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"Johanna Mason!"
L'addetta alla mietitura di Capitol City, vestita di verde smeraldo, stilla il mio nome con la sua fastidiosissima voce nasale.
Perché proprio io? Ero stata attentissima, in questi 5 anni non ho mai preso neanche una tessera dai maledetti sciacalli. Avevo lavorato iniziato a lavorare a tempo pieno con mio padre per portarmi a casa il pane, perché tutto quello che volevamo era passare inosservati, vivere senza dover dar nulla in cambio alla capitale. Ma in questi casi, si sa', non basta stare alle regole per vincere.
Percorro i pochi metri che mi separano dal palco con la testa alta. Sono incazzata nera, ma non voglio dargli soddisfazione, a nessuno di loro. Se mi guardo dentro, però, scopro anche una particolare nota di tristezza. Salire i quattro gradini del palco in legno montato apposta per l'occasione mi rende triste, forse perché sento di aver sprecato questi cinque anni.
Perché è capitato a me? La ragazza vicino a me, ad esempio, aveva perso la madre e per dar da mangiare alla sua famiglia doveva richiedere 6 tessere all'anno, per un totale di 28 tessere. 23 più delle mie. Perché sono stata scelta io e non lei?
La capitolina, che mi pare si chiami Callista, mi fissa sorridente quando prendo posto.
"E ora, il tributo maschio", dice allegramente per poi ravanare nella boccia di vetro.
Dopo un tempo che pare infinito, e che si merita una delle mie famose alzate di sguardo, viene estratto il nome.
"Troy Barons".
Si avvicina al palco un ragazzetto che dimostra 14 anni, mingherlino e dall'aria stralunata. Non ha speranze.
Mentre quella che sarà la nostra accompagnatrice per la prossima settimana blatera al microfono, perdo qualche secondo a scrutare la folla. I miei genitori sono al limitare della piazza e mi osservano fieri. Mia madre ha le mani alla bocca, ancora sconvolta per quello che è successo. Mio padre invece è un combattente e il suo volto è impassibile. Ho preso da lui tutta la mia tenacia.
Appena Callista finisce di parlare, i pacificatori prendono me e il ragazzino e ci portano nel palazzo di giustizia, in delle stanze separate. La mia è ricoperta da una carta da parati con delle foglie di betulla, e c'è una poltrona rivestita di velluto color pino nell'angolo. Provo l'irresistibile sensazione di sedermici sopra, ma non lo faccio.
Dopo un paio di minuti di attesa la porta si apre, e fanno il loro ingresso i miei genitori accompagnati da un pacificatore. Sarà lo stesso di prima? Non credo mi sia dato saperlo.
Mia madre si avvicina e mi abbraccia, senza dire una parola. È scossa dai singhiozzi, e vedere la sua espressione distrutta mi fa cedere. Sta perdendo l'unica figlia che ha.
Mi sciolgo dal suo abbraccio e mi avvicino a mio padre. I suoi occhi sono lucidi ma mi guarda fiero. So cosa sta pensando, che potrei vincere. Ma ne è sicuro?
"Puoi farcela" mi dice con la sua voce roca, come se avesse fumato per tutta la vita anche se non l'ha mai fatto. "Ti basterà mettere le mani su un'ascia e potrai dare sfogo a tutta la tua rabbia."
Gli sorrido, riflettendo sul fatto di avere davvero buone possibilità.
"Ascoltami, sapevamo entrambi che sarebbe potuto succedere, così mi sono opposto fermamente al tuo tesseramento per anni, e ho insistito per farti lavorare con me per un motivo. Per farti avere una possibilità".
Quando pronuncia questa frase, i suoi occhi verdi come l'erba della tundra mi guardando speranzosi. Sono forte e scaltra, e so usare bene l'ascia. Mi basta mettere le mani su quell'arma e poi potrò spianarmi la strada a forza di fendenti.
"Non fare il loro gioco, sii tu a condurlo. Prendi tutti di sorpresa e ficcagli la scure in faccia."
La violenza delle sue parole mi fa sorridere. Sorprendere. Ma come? So che è un consiglio importante, ne farò tesoro. Posso sopravvivere. Devo solo trovare il modo.
Il pacificatore rientra per portare via i miei genitori, che mi danno l'ultimo abbraccio prima di andare. Mia madre mi fa cadere nel palmo un bracciale intrecciato con degli inserti in resina indurita. È un portafortuna tipico delle mie parti, si può realizzare con quello che si trova in giardino. Mi si stringe il cuore. Anche dentro all'arena, avrò qualcosa che mi ricorda casa.
Resto sola, e inizio ad agitarmi. Ho davvero delle buone possibilità? Sicuramente so combattere, ma sono anche impulsiva. Non ho un bel carattere, diciamo, e le persone fanno fatica a fidarsi di me. E ad affezionarsi, soprattutto.
Alla fine, mi arrendo e mi siedo sulla poltrona. È più comoda di quella sformata nel salotto di casa, ma sembra che non si sia seduto nessuno da anni.
Mi infilo il braccialetto al polso e lo ammiro. Quando la resina viene abbracciata dalla luce si riflette sulla mia pelle con il suo tipico color bronzo.
Improvvisamente la porta si apre, e io mi alzo di scatto. E ora che succede? Un'altra visita? Ma sono solo i pacificatori che accompagnano me e l'altro ragazzo al treno.
Ci siamo. La strada è un po' fangosa, e pezzi di terra liquida si attaccano alle mie scarpe buone. Le ho sempre odiate, perché le indosso una sola volta l'anno e rappresentano il momento in cui Capitol City ha maggior controllo su di noi. Oggi ha vinto, e il mio ingresso sul treno diretto alla capitale ne è la conferma.

Hunger Games - Il Pianto Del SaliceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora