Erano gli ultimi scampoli di civilizzazione mondiale.
Per alcuni era una speranza, per altri una certezza scientifica, altri ancora la chiamavano crisi.
La propaganda girava attorno a una parola che i malintenzionati chiamavano crescita.
Giornalisti,pubblicitari e politici spadroneggiavano, i bottegai tiravano avanti.
Quelli grossi, bottegai, spendevano gli ultimi spiccioli del loro tempo in una frenesia devastatrice, gli altri, la maggioranza, i piccoli bottegai, a lamentarsi, a piagnucolare, a soffocare ben bene i sensi annebbiati dentro una sabbia spessa e fitta di sporche, irrilevanti immagini.
I vecchi morivano soli, gli inoccupati aumentavano tanto quanto le prescrizioni mediche e l'assunzione di psicofarmaci, le imprese commerciali fallivano, i mendicanti si moltiplicavano in ritmo proporzionale all'aumento della popolazione mondiale, gli artisti forse c'erano ancora, il più delle volte misconosciuti, persino a sé stessi. Si mangiava male e si respirava ancora peggio.
Io, dal mio canto, dopo un percorso esplorativo nelle terre fra le più neglette e abominevoli del globo, mi ero ritirato nel borgo natio, a cercare un po' di pace nella lingua, in un mio canto auto-ipnotizzante, a tentare di scovare, disincastrare e artigliare qualcosa che assomigliasse a una mia antica passione di bambino: qualcosa che, in mancanza di un nome migliore, chiameremo le verità, o meglio le verità delle esperienze o ancora, mettendo da parte ogni remora di linguaggio e ogni paura di non aderire a codici imposti, quello che succede quando il mio corpo deambula, quando mi arrendo alla vita.
Sognavo del mio primo amore ritrovato, a cantilenare insieme, a dirci dolci paroline tutto cuore e sbotti di risate quando il diaframma scoppia fuori irrefrenabile per corrispondenza d'affetti e profondità di occhi e occhiaie.
Sei così profondamente donna, soprattutto quando ti si cerchiano le occhiaie, quando appari profondamente stanca, ti rendi dolce e la tua pelle sotto i vestiti dev'essere tesa e squillante come un tamburo,mi provai a dirle nei miei diciott'anni.
Lei rispondeva al telefono e mi ricambiava la voce e ascoltava pure i miei silenzi come io i suoi, percorrevamo insieme stradine spente che accendevamo coi colori delle nostre voci, e ci fermavamo solo dopo un pezzo, solo dopo tante salite, ancora non stanchi, che le mani avevano ancora voglia di ridere e di carezzare. Un giorno lei mi rifiutò un abbraccio, per vite sue alterne che non voleva scrollare,il mio cuore si frantumò e io partì via per dimenticarla, come sempre accade. Ma non si dimentica.
Resta lì, come un marchio indeciso, pronto a risfolgorare sulla pelle,giusto sopra alla laringe, in punta di lingua, pronto a traboccare.
La ritrovai finalmente, ed era più bella di prima, ancora legata a tanti suoi fili del cuore, a tante altre sue vite spaiate, che le facevano tese le mani, un poco grinzose, ma ancora tremula la voce, sullo scoppio della felicità, delle sue risate squillanti, argentine.
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Di squarci e di isole
RomanceMarco ci prova a seguire il suo cuore, ad andare incontro alla sua vocazione. Lascia un lavoro che non gli piace, che lo rende infelice in Inghilterra e torna a Catania, torna da dov'è partito, per scrivere il suo primo romanzo, per finire almeno un...