capitolo 8

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Ho perso il conto delle volte in cui ho perlustrato la camera da letto. Forse sono nove o dieci e solo nell'arco dell'ultima mezz'ora: non c'è. Ricordo bene di averlo appoggiato da qualche parte lì intorno, poco prima di entrare in doccia. Sono sicura di aver compiuto quel gesto, eppure sembra scomparso.

Mi passo una mano tra i capelli sbuffando fin troppo rumorosamente. Sono così nervosa e arrabbiata da voler urlare a pieni polmoni. La porta della camera sbatte dopo il mio passaggio e nemmeno me ne preoccupo, tanto che accendo persino bruscamente le luci del corridoio; è così nuvoloso da sembrare sera.

Mi appoggio di schiena alla libreria della sala, ma so che non si trova nemmeno lì, però non so più dove guardare. Stringo i pugni così forte da sentire le unghie premermi sui palmi; mi abbasso per controllare il pavimento per la millesima volta, nel caso in cui qualche angolo sia sfuggito al mio sguardo: è tempo perso perché non è qui.

Mi avvicino persino al divano, estraendo i due cuscini solo per rimetterli a posto l'istante seguente, ché un bracciale non può essersi perso dietro il divano. L'imprecazione sottovoce è seguita dal mio ritorno in corridoio, dove forse ho persino rotto l'interruttore della luce, ma è qualcosa che nemmeno mi preoccupa al momento: devo trovare quel bracciale.

Non l'ho mai perso e la sensazione senza di esso addosso mi fa sentire strana; lo tolgo raramente, a volte nemmeno sotto la doccia. Era un regalo di mia madre e non sapere dove sia mi rende nervosa: come se un pezzo di lei mancasse all'appello. Sono arrivata al punto di essere scoppiata in lacrime almeno due volte per la frustrazione; quando espiro, il respiro mi trema appena e so bene che tra qualche secondo seguirà una terza.

E così accade, tanto che alla fine mi lascio scivolare lungo la parete del corridoio, stringendomi le mani sul viso; ho le ginocchia strette contro il petto quando l'ennesima lacrima torna a bagnarmi la guancia per dissolversi poi nel tessuto del maglioncino. Non può essere sparito nel nulla.

Non ricordo nemmeno più i programmi della mattinata, resto semplicemente seduta a fissare la parete di fronte a me; è color carta da zucchero e in questo momento la detesto. Mia madre era ossessionata da quel colore e nonostante questa casa non le appartenga, tutto mi ricorda lei. Dalla disposizione dei mobili fino al modo in cui la finestra dà sulla strada. Persino le cornici alle pareti sembrano essere state scelte da lei.

Sono così persa nei miei pensieri da non rendermi conto che la mia stessa porta di casa viene aperta e chiusa nel giro di qualche secondo appena; Harry è nel salotto di casa mia e sta chiamando il mio nome.

«Ho bisogno di chiederti un favore.» Lo sento appena mentre pronuncia quelle parole perché la sua voce mi arriva quasi ovattata alle orecchie, eppure si trova a pochi passi di distanza. So che dovrei alzarmi e fare finta che non sia successo niente, ma non ci riesco. Harry mi raggiungerà a breve, ma non m'importa. «Senti, ti va di... Mia!»

So di non avere un bell'aspetto così seduta in mezzo al corridoio, ma è solo Harry. Lo guardo negli occhi, notando la sua espressione mutare in una manciata di secondi: passa dalla solita calma e pacatezza per arrivare alla preoccupazione. La linea della guancia diventa più marcata e gli occhi sembrano persino scurirsi; mi si inginocchia accanto, posandomi una mano sulla spalla.

«Io...»

«Stai bene? Che cos'è successo?» Harry parla in fretta, preoccupato e con gli occhi che mi scrutano alla ricerca di qualcosa: un taglio, un livido, un semplice graffio. Scuoto la testa sotto il suo sguardo impaurito. «Sei caduta? Ti sei fatta male?» Vorrei scoppiare a ridere o forse persino a piangere di fronte a tanta preoccupazione, però scuoto semplicemente la testa. «Ti prego, di' qualcosa.» Mi supplica infine, guardandomi dritto negli occhi quasi stesse cercando di leggermi l'anima per capire cosa sia successo.

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