11. Il soffio del vento

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Adamo. Sì, Eva aveva davvero dato un nome a quell'essere immondo e così sbagliato. E l'aveva chiamato Adamo. Paolo aveva ancora influenza sulla sua vita, a quanto pare.

È il diciassette Marzo 2013. Fa freddino, Eva è vestita in nero. Funerali nerastri di striate nuvole grigie. È un numero magico, si dice convinta Eva. È autoconvincimento passivo e rassegnato. È acqua gelata sulla pelle, costante, una lacrima alla volta. E deve essere per forza qualcosa di bello, di magico, o non c'è soluzione di sorta. Paolo le va vicino e cerca di stringerla tra le braccia. Lei lo scansa, l'aria combatte il suo movimento verso le sue allucinazioni scorticate.

Gli anni della gioventù sprecati! Il vento preso in giro per il suo verso millenario e rauco! Se Eva tornasse indietro, si pentirebbe e s'affiderebbe al Signore: chissà se sua nonna sarebbe stata fiera di lei, a quel punto. Chi lo sa, se non il Signore stesso? Numeri sui calendari, il confine labile fra realtà e sogno sembra star sbiadendo. Il castello di carte di Eva traballa sul tavolo: c'è il terremoto, e lei fa cadere con la carta finale tutta la costruzione.

La lampada sfarfalla. Eva spera che domani sia una bella giornata. Beve qualche goccio di whisky avanzato: sa di stantio, sa di vecchio, rozzo, ruvido, bleah. Fa schifo. Eppure, finché non rimangono che i cocci a terra, Jeva non smette di cercare quelle lacrime d'oro.

La felicità è un processo lungo di autoconvincimento.

Non trovo una fine, né uno scopo.
Circolo vizioso.

JevaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora