Capitolo 5

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Mi sveglio di cattivo umore.
Esco nel vialetto per prendere il giornale e chi incontro? La vicina.
La gran rompiballe della vicina, che senza un briciolo di riservatezza mi domanda le cose più indiscrete o fa osservazioni davvero imperdonabili, tipo quando mi disse che ero troppo basso per la mia età e la sera venne a casa per dire a mamma di farmi prescrivere qualche vitamina dal medico. Ma un pacco grandezza naturale di cazzi tuoi no, eh?
Questa mattina non è da meno, e cosa mi dice?
«Sonny, quando porterai una fidanzatina a casa?»
Dovrei mettere da parte la mia buona educazione e mandarla una volta per tutte a 'fanculo; spesso, quando parla, nella mia mente si manifesta un film dove io le rispondo da oscar, godendomi la sua faccia sconvolta e, per una volta, muta davanti al contrattacco di maleducazione. Con la fantasia riesco a trarne un po' di sollievo personale.
Rientro nella casa silenziosa, afferro i confetti reduci di due giorni dal matrimoni, e vado a sedermi in giardino, ingozzandomi ancora una volta di cioccolato e leggendo il giornale.
Fracasso in malo modo la confettura di proposito, cerco di far fluire in piccoli gesti il malessere che mi riempie da qualche giorno.
Non ho cose particolari da fare, sono sempre qui in casa perché per uno strano motivo mi sono incaponito a voler assorbire ogni singolo secondo libero dalla scuola nel pieno comfort e totale calma, ma la verità è che sto evitando con tante scuse la vita sociale.
E tutto questo mi riporta alla cotta che ho per Jared.
Jared che esce a fare baldoria con mio fratello, e ritornano quando io mi sveglio.
Sono incazzato anche con loro. Con Carlos per aver portato il suo maledetto amico in casa nostra e avermelo sventolato per benino davanti per tutto il tempo, non facendo caso al fatto che da ogni parte del corpo dell'amico sfuggissero miliardi di feromoni che predominano sui miei, e alla fine sono più che sicuro di essermi preso più di una cotta. Cioè, praticamente sono innamorato.
Sì, magari lo penso più volte al giorno, e qualche volta di notte, ma è normale, giusto? E' la prima volta che mi succede, quindi non so come capire il limite tra amore e cotta.
Già, devo evadere un po', staccarmi da questo strato di burro e fantasia che ha imbrattato il mio cuore.
Ecco perché alle otto sono pronto di già, in casa non c'è nessuno e così esco nelle strade calde e scure della cittadina senza troppo rimpianto.
Le luci dei lampioni che finiscono sull'asfalto sembrano tante piccole pozze d'acqua, ci gioco saltando dentro fin quando non arrivo davanti al bar frequentato da quasi tutta la creme de la creme giovanile del posto, perché è bene affermare che è l'unico bar nelle vicinanze un po' più decente e alla moda.
Alcune sere cantano pure dal vivo, è abbastanza piacevole.
So che un tempo organizzavano anche serate di jazz.
Il locale è pieno, rumoroso in modo soft; saluto tanta gente mentre mi avvicino al bancone. Mi accomodo su uno sgabello.
«Ehi Sonny, come butta?» Peter, il barista. E' una brava persona, ci ho parlato spesso e mi piace soprattutto perché racconta della sua vita amorosa e familiare come se stessa raccontando una barzelletta, e il più delle volte, a causa di eventi strani e bizzarri, lo sembra. Inoltre non beve: è astemio. Solo per questo è da nobel.
«Ciao Peter! Tutto bene, grazie. A te come vanno le cose?» Sono costretto a urlare per farmi sentire a causa di un gruppo di ragazzi che, per chiudere la serata e salutare come si deve, hanno deciso di urlare e fare cori da stadio.
«La novità è che devo mettere la testa sulle spalle. Diventerò papà.» Mi dice fiero, con un sorriso enorme che spunta da sotto la barba folta.
«Congratulazioni! Ma è fantastico... non ne sapevo niente.»
Asciuga alcuni calici lanciandomi occhiate di rimprovero di sottecchi.
«Certo che non sapevi niente. Te ne stai chiuso in casa come un vecchio bacucco a guardare film strani e abbuffarti di robaccia.»
Simulo, enfatizzando, l'offesa, spalancando le braccia e aprendo la bocca con fare sconvolto.
«Touchè.»
«Cosa prendi?»
«Caipiroska alla fragola e tante noccioline. Un mare di noccioline. Uno scandalo di noccioline. Voglio ubriacarmi di noccioline.» Ride a gran voce.
«Vedi di non esaurire le mie scorte, altrimenti ti taglio a pezzi e metto te al fianco dei drink.»
«Già sembri un Russo malavitoso di tuo, quando dici queste mostruosità impersonifichi al cento per cento quella figura.»
«Ti conviene non dirlo mai davanti a mia moglie. Sua nonna era Russa, e non gli ha dato vita facile. In casa abbiamo il divieto di nominare sia la nonna che i Russi.»
«Peter, dici sul serio?» Io lo sono eccome! La sua mogliettina è una pazza che più pazza non ne trovi in giro, con sbalzi d'umore capaci di rivoltare il mondo al contrario e far sbiancare un bipolare.
«Non scherzo» dice troppo serio.
«Oh santissima vergine! Spero di non dimenticarlo, ma tu, se lei è nei paraggi, cerca di rammentarmela questa cosa. Non voglio morire giovane» dico le ultime parole frignando come un bambino, tanto che scoppiamo a ridere entrambi. Peter si allontana e va a occuparsi dei drink.
Mi giro al suono di una voce in lontananza. In un tavolo è raggruppata tutta l'élite della mia scuola.
Il personaggio che prevale su tutti è Butch, capitano della squadra di football e la sua fidanzata storica, Jane.
La glaciale, frivola, ricca, egocentrica, trasgressiva e infedele Jane. Non riesci a non notarla, è bella, altroché, solo che la avvolge costantemente una patina che in qualche modo la allontana dal mondo.
Mette i brividi. Chi ha preso la parte più bella di quella persona? Ora è vuota, così tanto che cerca emozione in altri corpi, solo per scoprire ogni volta che le emozioni devono essere alimentate prima dal nostro corpo, e non funziona come agisce lei.
Non s'inganna l'inconscio.
Lei e Butch sono quelli che organizzano sempre feste e banchetti di ogni tipo. Sono stato alle loro feste tantissime volte.
«Cupido, un maestro nel far innamorare eppure incapace di farlo con sé, che rarità! O magari sei venuto ad annunciare che hai rimesso la freccia nel fodero e ti sei lasciato consacrare?»
Mi volto con un gran sorriso sulla bocca.
C'è Franck.
Il mio primo amore, se amore può essere definito. Con lui ho provato il sesso per la prima volta, con lui mi sono divertito tanto e siamo finiti col diventare amici, anche se ci concediamo ancora degli incontri carnali.
«Franck» spalanco le braccia avvolgendolo in una stretta calorosa. Mi bacia la tempia, con fare possessivo. Credo che lui mi abbia amato molto, ed è stato difficile non essere stato capace di ricambiarlo.
«Per la cronaca, sono ancora tutto vergine sotto l'aspetto dell'innamoramento.» Sghignazza.
«Certamente. Non c'era bisogno che specificassi quale cosa fosse vergine.»
«Che stronzo presuntuoso. Parli di me manco fossi un trofeo o una tacca sulla cintura.»
Lui si riferisce al mio corpo, sapendo bene le mie cronache sessuali.
Inizialmente volevo preservare la verginità al primo amore, ma tralasciando la goffaggine a letto che m'impediva di fare molto, alla fine mi sono lasciato trasportare soltanto dagli ormoni della pubertà, vedendo solo tanto rosso davanti ai miei occhi.
Ed ecco la storia, breve e un po' assurda, perché come dice sempre Franck, il ruolo da attivo non mi si addice.
Annega la mano nel porta noccioline e ne infila una bella manciata in bocca, masticando rumorosamente e guardandomi con i suoi occhi castani.
«Una volta qualcuno mi disse: se guardi pesciolini rossi al luna park e ti senti triste, allora dovresti andare in terapia.»
Scoppio a ridere e, tra la voce rotta e gli occhi chiusi, dico: «e che cazzo significa?»
«Che tu sei sempre stato un pesciolino rosso, e questa cittadina un luna park; e ogni volta che ti vedo vorrei sempre comprarti ma poi rammento che non posso.» Confessa con nonchalance e il sorriso da marinaio.
«Non mi piace questo paragone» sorseggio il drink, trovando come sempre molto confortante il sapore alla fragola. Guardo l'ora sul cellulare. Bene, non è molto tardi quindi posso trattenermi ancora un po'. Poi ecco che vedo quella maledetta icona sulla schermo, proprio lì, in alto a sinistra, lampeggiare come una dannata lampadina.
«Maledizione...» sussurro tra i denti.
«Che succede?» chiede Franck.
«Il cellulare. Mi sta dando problemi.» Che non riesco a venirne a capo in nessuno modo, tanto che mi trovo costretto a recarmi al più presto in un centro tecnico.
«Spiegami cosa succede, magari posso aiutarti.»
Lo guardo scettico, e visto che non mi costa nulla decido di spiegargli tutto.
«Ho la micro SD. La memoria del telefono non è chissà cosa, però nemmeno tanto misera. Nonostante abbia tutti i programmi sulla memoria esterna, il telefono continua a consumare spazio e non so più come venirne a capo.» Ammetto con molto sconforto e un enorme sospiro.
«Dammelo un attimo.» Gli passo il cellulare e mi avvicino con lo sgabello, per vedere cosa fa.
«Carina l'immagine.» Dice indicando lo schermo. E' quella di Spongebob. Sorrido.
Inizia a guardare tutte le opzioni nelle impostazioni, controlla la memoria e lo stato in cui è, poi da uno sguardo ai giochi e in un batter d'occhio, prima che abbia nemmeno il tempo di replicare, elimina l'unico che ho e con cui gioco spesso quando vado al gabinetto.
«Oh, Franck! Che diavolo fai? Quello l'ho pagato!»
«Arrangiati Sonny. Senza quello tornerà tutto come prima. Devo aggiornare il software e ho finito.»
Impiega giusto un minuto e dodici secondi per farlo, poi mi riconsegna il telefono e mangia ancora noccioline.
«Grazie.» Dico un po' imbronciato.
«Era un gioco da quindicenne.»
«Anche la tua maglia lo è.» Verde bottiglia con una stupida scritta gialla "Hulk" spiaccicata sopra.
Inizia a ridere gradualmente, salendo sempre di più, fino a trascinare anche me in quel vortice d'ilarità.
«Oh Dio.» Sospira, mi lancia uno di quegli sguardi languidi, che riserva solo alle persone che desidera tanto. «Non sei cambiato per niente. E ne hai sempre di parole per controbattere.»
«Ma Franck, non si può cambiare drasticamente. Con gli anni impari a conoscerti e domarti, niente di più.»
