, salendo un gradino alla volta e contandoli inconsapevolmente. Guarda in su e si sente morire, perché ci sono troppe scale e lei ha già perso il fiato.

Per arrivare su impiega una ventina di minuti buoni, tra soste e sudore. È in ritardo di dieci minuti per l'appuntamento e vorrebbe solo buttarsi giù dalla prima finestra aperta che vede, imboccando il corridoio del piano otto.

Eppure va avanti, bussa alla porta e al permesso da dentro si fa spazio nella stanza. Trova il signor Rinaldi con i capelli scombinati e la giacca stravolta. Se Eva volesse cercare, sa che troverebbe qualcuno da qualche parte. E allora, visto che non vuole cercare e non ha voglia di vedere, chiude gli occhi e si presenta, sedendo su una delle due sedie.

Il signor Rinaldi di aggiusta la giacca, pettina con le mani i capelli. Cerca di abbozzare un sorriso ma si muove a disagio sulla sedia.

— Salve, Eva. Non ho molto tempo, quindi vediamo subito cosa fare.

Eva lo vede fare uno scatto sulla sedia, una risatina e un tallone nudo che sbuca da sotto la scrivania. Tace. Annuisce piano.

— Lei vuole davvero questo - alzata di tono - lavoro?

Eva annuisce di nuovo, incapace di parlare. C'è il silenzio nei suoi occhi e il disgusto nel suo cuore.

— Sicurissima?

Qualche altro movimento sulla sedia, una mano che sparisce giù e qualche ciocca bionda che compare su. Certo, certo che lo vuole, quel lavoro. Lo dice a mezza voce, con la piccola valigetta in pelle sulla pancia.

— Allora è assunta! Arrivederla.

Eva resta un paio di secondi sulla sedia, con gli occhi statici. Le palpebre che sbattono pigramente fra loro. Poi si alza, liscia la gonna e borbotta un arrivederci fra i denti storti.

Appena è con un piede fuori dalla porta, sente il signor Rinaldi che richiama qualcuno bonariamente. Non ha voglia d'investigare. Tace e sparisce per le scale.

Viltà negli occhi tuoi,
complici di peccato:
se solo potessi parlare!

JevaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora