CAPITOLO 4

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La mia mente viaggia attraverso un luogo a me sconosciuto.
Intorno a me é tutto bianco e ho perso la percezione alle dita. Cerco di aprire gli occhi ma c'è qualcosa che me lo impedisce.
Sembra essere una mano che mi obbliga forzatamente a tenermi ferma e a non muovere un muscolo, nonostante il mio disperato desiderio di flettere un braccio e alzarmi da quel letto in cui sprofondo.
Ogni volta mi risveglio nel sogno e non nella realtà. È questo il prezzo da pagare per essere entrata improvvisamente nel mondo degli adulti senza essere stata abbastanza pronta e sicura? Non lo so, non lo so.

Muovevo la testa nel sonno da un lato e dall'altro del cuscino e sentivo sfregare la mia guancia arrossata contro la stoffa ruvida e grigia del cuscino.
Mi ci vollero dei minuti per uscire da quello stato di trance che mi provocava un sonno semi-sveglio.  Probabilmente il mio inconscio voleva costringere il mio corpo a rifiutare il risveglio,  così da non assistere alla scena che mi ritrovavo davanti agli occhi.
Pian piano ripresi a sentire le coperte che mi arrivavano fino alla pancia nuda e il braccio di lui che mi avvolgeva il busto tenendomi in una presa serrata. La sera stessa, prima di svenire, avevo pensato che sarebbe stato più di sollievo svegliarmi in un letto vuoto, con nessuno accanto a me che mi accarezzava ancora una volta il basso ventre.
Era quello che mi aveva fatto svegliare.
Lui già aveva aperto gli occhi da ore e mi osservava combattere contro me stessa nel dormiveglia.
Aprii gli occhi e potei vedere il suo viso a pochi centimetri dal mio, che, con le sopracciglia aggrottate, accompagnato dai disegni che creava sulla mia fronte e sulle mie gote, sembrava avere un tono di tranquillità e di quasi preoccupazione. Spostò la mano da dove l'aveva poggiata sotto la mia pancia e mi accarezzò la guancia. I suoi capelli mi solleticavano il mento e gli oscuravano metà volto. Con gli occhi stanchi e contornati da delle marcate borse grigie, posò lo sguardo su di me e quegli occhi sembravano dirmi qualcosa, qualcosa che non sapevo. Si bagnò il labbro inferiore e socchiuse la bocca, come se fosse rinchiuso in un incantesimo da cui non c'era via d'uscita. Si spostò la ciocca che tormentava il mio mento da qualche tempo e riappoggiò le dita sul mio viso, ricominciando a tracciare la sua mappa immaginaria. Era confuso, pensieroso, forse.
Mi chiesi se si sentisse in colpa per quello che aveva commesso. Sorrise e fu la prima volta che notai due fessure ai lati del viso. Lo fecero apparire più fanciullesco e infantile.
Fosse stato davvero così.
Il suo intento di trasformare ciò che era stato uno stupro in una unione dolce e voluta mi fece salire la nausea.
Ringraziai con il pensiero il soldato che cominciò a battere forte i pugni contro la porta, mentre urlava nella sua lingua. Distinsi solo il nome di Lui, Jeongguk.
Gli urli dell'uomo dall'altra parte della porta si fecero sempre più intensi e disperati. Il mio corpo reagiva ai piccoli spaventi che provocavano i colpi sfrenati che facevano gemere la porta.
Lui si voltò verso di me dopo essersi assicurato che la porta fosse chiusa, e cominciò a vestirsi in tutta fretta. Prima di mettersi le scarpe però, fu come se si ricordasse di me, stesa sola sul letto, nella stessa posizione della sera precedente, in attesa che lui si dileguasse.
Frugò nella tasca del pantalone e mi lanciò una piccola chiave rossa sul letto.
"Cambiati. I tuoi vestiti li ho strappati ieri notte, perdonami. Troverai nell'armadio un cambio."
E con questo aprì la porta di fretta e furia e si scontrò con il minore. Entrambi presero una bella botta in faccia e continuarono a mandarsi insulti a vicenda mentre la porta veniva chiusa dall'ufficiale senza ricordarsi di sigillarla.
Mi alzai di scatto dal letto e con tutta me stessa sperai che non se ne fosse accorto e pregai di non risentire dei passi affannati al di là della parete che si affrettavano a chiudere con cura la porta.
Ma nessuno venne, nessuno se ne rese conto.
Osservai il chiavistello della porta attentamente, con il cuore che andava in palla e le mani tremanti mentre mi infilavo una tuta nera troppo grande per me. I pantaloni erano troppo lunghi, ma potei stringerli in vita con l'elastico. Anche la maglietta era oversize.
