1. Ci vediamo all'Inferno

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Quando avevo dodici anni, dopo l'ennesimo provino andato male a cui mia madre mi aveva costretta a partecipare, capii che la recitazione non faceva per me. Volevo solo essere una ragazzina normale, andare a scuola come tutti gli altri, avere del tempo libero che non fosse impiegato tra corsi di recitazione e casting.
Mia madre la pensava diversamente. Lei era Penelope Decker, attrice di successo e fiera della sua carriera. Non lo faceva con cattiveria, ne ero certa, ma alle volte mi sentivo una marionetta nelle sue mani, costretta a fare ciò che lei riteneva fosse giusto per me. D'altro canto io non mi opponevo mai. Come avrei potuto in fondo? Avevo creduto anche io che quella sarebbe stata la mia strada, ammiravo mia madre e la passione che nutriva per il suo lavoro. Le brillavano gli occhi al solo nominare il cinema, la recitazione.
Col passare del tempo mi ero però resa conto che io non amavo quel mondo come lei. La realtà mi affascinava più della finzione patinata della recitazione ma non avrei mai avuto il coraggio di spezzarle il cuore chiedendole di smettere, così continuai fino a quel maledetto Hot Tub High School. Fino alla morte di mio padre.

Più o meno nel periodo dell'adolescenza, capii che l'amore non rientrava nelle mie priorità. Mentre tutte le mie coetanee facevano le loro prime esperienze, partecipavano alle feste e avevano dei fidanzatini, io trascorrevo le mie giornate tra libri e teatri, set cinematografici e stazioni di polizia. Quello che volevo realmente era che i miei genitori fossero fieri di me. Il resto era un di più su cui avrei potuto concentrarmi una volta che avessi realizzato qualcosa di concreto, quando avessi avuto una carriera ben avviata. Sentivo che non sarebbe stato nel cinema, ma cosa mi costava provarci? Avevo rinunciato a molte cose ma non lo trovavo un sacrificio, più una necessità per poter raggiungere i miei obiettivi. Si sa però, la vita accade mentre sei impegnato a fare altri piani, e la mia carriera recitativa aveva poi lasciato il posto a quella da poliziotta.

Perdere un genitore era stata probabilmente la cosa più difficile che avessi dovuto affrontare, ma sicuramente rimise tante cose in prospettiva. Avere i paparazzi addosso in un momento così tragico per me, mi fece capire quanto non fossi tagliata per quel mondo che voleva un pezzo di me a qualunque costo. Più di ogni altra cosa, volevo che la persona che aveva causato tutto quel dolore fosse portata alla giustizia e volevo essere io a farlo.
Avevo scoperto la mia vera vocazione, quella a cui mi sarei dedicata anima e corpo per tutta la mia vita.
Se non avessi incontrato Daniel Espinoza probabilmente non mi sarei sposata mai. Conoscere uomini al di fuori del posto di lavoro era da escludere, visto che le mie uscite serali - come le relazioni sociali - si potevano contare sulla punta delle dita. Lui era bello, solare, dolce e più di tutto rassicurante. Forse quello fu l'errore più grande, credere che l'amore equivalesse alla stabilità. Gli volevo bene e la vita con lui era serena e bella, ma... Mancava qualcosa. L'avevo sempre saputo e avevo provato ad ignorarlo in tutti i modi. C'ero anche riuscita per un periodo, dopo la nascita di Trixie, a mettere a tacere quella parte di me che si chiedeva per quanto sarebbe durato, ma la vita come sempre aveva altri piani. Il Dan premuroso e dolce, era stato sostituito dall'uomo sempre preso dal lavoro e poco presente. Era un bravo papà ma non un buon marito. Ad essere sincera probabilmente neanche io ero mai stata la moglie perfetta, quindi la soluzione più sensata fu quella di separarsi. Saremmo sempre stati amici e colleghi, genitori, ma l'amore era un'altra cosa e non si poteva forzare. Forse doveva semplicemente andare così, in fondo non era quello che volevo? Dedicarmi esclusivamente alla mia carriera? Ero anche un genitore, amavo mia figlia, questo mi bastava.

Fino a quando non arrivò lui. Era il genere di persona che sin dal primo sguardo ti scatenava una reazione viscerale difficile da controllare, un misto tra desiderio e repulsione. Ad essere sincera non sapevo se fosse più forte la tentazione di saltargli addosso o quella di prenderlo a schiaffi. Non lo avrei mai ammesso davanti a lui - probabilmente avrei negato spudoratamente se me lo avesse mai domandato - ma l'avevo desiderato dal primo istante. Lucifer Morningstar, proprietario del Lux, rinomato donnaiolo che fino a qualche anno prima sembrava non esistere sulla faccia della terra. Diceva a tutti di essere il Davolo, concedeva favori alle persone neanche fosse il Padrino.
Non avrei mai ceduto però. Si sarebbe gelato l'inferno prima che io avessi permesso ad un uomo del genere di toccarmi. L'ironia! Me lo ero ritrovato tra i piedi durante un'indagine di omicidio e, per quanto irritante fosse, sembrava davvero interessato a dare una mano e consegnare il colpevole alla giustizia. Certo i suoi metodi non erano ortodossi, questo era certo. E poi... Si era preso una scarica di pallottole nel tentativo di coprirmi quando il colpevole dell'omicidio aveva deciso di non collaborare. Ne era uscito illeso, a differenza mia. Non era possibile. Doveva avere un giubbotto antiproiettile, doveva essere un altro dei suoi trucchetti, come quella specie di ipnosi con cui riusciva a far parlare i sospettati. Non c'era altra spiegazione! Non potevo certo pensare che fosse davvero il Diavolo. Sarebbe stato da pazzi, credere ad una storiella del genere. Era solo l'eccentrico proprietario inglese di un club.

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