Mi diressi in città nel pomeriggio, nel dopopranzo, nel luogo dei nostri incontri.
Girovagavo,andavo al bagno dei bar, mordevo un pezzo di tavola calda, bevevo un bicchiere d'acqua, mi aggiravo per le bancarelle dei libri, fumavo passeggiando per le vie del centro, ritornavo a un vecchio canto,schivavo macchine, motorini, poi un po' stremato, riparavo dentro le mura di una biblioteca per farmi assorto, far assorbire i rumori,alla fine aspettando lei, contavo i minuti, i secondi che ci separavano.
Arrivò preannunciata da un sms, chiusa in un suo cappottone e sotto un grosso cappuccio che le si vedeva appena il viso sorridente, lo sguardo fresco, il naso importante, il suo corpo lanciato.
Due baci sulle guance e una valanga di parole, l'invito a bere ancor prima di mangiare, ondeggiavamo piegandoci e gesticolando,ridacchiando forte, a zigzagare audaci sopra i selciati dei marciapiedi stretti, quasi inesistenti, mi condusse in un posto che sapeva lei, i magazzini sonori, a sederci a un tavolino a parlare, ad aspettare gli altri, una sua compagnia.
Controllava spesso il suo apparecchio, il telefonino, pedinata a sua volta da un suo fidanzato bello, giovane e inopportuno quanto innamorato, due belli occhi che mi vociavano eventi sparsi per dirmi: "Questa è roba mia, è tutta la mia vita, tu che ci fai qui? Perché ti metti in mezzo, vedi di non esagerare!" Aveva ragione povero ragazzo,nella sua vita stretta, nella sua monogamia incallita.
Dal canto mio non avevo nessuna intenzione di complicare niente, le mie mire erano semplici, pensavo solo a vivificare. Seduti al tavolo nella penombra del locale, in quei dieci minuti di tregua dalla raffica telefonica rivivevo l'antico, eterno incanto della sua voce che parlava dolce, lenta, calibrata, tutta un sali e scendi e quell'affiorare di risa, quelle note alte ma trattenute, non sguaiate, che sapevano bilanciare i miei commenti e battutine e che sapevano quando scaraventarsi nel brillio degli occhi, anche in una risata scema e pur sempre duplice, ammaliante.
Fece in tempo a raccontarmi del suo lavoro all'aeroporto, della strana antipatia che gli davano i maltesi, a cui faceva interviste mirate e di marketing, (a farsi un po' i cazzi loro disse e io, che pendevo dalle sue labbra, a questa espressione, semplicemente sorrisi,pensando "quant'è bella pure quando si lascia andare al popolare"), del progetto dei suoi prossimi viaggi, per far studiare la figlia fuori, farle imparare bene l'inglese, lasciarle in dote questa cosa fantomatica che tutti chiamano futuro, speranze.
Io un po'm'intristivo ai suoi discorsi economici, risaputi, di una semplicità che aveva perso ogni scusante, un po' mi accaloravo al suo saper distillare i suoni, le movenze, i silenzi, le labbra, lo scintillio degli occhi brucianti.
Le nostre mani erano lontane.
C'incamminammo per raggiungere gli altri, poi, finalmente, giù per tortuosi percorsi nella città ferma, immobile, fatta di buio e palazzi in pietra lavica, torbida, piena di odori, incombente, sfregiata solo dallo spassare dei motori, da voci lunghe di qualcuno che chiamava fuori, nel freddo.
Ci fermammo a un panificio per mangiare una pizzetta, avevamo fame.
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Di squarci e di isole
RomanceMarco ci prova a seguire il suo cuore, ad andare incontro alla sua vocazione. Lascia un lavoro che non gli piace, che lo rende infelice in Inghilterra e torna a Catania, torna da dov'è partito, per scrivere il suo primo romanzo, per finire almeno un...