«Dici?»
«Dico. Anche se tu non sei più quello di un tempo. Ti vedo più... affievolito.» Poso una mano sulla sua spalla, stringo riuscendo a sentire l'ossatura sotto. E' a testa china, annuisce. Non mangia più noccioline.
«Hai ragione.»
«C'è un motivo per tutto questo?»
«Credo...» si ferma. Per un attimo penso che voglia smettere, che non gli vada di continuare. Poi instaura il contatto visivo con me e la risolutezza riprende forma in quegli occhi. «Credo che sia la morale di chi cerca con troppa foga qualcosa.»
«La morale per chi non la trova?»
«No Sonny, non è così facile. E' la morale di chi investe tutto se stesso in un'enigmatica ricerca.»
«E' pericoloso investire tutto se stesso. Per ogni cosa.»
«Peccato accorgersene troppo tardi.»
«Sei un incosciente, non rifletti. Impulsivo fin dalla nascita.»
«Tu non li fai questi errori?»
«Fino ad oggi ho sempre ricordato di riservare una percentuale a me, la sera, da stringere ogni volta che vado a letto. Per evitare di dissolvermi» il suo sorriso non è felice, tutt'altro. Mi guarda come se io non potessi capire quello che mi ha appena raccontato, mi guarda come se io fossi un bambino pieno d'ingenuità, e lui rimpiange il mio stato attuale ma nello stesso tempo lo disprezza. Immensamente. Perché lo desidera.
«Allora ti auguro di ricordare sempre di non investire mai tutto te stesso in qualcosa, Sonny Jones.»
Alza il bicchiere mezzo vuoto e lo fa tintinnare verso di me in un piccolo brindisi.
Mi faccio portare un bicchiere di acqua frizzante dal barista, lo bevo e poi vado un attimo al bagno.
Subito dopo aver fatto pipì apro la porta, con l'intenzione di lavarmi le mani, ma quelle di Franck mi afferrano e mi fanno rientrare nella cabina.
Chiude a chiave.
Si appropria della mia bocca, è sempre stato bravo a baciare, così lo lascio fare. Non mi sta baciando, mi divora, risucchio dopo risucchio. Avverto i suoi sentimenti quanto siano forti e sempre presenti, quanto cerchi di reprimerli in modo maldestro.
Inizia ad armeggiare con la chiusura dei miei jeans, poi la sua bocca è lì. A darmi piacere.
Dovrei fermarlo, so che questo nuoce alla sua anima, sono consapevole che quando ritornerà a casa soffrirà da cani, che mi penserà ancora e mi odierà per non avere i sentimenti che cerca, per non ricambiarli, per procurargli un'infelicità tale da mutarlo.
Ma sono ancora egoista, immaturo e bisognoso di calore umano, di carnalità, di poter dare libertà al mio essere che respiro ogni santissimo giorno.
Con le labbra che pulsano, più spaccate del solito, io e Franck usciamo dopo esserci uniti ancora una volta. Camminiamo come se non fosse accaduto nulla, ci muoviamo con progettata finzione in modo che gli altri non vedano quello che in realtà siamo. Anche se poi la costante sensazione che la gente veda ambiguo il nostro allontanarci, che riesca a scorgere quello che ci impegniamo tanto a nasconde, è sempre viva.
Franck paga il conto, ignorando le mie proteste.
Usciamo dal locale. Lo osservo. Ha le mani in tasca e guarda il cielo.
«Franck...»
«Sonny, non dirlo,» si volta per regalarmi un sorriso sincero «quando ti vedo non riesco a non ripercorrere ogni tratto di te, a non apprezzare le tue smorfie, a evitare di desiderarti. Se sapessi di avere anche una possibilità combatterei fino allo stremo, ma ciò nonostante so bene quello che hai nel cuore, e va bene così. Ogni tanto dobbiamo rincontrarci, e chi ammazziamo se ci scambiamo qualche carezza?»
«Sono stato bene» ammetto.
Mi avvicino e lo stringo forte in un abbraccio.
«Ti voglio bene, Franck.»
«Anch'io» mi bacia sulla guancia e va via. Osservo la sua immagine allontanarsi, la osservo fin quando esce fuori dalla mia portata e poi mi permetto di ritornare a casa.
Nello stesso modo in cui è andato via Franck, vado via anch'io: mani in tasca e testa alta.
Proprio mentre cammino mi accorgo di specchiarmi davvero poco. Non lo trovo necessario. Evito di proposito le vetrine dei negozi chiusi per strada. Più che vedermi mi piace sentirmi. E sento molto bene, riesco a definire tutto quello che ho dentro e che mi circonda, che siano situazioni, sentimenti o persone.
E' qualcosa che mi fa sentire leggero in alcuni giorni e pesante in altri.
Quando arrivo sotto l'uscio di casa sento delle voci, non una o due, ma molte di più. Che cavolo combinano? Entro, le luci in casa sono tutte spente, tranne quella nel retro cucina che spunta sul giardino. M'incammino lì con le chiavi ancora in mano.
In giardino, distesi sull'erba con tanti teli a coprirla, ci sono Carlos e Jared. Ma non è quello che mi ferisce di più. No. Ci sono altre persone. Due bellissime ragazze in costume e sorrisi disegnati sui loro volti abbronzati. Una parla, l'altra si sta esibendo in una danza ammaliatrice.
Non riesco a staccare gli occhi dal viso di Jared che la guarda sorridendo, con una luce sul volto che solo l'eccitazione può dare.
Perché sono venuti qui?