Mi chiesi se fossero appartenuti a lui. Mi venne di nuovo un conato di vomito e la vista non smetteva di offuscarsi.
Ma sarei uscita da quell'incubo.
Mi misi delle scarpe che trovai nell'armadio e stranamente quel paio fu l'unico che mi calzò a pennello. Erano il segnale che mi chiamavano alla fuga, alla libertà.
Poi dopo qualche tempo, cominciai a sentire degli spari che superarono il rumore assordante dei miei pensieri. Mi coprii le orecchie di colpo e cominciò a girarmi la testa a causa del rumore acuto troppo forte che aveva raggiunto i miei timpani.
Al di fuori di me sentivo solo un ronzio fastidioso che mi impediva di ascoltare anche il rumore dei miei passi.
Ora o mai più, mi dissi con decisione. Preferirei morire che essere di nuovo costretta ad una notte con lui.
Il contatto delle mie dita con il freddo pomello della porta mi provocò un brivido che mi attraversò il corpo. I peli delle braccia si rizzarono e il colore azzurrino sulle unghie cominciò ad apparire indisturbato.
Con un colpo secco aprii la porta e non mi curai del suono che fece, dato che intorno a me sentivo in lontananza lo scoppiare imperturbabile delle bombe a mano. Il mio corpo aderì contro la parete esterna della mia stanza. Mi guardai in giro. Era la prima volta che vedevo ciò che esisteva fuori dal mio buco nero e desolato.
Un raggio di luce mi attraversò l'iride di entrambi gli occhi e sentii male alle palpebre, che diventarono improvvisamente pesanti causandomi bruciore ogni volta che socchiudevo gli occhi per conoscere bene l'ambiente che mi trovavo intorno.
Nonostante la luce opprimente, entro poco riuscii ad abituarmi e a spostarmi dall'angolo del muro al quale mi ero aggrappata con le unghie. Percepii la spinta dell'intonaco che mi distruggeva le unghie. Mi morsi il labbro per trattenere il dolore. Mi mossi a tentoni con le braccia ancora appiccicate al muro, come se potessero sostenermi. Il corridoio era lungo e illuminato dal biancore del sole.
Non sapevo come muovermi, dove andare. La mia fuga non era stata ben progettata e già vedevo la punizione fisica che avrei subito dopo aver tentato di fregarlo sotto il suo stesso tetto, sotto il suo stesso esercito.
Pronunciai il nome di Eleonora invano appena raggiunsi un'altra porta serrata. Ma questa rimaneva chiusa e silenziosa.
Fu a quel punto che, da sola e senza Eleonora, presi coraggio e l'adrenalina cominciò a salirmi in corpo e potei finalmente scorgere il corridoio con più chiarezza. Ancora qualche porta e si trovava quella principale, di legno, attraverso la quale ero passata la prima volta, prima di svenire.
Mi misi dritta e non pensai più di appoggiarmi al muro. Presi un respiro profondo e cominciai a correre in direzione della porta. Doveva essere aperta, giuravo che lo fosse.
Con l'avambraccio sinistro colpii la porta di legno e questa si lasciò andare senza fare storie.
Ma quello che vidi fu ancora più tragico, ancora più orribile di quello che avevo visto fino ad allora in quella stanzetta buia degli incubi.
Il sangue. Il sangue per terra, sulle mie scarpe, sull'erba un tempo verdognola. Il sangue sembrava dipingere anche il colore del cielo, in quel momento nuvoloso e arrabbiato per il tradimento dell'uomo. Un tradimento che lo aveva spinto ad uccidere un altro suo simile.
Mi guardai in giro e la carneficina umana era molto più grande di quella che immaginavo. Le colline un tempo rigogliose di alberi e di fiori, quel giorno erano solo terra ammassata, spostata dalle bombe che avevano distrutto tutto. Avevano distrutto l'uomo.
Mi allontanai correndo dal luogo di morte e intanto piangevo lacrime salate per tutti i corpi senza vita e abbandonati a loro stessi uno sopra l'altro che avevo visto solo da lontano.
Corsi con affanno e disperazione.
Non ero in un luogo sicuro e se non fossi morta nell'accampamento militare di Jeongguk, sarei di sicuro finita vittima delle bombe.
