CAPITOLO 3

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“...Non te ne concederò un’altra” quelle parole mi rimbombavano nella testa sin da quando aveva lasciato la stanza sbattendo la porta alle sue spalle, lasciandomi l’odore di lui su tutto il corpo.
Mi strappai il vestito di dosso e lo lasciai abbandonato sul pavimento lontano da me. Mi schifava pensare di dormire e impregnare l’unica cosa che possedevo (il letto), di quel suo fetore maleodorante. Già la pressione delle sue dita su i miei polsi, le mie cosce e la mia schiena, non decideva di andarsene. La sua saliva su collo me la pulii con uno straccio mentre le mani non smettevano di tremarmi sempre più forte. A bagnare la stoffa furono le mie stesse lacrime, salate. L’unica azione che mi era concessa compiere e per cui non ero punita era il semplice gesto di piangere.
Mi rannicchiai seduta sul letto, con addosso solo la biancheria intima nera. Se avessi avuto altri vestiti anche quella mi sarei strappata.
Affondai la testa nel cuscino e urlai quanto potei. Sperai che la mia voce rimanesse ovattata e che nessuno fosse partecipe del mio dolore.
Quelle parole, quelle maledette parole. Perché le aveva pronunciate? Per ferirmi? Per costringermi a donarmi a lui così come aveva sempre insistito?
Aveva già provato in altri casi a ricattarmi in tutti i modi, ma mai aveva toccato il nome dei miei genitori con quella cavernosa voce che al contempo era disgraziatamente melliflua.
Quella volta mi aveva stupito, mi dissi. Quella volta me lo aveva fatto credere veramente.
Con aria fiera e leggera mi alzai dal letto con un piccolo balzo. Va tutto bene, mi ripetevo nella testa e mi convinsi ad un certo punto.
Non mi resi conto delle ore che passavano, solo sentivo il ritmo del pulsare altalenante del mio cuore. Non potevo essere stata così credulona. Avrei dovuto reagire in quel momento. Ecco, con questo passai il resto delle ore notturne. Sapevo che provare a rilassare il mio corpo mi avrebbe riportata stretta tra le sue braccia, che per me rassomigliavano solo a delle tenaglie in quel momento, come se imponessero di plasmare una bambola industriale, perfetta in tutti i punti, lontana da qualsiasi pecca.
E fu così che troppo affollata dai miei pensieri di conforto e da ricordi spiacevoli,  non mi accorsi della piccola candela che faceva capolino dallo spiraglio della porta. La sua luce si proiettava nella stanza metallica e arrivava alle mie narici il profumo leggero della cera bruciata.
Un piccolo angelo bianco ora apriva la porta a fatica, con le manine tutte tirate e rosse dallo sforzo. La sua camicia da notte a stento le arrivava ai piedi, poiché era troppo grande per lei.
“Ti ho portato qualcosa da mangiare Aalina. Ti ho sentito piangere.” Quando riuscì a creare uno spazio necessario perché il suo corpicino potesse passarci, mi sorrise e si avvicinò zampettando. Era la più piccola, ma alcune dicevano che il suo destino era già stato deciso prima della nascita. Non potevo pensare l’inferno che questa piccolina avesse vissuto, non potevo capacitarmene. Mentre le altre la sogguardavano ogni volta che la vedevano saltellare in giro per i corridoi da sola, con i suoi capelli rossi ricci lunghi fino a metà schiena, io pensavo che non ci fosse altro che ammirazione per lei da parte mia.
“Ho saputo che ti ha toccata.” Continuò, sedendosi sul mio letto e appoggiando la candela sul comodino traballante. Mi offrì una ciotola di riso, che cominciai a trangugiare con le mani, facendo fatica a concentrarmi sulla sua voce. Erano diciassette ore che non avevo messo nulla tra i denti.
“Non sono qui per confortarti, ma per avvisarti. Non è molto contento del tuo rifiuto e penso che tornerà molto presto per soddisfare il suo piacere. Non volevo rivelartelo ma è giusto che ti prepari a quello che succederà. Lui verrà stanotte. Mancano ancora un paio di ore alla mezzanotte. Te lo dico perché vorrei vedere ancora il tuo viso tra tutti, piangerei tutti i giorni se ti portassero via”.
Mi andò di traverso un chicco di riso, per questo cominciai a tossire fino a che mi sentii il sangue a fior di pelle sulle gote. Non solo in chicco di riso mi aveva provocato così tanto stupore. Dalle parole di Lui pensavo sarebbero passati giorni, settimane. Era il momento di tornare alla realtà, di farsi forza e affrontare ciò che alle altre non era stato risparmiato. Io ero stata la preferita per troppo tempo, ora avevo uno scotto da pagare, e il peggio era che non sapevo quanto mi sarebbe costato.
“Eleonora...” la fermai dall’alzarsi con un balzo dal letto, mentre mi liberava della ciotola pulita. “Non so come ringraziarti.” Le dissi a bassa voce, trattenendole il braccio che sorreggeva la ciotola.
“Non soffrire troppo, è questo che ti chiedo”. Mi rispose lei e mi mise la sua manina piccola e calda sopra la mia fredda e sudata. Detto ciò le tornò il sorriso sulle labbra e mi stampò un bacio veloce sulla guancia prima di trotterellare fuori dalla porta, lasciandomi sola con la candela.

THE RUSSIAN GIRLDove le storie prendono vita. Scoprilo ora