Non avrebbe dovuto ferirmi così quella visione, non poteva. Non erano tanto forti i miei sentimenti e Jared, che adesso era con una ragazza, non mi aveva mai dato nessuna illusione su cui fantasticare, si era sempre circonciso nella riservatezza e io mi ero dannato per scavalcarla, invano.
Più lui sorrideva, più la lama conficcata nel torace scendeva e mi squarciava.
Poi quegli occhi grigi saettano nei miei e in un istante lo sguardo diventa profondo, più scuro, più ipnotico.
Io ti vedo. Ecco cosa mi stava dicendo.
Non riesco a fingere, sono stanco di farlo.
Giro i tacchi e vado via, rinchiudendomi in camera.
Accendo lo stereo e parte a caso George Ezra con Cassy O'.
Sfilo scarpe e calzini, massaggio le tempie.
Merda, che serata stancante.
I colpi alla porta mi risuonano nel petto, sotto la pelle ho la netta sensazione di sapere chi c'è lì dietro, solo che catalogo tutto ancora come l'ennesima stupida illusione.
Apro, Jared è poggiato al muro di fronte, con le braccia incrociate e gli occhi a scavare sulla mia pelle come gru. Che cosa stai cercando?
Non lo lascio entrane, esco io, metto qualche metro tra di noi appoggiandomi sul muro di fronte al suo, proprio al fianco della porta aperta, l'unica fonte di luce nel corridoio.
«Ti ho portato questo» mi porge qualcosa, lo afferro e vedo che si tratta di burro cacao.
Ritorno a fissarlo, forse con durezza. So di essere ridicolo a provare rabbia verso di lui, di avere una possessione fuori luogo... non riesco a fare altrimenti.
«Lo devi mettere tutti i giorni. Hai le labbra sempre spaccate e sanguinanti» perché mai mi ha guardato le labbra? Sento svanire la rabbia, al suo posto si sistema un appagamento strano. E' che perfino questo gesto di prendersi cura di me mi capovolge, fa salire le emozioni che provo verso di lui, fa capire che quello che ho sempre visto è davvero qualcosa di speciale
Sa che sta assumendo lui il controllo? Si accorge che mi afferra l'anima, che scatena le sensazioni che dovrei reprimere, che ogni giorno rende impossibile l'impresa di dimenticarlo?
«Grazie...» sussurro con voce roca.
«Non devi ringraziarmi» lo guardo, gli sorrido, per la prima volta mi permetto di osservarlo apertamente, e in quel momento non vedo una persona, vedo la mia persona. Qualcuno da cui desidero essere amato.
Qualcuno che contiene più cose di quelle che mostra, che quando mi guarda mi divide in mille pezzi, mescola tutto e poi riassesta ogni pezzo nello stesso identico modo. Solo che mi sento meglio, più giusto.
Corretto.
Lo guardo è inizio stranamente a sentirmi al sicuro.
«Non guardarmi in quel modo» la bocca di Jared si muove veloce mentre sussurra quelle parole, con un'agonia dentro che mi confonde, che gli muta la voce, increspa gli occhi invecchiandogli le pupille e addolcendolo, e mi ci vuole qualche minuto per capire che è stato lui a parlare.
Sì avvicina come una belva, lentamente è con passo deciso. Afferra il mio collo, con l'altra mano la testa, poi le nostre bocche si uniscono con possessività.
Chiudo gli occhi pensando che questa sia tutta un'allucinazione. Solo che le gambe si fanno molli, come se fossero piene d'acqua. Il calore di quelle mani su di me penetra a fondo, superano ogni strato di pelle andandosi a posare sul sangue, e quello trascina il tocco in ogni parte di me, lo fa camminare, mi riempie di passi, di lui. So che il cuore che batte a mille è il mio, e il viso ispido è quello di Jared, quel profumo di dopobarba è pungente. Mi sta baciando con foga, come se fossi una ragazza, come se non avesse mai messo nessun confine tra noi.
Si sta prendendo delle parti di me, e ora non so più se riuscirò a tenerne un briciolo da parte, per me.
Mi afferra le spalle staccandomi con forza. Il gesto deve richiedergli non poca fatica. Siamo entrambi affannati, lo fisso senza nemmeno battere ciglio; vedo il fuoco nei suoi occhi divampare, vedo il calore che lo invade. E' rovente, fuori e dentro.
Apre più volte la bocca, cerca di dirmi qualcosa, ma alla fine si gira e va via lasciandomi in un totale smarrimento. Tra le mani non mi resta che il timbro della sua espressione sconvolta e smarrita dopo aver compreso quello che aveva appena fatto.
Torno in camera come un'automa, incapace di credere a ciò che è appena successo, resto in piedi per un po', e quando incrocio le mani per darmi un po' di conforto, mi ricordo del burro cacao. Deve essermi caduto mentre ci baciavamo. Torno fuori ed ecco lì, sul pavimento, proprio dove poco prima dovevano essere i miei piedi.
Mi sento febbricitante, con i battiti accelerati e nel sangue qualcosa continua a fare su e giù come l'adrenalina, ma non è quello, è diverso. Mi elettrizza, mi fa respirare con le labbra schiuse e gli occhi spalancati.
Impongo al mio cervello di non fare domande, di non chiedermi perché, di punto in bianco, Jared abbia avuto quell'impulso. Evitai come un abile equilibrista tutte le strade che potevano condurmi a quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze.
Evitai di pensare che ci avrei rimesso io il pezzo di cuore più grosso.
Lo aspettavo sempre, lo attendevo come la sera.
Jared mi è sempre piaciuto per il suo aspetto.