Mi asciugai il naso mentre le gambe cominciavano a bruciarmi dalla tanta fatica. Non correvo da troppo tempo per abituarmi a questa fuga da ciò che era malvagio. Fu proprio quando le mie gambe cominciarono a cedere che un corpo mi si fiondò contro e mi buttò a terra. Il tonfo con il suolo mi provocò un male acuto alla spalla e alla schiena. La persona sopra mi me mi fece voltare verso di lei e potei scorgere con difficoltà i tratti del suo viso. La luce del sole diretta negli occhi mi accecava ancora più di prima e le parole sconosciute dette con fretta mi occupavano la mente. Sarei morta. Lo sapevo, quelli sarebbero stati gli ultimi istanti di vita che mi sarebbero stati concessi. Riuscii solo a pensare al volto di mia madre. Dolce, premuroso, mentre mi vestiva la mattina e mi acconciava i capelli. Non l'avrei più vista. Non l'avrei più toccata e avrei decisamente perso il suo profumo per sempre.
Perché doveva finire tutto?
Mi risvegliarono dal mio attacco di panico due mani gradi che mi presero il viso e me lo scossero.
"Sei pazza?" Mi disse nell'inglese più piacevole che avessi mai sentito. Il primo colore che vidi fu il rosso. Non un rosso scuro e spento, bensì un rosso rubino, che mi impastò il viso appena lui si rannicchiò sopra di me per difendermi dalle bombe. Appena si rialzò voltai il viso di lato e vidi che al nostro fianco ci proteggeva dalla vista dei nemici un cumulo di cadaveri. Prima che potessi urlare lui mi mise una mano sulla bocca e mi fece segno di fare silenzio.
"Non possiamo permetterci di soffrire. Non adesso." Mi sussurrò all'orecchio, cercando di confortarmi. Il mio istinto naturale fu quello di divincolarmi dal peso di lui e dal sangue che gli usciva da un taglio che aveva sulla fronte.
"Vuoi morire?!" Alzò di poco la voce, ma allentò la presa sui miei avambracci, notando che stavano diventando rossi. Mi liberò la bocca dalle sue mano sporche di terra e fece segno di resa. Si alzò a fatica da sopra di me e si andò a sedere appoggiato a dei sacchi di fieno vicino ai cadaveri. Notai che si massaggiava una gamba e che guardava il cielo con un'espressione di smarrimento.
Mi misi anche io seduta, ma rimasi dov'ero. Ricominciai a vedere meglio ciò che succedeva intorno a me e notai che tutto era finito. Che ora rimanevano solo i deceduti, coloro che si erano sacrificati.
Non ci volle molto prima che arrivasse un altro uomo con il respiro affannoso e una ferita grave sul braccio, che si teneva premuta con la mano opposta per fermare il flusso sanguigno. Quest'ultimo mi studiò con lo sguardo prima di lanciare un'occhiata accusatoria verso il suo compare. Il capelli biondi del secondo ragazzo riflettevano contro la poca luce che rimaneva e il suo corpo era leggermente più minuto del primo ragazzo. Le loro divise verdi scure definivano il loro grado di importanza: semplici soldati di terza o quarta linea, forse. Il ragazzo che mi aveva precedentemente buttato a terra ora cercava di piegare la sua gamba e i capelli scuri leggermente ondulati gli andavano a coprire gli occhi. Il ragazzo biondo disse qualcosa a quello moro e sembravano parole di rimprovero, di stizza.
Lo sguardo di entrambi continuava a passare su di me mentre discutevano.
"É russa, devi essere andato fuori di testa, Teahyung. Potrebbe essere una spia, non ci hai pensato?" Tra una frase e l'altra passarono all'inglese. Il ragazzo biondo continuava ad accusare l'altro, Taehyung, di aver commesso un grande errore nel portarmi in salvo.
"Ho fatto quello che dovevo fare. E poi perché una spia russa si dovrebbe trovare su un terreno di battaglia in cui la guerra é appena conclusa? Con la morte di molti degli avversari? Sappiamo benissimo entrambi che non è la Russia la nazione che sta sostenendo militarmente la Corea del Nord, bensì la Cina." Rispose con tono pacato e contenuto il ragazzo seduto per terra, ancora preso a massaggiare la gamba.
"Che ti sei fatto alla gamba?" Chiese il ragazzo biondo, mutando in un batter d'occhio di atteggiamento. Ora sembrava preoccupato, interessato e non pensava più di urlargli contro. Si inginocchiò affianco a Taehyung e gli prese la gamba dal polpaccio. Gliela piegò con forza per far combaciare la pianta del piede con il terreno. Taehyung gettò la testa all'indietro e soffocò un urlo di dolore coprendosi la bocca con la mano.
Un altro uomo si avvicinò zoppicando e urlò delle parole al ragazzo biondo.
Taehyung voltò il viso verso di me.
"Ragazza, é il momento di andare."

THE RUSSIAN GIRLDove le storie prendono vita. Scoprilo ora