Poi mi sono innamorato dei suoi modi.
Del rumore che fanno i suoi passi.
Quella sera, invece, mi sono innamorato del suo odore.
Simile a quello della sera, la sua bocca mi ricordava la pioggia.
Non credo di aver mai assaporato la pioggia, ma l'ho avvertita, ho sentito quell'abbandono che mi sprigiona sotto la pelle, ho ascoltato le mie papille gustative andare in fumo anche solo affidandosi al senso dell'olfatto.
C'era Jared in ognuna di quelle cose.
C'era Jared davanti a me, è io avevo iniziato a corrergli dietro.
Non mi fermavo.
Correvo come faceva il mio cuore.
Ero stanco di perdermi in mille volti per le strade, che mi confondono, che mi fanno cadere nella paranoia più totale.
Avevo visto il suo volto e lì mi ero accampato. Disteso come se fosse su un prato.
E' così: tendiamo a prestare più attenzione a ogni fattezza del viso rispetto al resto del corpo di ogni persona che abbiamo vicino.
Ricordavo alla perfezione il suo, col tempo mi sarei pentito amaramente della mia memoria.
Un viso inciso a mano, dall'aspetto fiero. Occhi che sembrano due specchi. Non a mandorla, non tirati. Non avevano qualcosa che li rendesse unici se non il colore e quella sfacciata profondità d'animo che mostravano. Sembravano eternamente stanchi, tratteggiati ai contorni da piccole rughe espressive, solo che quella era la sua formazione naturale. La palpebra che veniva sommersa dalla parte inferiore del sopracciglio; naturali, senza alcun ritocco che invece caratterizza i ragazzi di oggi. I peli superflui sotto le palpebre erano di un biondo chiarissimo, tanto da renderlo selvaggio, tanto da rendere quel suo aspetto trascurato un'ulteriore fonte di fascino.
Al sopracciglio sinistro mancava un pezzo, di striscio. Una linea poco dopo il centro. Suppongo una vecchia cicatrice, una di quelle cose che mi faceva fantasticare molto su di lui, procurandomi mille domande a cui davo miliardi di possibili risposte.
Il naso dritto e possente, ma con la punta tonda. Il setto nasale era più gonfio ai lati, residuo di qualche cazzotto.
Faceva a botte?
Poi c'era la bocca... la sua bocca.
Apparentemente non larga, ma voluttuosa, la parte centrale più carnosa. E quando sorrideva che si apriva inaspettatamente. Le labbra morbide mettevano in risalto i bellissimi denti.
Arricciava le labbra, quando cercava di trattenere un po' il sorriso, lo faceva sempre, come se farlo liberamente implicasse un segno di debolezza.
Jared quando parlava, quando spiegava, quando era intento perfino a raccontare, socchiudeva di più un occhio.
Mi ricordavo cose di lui che forse non riusciva nemmeno a vedere lui stesso.
O forse è solo che quando continuiamo a vedere la nostra immagine davanti allo specchio per anni, dimentichiamo qualche particolare per abitudine.
Pensarla così mi fa avere paura.
Se uno dimentica i propri dettagli, chi può dire che un giorno non possa dimenticare se stesso?
Dopo che Jared andò via, camminai in casa sentendolo dietro di me, vicinissimo, con la sua presenza silenziosa e trapassante, con quegli occhi grigi che bruciavano e la rasatura da militare; avvertivo quelle mani grandi e curante, con le vene in evidenza che le facevano apparire sempre contratte, afferrate a qualcosa.
Sentivo il suo alito sul collo.
La lingua sulla mia.
La saliva che aveva lasciato sulle labbra e si era seccata come una patina.
Mi infilai a letto. Avvertivo solo lui, non più il caldo, non più i rumori del vicinato, non più la mia famiglia muoversi e far baccano in casa.
Sentivo lui e mai più come quella notte riuscii a dormire beatamente, con una luce che stava costantemente dietro alle palpebre, come se mi fossi addormentato sotto un tramonto.
Sognai di essere a bordo di una nave, con un impermeabile rosso. I capelli erano trascinati dal vento, così forte da lisciarmi i ricci mentre da una visuale diversa mi vedevo di fronte, senza però scorgere il viso.
Era coperto dai capelli trasportati dal vento, e io li lasciavo così, mantenendomi alla ringhiera della nave.
Il risveglio è fiacco, ben riposato. Come una notte di sesso in piena regola.
Si può fare sesso con un solo bacio?
Siamo tutti davanti alla televisione, il tavolino è pieno di schifezze e cibo Messicano che papà si è premurato di prendere per l'occasione. Ci sono i mondiali, in casa ogni sport è buono. Forse in particolare il calcio.
Per una volta siamo tutti tifosi di una sola squadra.
Mamma è raggiante, non fa che andare avanti e indietro, con recipienti pieni di pop-corn, e a intermittenza stampa un bacio a papà sulla fronte. Quando sono a casa con noi, la loro gioia è palpabile. Non è qualcosa che puoi dimostrare con un sorriso, devi toccare, coccolare, dire parole apparentemente sciocche, ma che con il senno di poi capisci che stavano a significare solo dei giganteschi "sono felice" e "ti voglio bene".
Papà è senza maglia, spaparanzato nella sua poltrona.
Carlos ha la maglia, ma in compenso tiene i calzini che non ha avuto nemmeno la decenza di togliere quando è rientrato. Non ha fatto la doccia. Dio non voglia! C'è la partita, mi ha urlato dietro quando ho cercato di scimmiottarlo.
E io me ne sto qui, rannicchiato sul divano come un gatto, e aspetto ancora che lui venga.
Ho indossato la mia maglia nuova. Me l'ha regalata mamma. Ha detto che quando l'ha vista in un negozio, il colore (verde acqua) le ha fatto pensare subito a come ci starebbe stato bene intonato ai miei capelli.
Un pensiero che nemmeno tra cento anni riuscirei a fare.
Da quando uno abbina i colori dell'abbigliamento a quelli del corpo?
Nonostante questo ho apprezzato molto, e da bravo liceale mi sono subito imbellettato per attirare l'attenzione della persona che mi piace.
Peccato che quest'ultima non si sia fatta vedere per l'intera giornata.
«Jared non viene?» Chiedo a Carlos, che intanto è impegnato a far fuori la seconda insalatiera di pop-corn.
Si volta, mi fissa per un po' poi scuote la tesa. «Eh?» Dice a bocca piena, una pallina bianca gli sfugge di bocca proprio mentre mamma passa dietro di lui e, da brava soldatessa, subito capta il pop-corn che cade sul pavimento. Tira una sberla a Carlos.
«Jared, non viene?»
«No, si è organizzato con altri amici.»
Così in un lampo è bruciata tutta l'aspettativa, l'eccitazione di avere la famiglia riunita, il desiderio di vederlo ancora, di guardare il suo viso dopo il bacio. A questo punto so che deve essere molto imbronciato e pentito. Visto, Sonny? Un punto in più alla tua autostima!
Vorrei alzarmi e andarmi a rifugiare in camera, ma so che ferirei i miei genitori, che si preoccuperebbero e verrebbero a indagare sui motivi che mi hanno portato a essere triste, e io sarei costretto a mentirgli o rifiutargli una spiegazione.
Mi sentirei tre volte peggio.
Così resto con loro fino alla fine della partita, a esultare quando c'è un goal o fischiare quando l'arbitro vede falli fantasma.
Mangio il cibo Messicano che nemmeno mi piace. Troppo forte. Troppo saporito.
Quando finalmente riesco a sgattaiolare sul mio letto, non mi resta che il cervello in fiamme, gli occhi sbarrati e un nodo alla gola.
Accendo la televisione e rivedo il dittatore.
Mi addormento ancor prima del discorso.
Il giorno dopo Jared non si fa vedere, e nemmeno quello successivo. Mi abituai a quella fuga momentanea e scoprii che il dolore dell'assenza è un'emozione forte, pesante, su cui non avevo mai fatto nessuna congettura, né gli avevo mai dato l'esatta importanza.
Ed è un'emozione buia.
Buia come quando aspetti il treno alla stazione in piena notte.
Dopo giorni di seghe mentali, finalmente decido di chiamare qualche amico ed è così che rimedio un giorno in piscina.
Un amico di un mio amico ha la casa fornita di piscina olimpionica. È un po' fuori mano, devo prendere il treno, ma lo faccio volentieri. Così il sabato mattina, fresco di doccia, con lo zainetto strapieno, cuffie alle orecchie e tanti sbadigli lasciati ovunque, mi lascio accompagnare in macchina da papà fino alla stazione.
«Quando torni chiamami, ti vengo a prendere.»
«Okay, ma non devi disturbarti.»
«Sei scemo? Vuoi vedere che ti accompagno fin lì in macchina?» Rido.
«No, grazie. Voglio andarci in treno.»
«Perché, i tuoi amici altrimenti ti prendono in giro?» Lo guardo male.
«Non parlarmi come se fossi un dodicenne, papà. Non è per quello, inoltre non me ne frega di quello che pensano gli altri. Non sono il tipo da scegliere amici così idioti.» Papà alza le mani sogghignando.
«Va bene, va bene. Ho capito.»
«Ci vediamo dopo» lo saluto con la mano, lui prontamente si avvicina e accarezza con foga la testa.
«Fai il bravo, non ustionarti e rispondi al cellulare quando chiamiamo.»
«Sissignore!»
Nel treno non c'è molta gente, nonostante ciò l'aria è viziata e fa un caldo boia. Sistemo lo zaino sul sedile vuoto al mio fianco e mi alzo; apro tutti i finestrini e un po' sudato ritorno a sedermi.
Il sole mi finisce a tratti sul viso.
Non riesco a smettere di sbadigliare, ho sonno e mi porto sulla pelle una stanchezza diversa dal solito. Parte dal centro del corpo, un punto indefinito. Mi sento più esposto, debole quasi, ogni cosa mi arriva addosso con più ferocia.
Spero che questo distacco dalla solita routine mi stabilizzi l'umore.
In questi giorni non ho fatto che pensare, cercare di chiarire i miei sentimenti, ridimensionarli.
Ma si può ridimensionare un sentimento?
A peggiorare tutto è la mia inclinazione alla sincerità, che mi ha portato sempre a essere onesto con me stesso, motivo principale per cui ho sempre preso con poco sentimento le storie passate.
Non era amore, erano cotte, desideri momentanei, e saperlo non faceva altro che "raffreddare" il mio cuore.
Ragionare troppo è per certi versi un male. Avrei preferito l'incoscienza, quell'euforia insensata, ma comunque voglia di farsi inondare dalle emozioni piccole e che ti fanno palpitare il cuore.
I sentimenti che provo per Jared non saprei quantificarli. So che un tempo erano chiusi nelle mie mani, e crescevano, crescevano, crescevano. Sono spuntati tra le dita, attorcigliandosi intorno ai polsi fino ad arrivare agli avambracci e sotto le ascelle. Fino a ramificarsi sull'intero corpo.
Fino a diventare il doppio di me.
A chiudermi.
Un bossolo che mi separa dal resto del mondo.
Credo di non aver desiderato mai un ragazzo come desidero lui.
Sì, ho voglia di farci l'amore, è un pensiero fisso, che pulsa appena apro gli occhi, che mi porta a fare pensieri sconci in ogni situazione. C'è principalmente l'attrazione fisica, ma non è solo questo.
C'è che da lui avrei voglia anche di altre cose, carezze, abbracci.
C'è che a volte, la mattina, quando mi sveglio e sono solo nel letto è il suo viso che immagino sul cuscino. Saperlo lì, immaginarlo soltanto, mi lascia un senso di appagamento, un calore interno che mi disarma.
Dopo un'ora e quattordici minuti arrivo alla stazione desolata, dove ad attendermi c'è il mio amico con il motorino.
Quando arriviamo nella grande villa siamo due spugne di sudore, il sole è alto e non c'è un filo di vento.
Siamo un gruppo all'incirca di dieci/quindici maschi, pensavo più pochi.
Getto lo zaino sul pavimento e corro a tuffarmi in piscina.
Sia lodata l'acqua fresca!
La giornata trascorre in modo piacevo. Restiamo tutto il tempo in piscina e l'unico momento in cui abbandoniamo per un po' il campo base è all'ora di pranzo.
Il ragazzo ricco e possessore della casa, ha organizzato un vero buffet di classe. Una roba che nella mia famiglia si vede solo a qualche cerimonia.
Ho smesso di ingozzarmi solo quando il mio stomaco ha iniziato a far risalire quello che c'era dentro.
Se lui me l'avesse permesso, avrei mangiato tutto il giorno.
Pietanze divine, cose di cui non conoscevo nemmeno i nomi, cose strane e difficili perfino a capire gli ingredienti, ma pur sempre buone. Mi affidavo all'aspetto, poi per gioco ho seguito i colori che preferivo.
Ci fosse stata una cosa brutta!
Il ragazzo ha una sorella, una bellissima e provocante sorella, che non ha fatto altro che zampettare in costume nei dintorni, tutto il giorno, facendo esplodere gli ormoni di tutti i ragazzi presenti.
La parte più brutta è stata dover fare un commento finto perché c'era uno che non smetteva di fissarmi in modo strano.
Ho sempre pensato che gli uomini più delle donne si accorgono quando un loro amico ha qualcosa di diverso, ovvero, quando è gay.
Tutto poi, per fortuna, è filato liscio.
Ora ho le braccia a pezzi, mentre aspetto il treno. Abbiamo giocato tutto il pomeriggio a pallavolo.
Dio che stanchezza, voglio solo distendermi sul letto e dormire per due giorni di fila.
Il treno arriva con venti minuti di ritardo.
Appena salgo un uomo viene a marcare il biglietto, manco avessi l'aria di uno che non lo fa.
Ora ci sono più persone rispetto all'andata, e sono costretto ad aspettare circa due fermate prima di riuscire a prendere posto.
Chiudo gli occhi con l'intenzione di sonnecchiare un po', ma questa idea viene subito troncata da un'improvvisa frenata del treno.
Li apro di scatto, con i cuore a mille e l'ansia che sale sempre più, mentre i mormorii della gente inondano il vagone e non fanno altro che aumentare il mio panico.
Gli altoparlanti squittiscono, poi una voce femminile annuncia un guasto e di mantenere la calma. Il treno riprenderà la corsa con un po' di ritardo.
La gente non riesce più a stare al suo posto, sbirciano tutti fuori dai finestrini, io eseguo il medesimo gesto, ma c'è ben poco da vedere. Siamo in una zona deserta, anche se all'orizzonte si intravede la prossima stazione.
Ho una brutta sensazione.
Il controllore sta chiacchierando in modo sospetto con alcuni dipendenti del treno. Hanno espressioni preoccupate.
Guardo il cellulare. Le 18:16.
Perché quando devo fare qualcosa io deve sempre succedere una sventura? Che scocciatura! Che rottura di coglioni colossale! Fa caldo, sto sguazzando nel mio stesso sudore e devo perfino ritenermi fortunato per non soffrire di claustrofobia, altrimenti ora sarei stramazzato al suolo. Le persone, nonostante la chiara richiesta della sicurezza di stare al proprio posto, continuano ad alzarsi, a fare congetture, a spiare fuori dai finestrini e lasciare delle orribili impronte digitali che ora imbrattano l'intero vagone. Parlano alitando sui vetri, e ogni volta rabbrividisco.
Più loro parlano, più mi sembra che stiano sottraendo aria.
Più parlano, più il mal di testa sboccia.
Dopo un'ora sono l'unico seduto sullo stesso posto della precedente. L'intera calca di gente ha continuato a non stare ferma.
Ho cambiato la t-shirt, era talmente fradicia che iniziava a darmi sui nervi. E ora l'unica cosa che so è che non ricordo più se sia valsa la pena uscire, visto che il divertimenti pomeridiano è sparito come fumo.
Qualcuno spunta sui binari, un signore che stringe un cappello tra le mani. Deve essere di queste parti.
Le persone si affacciano a chiedere spiegazioni, sono curioso anch'io ma sarebbe inutile avvicinarmi, tanto non resta nemmeno un po' di spazio.
Due ragazzi si siedono al mio fianco.
«Che coglione! Tu guarda uno perché deve fare tardi, per un idiota che poteva suicidarsi benissimo a casa sua!» L'altro sghignazza, mentre l'amico sbuffa irritato. Riformulo la sua frase più e più volte prima di afferrarne il significato.
Mi alzo e vado vicino al vetro per osservare in lontananza.
C'è un signore al mio fianco.
«Che cosa è successo?» Chiedo con voce sofferente, perché l'ho capito benissimo. Solo che voglio che lo dica qualcuno in modo più umano.
«Un ragazzo si è buttato sotto al treno. Il conducente ha cercato di frenare, ma è stato tutto inutile.»
La gente intorno continua a mormorare, a sbuffare per quell'imprevisto. Come se fosse una routine quotidiana. Nonostante avessero appreso la morte di un ragazzo, tutti continuavano a guardare gli orologi al polso, non più curiosi di sapere ma frettolosi di andar via, alle proprie case, agli appuntamenti.
«Succedono spesso queste cose. Mi è capitato tante volte di assistere.» Il signore continua, solo che sembra non aver parlato proprio a me ma bensì con lui stesso. Non mi fissa.
Vado a sedermi di nuovo.
Dagli altoparlanti ci annunciano dell'imminente scalo, e che fuori ci attende un altro treno sostitutivo, chiedendo scusa per i problemi riscontrati.
Scendiamo, attraversiamo l'asfalto bollente fino a raggiungere un treno di dimensioni più piccole.
Il treno parte e passiamo davanti al problema di cui si scusavano poco prima.
C'è sangue ovunque, anche se hanno cercato di coprirlo.
Lenzuola bianche occultano la carne in frantumi di un ragazzo. Non riesco più a parlare, non riesco a dare forma a questo dolore che mi sale dentro.
E' il primo suicidio a cui assisto.
Queste erano notizie che accadevano lontano mille miglia da me. Cose avvolte sempre da un surrealismo quasi egoistico.
Ora guardavo una tragedia, che la gente intorno a me disumanizzava e disprezza, che scacciava con una mano, di cui si lamentava, una tragedia che l'addetta agli altoparlanti aveva ribattezzato come un "problema".
Non mi sono mai sentito così solo, così diverso. Come se fossi stato sputato dallo spazio in quel treno.
Lì, in un posto triste, afoso, in mezzo a pietre e binari, c'è un corpo che fino a poche ore fa viveva, parlava, che aveva sicuramente una casa, un posto più familiare di questa desolazione, con un cuore che palpitava nel petto.
Il sangue di quella persona imbrattava una terra di nessuno, ai miei occhi era un'ingiustizia atroce.
Non dovrebbe, il sangue umano, finire in quel modo.
Non dovrebbe una persona andarsene così in solitudine.
Avevo lo stomaco a pezzi, la mente lontana e una lucidità disintegrata. Il treno correva, ma qualcosa era rimasto in quel posto colorato di rosso.
Inoltre continuavo a sentire il sapore del dentifricio sulla lingua, e questo non faceva che solleticarmi il vomito.
Quando arrivo alla stazione mi accorgo di non voler chiamare papà. Sono a pezzi, ho bisogno di riprendermi, non posso tornare a casa in questo stato. Ho la sensazione di scoppiare.
In strada c'è poca gente, cammino, cammino, cammino, e poi tutto si catapulta nel mio stomaco: immagini, ricordi, tristezza, disperazione, l'ostilità che ho toccato con gli occhi, la morte, l'impossibilità di fare qualcosa, la necessità di urlare e non avere voce, la solitudine improvvisa, l'immenso desiderio di aver voluto qualcuno a cui chiamare ma che purtroppo o per scherzo non c'è.
Attraverso, cercando di raggiungere il lato opposto della strada, ci sono dei giardinetti, ma proprio nel mezzo, al centro della pista, vomito.
L'asfalto nero si copre di liquido bianco e giallo.
La macchia è abbastanza grande.
Alcune gocce mi sono schizzate sulle scarpe.
Inizio a sentire un gelo sotto la pelle, seppur libero sono provato, tanto che nonostante il freddo continuo a sudare.
Vado a sedermi sul marciapiede di fronte. Adagio i gomiti sulle ginocchia e fisso il cemento, mentre le auto mi sfrecciano davanti portando spruzzi di vento.
Di solito mi piace osservare la gente, vedere dove vanno, studiare i loro movimenti e cercare di indovinare qualcosa tramite quello. Curiosare i loro abiti, guardarli in faccia e immaginare la loro storia.
E' una cosa che mi diverte molto, ma ora sembra che nulla possa tirarmi fuori da questo bozzolo.
Sono un idiota per essere così provato? Forse sì. Forse le altre persone che erano nel treno staranno vivendo la loro vita normalmente, mentre io sono rimasto ancora con il viso appiccicato ai vetri, guardando i pezzi di una persona che non si rialzerà più.
Me ne resto lì, sprofondando in uno stato di distruzione dell'anima, ed era così incomprensibile che ne avevo paura.
«Sonny?»
Alzo di scatto la testa, improvvisamente mi accorgo del tempo passato seduto così, la luce del cielo è tutta arancione, la sera è alle porte.
Guardo Jared, sembra così surreale. Come è possibile incontrare proprio lui, proprio qui, proprio in questo momento?
«Ciao» sussurro con una voce spaventosa. Il suo viso è tirato, gli occhi non sono pieni della freddezza che di solito lo avvolge come una barriera. E' quel grigio che mi affascina, ora è solo nero, riflette l'asfalto, o sta semplicemente riflettendo il mio stato d'animo?
«Che stai facendo qui? Sono passato con la macchina e....»
«Eri in macchina?» Lo interrompo.
«Sì» è confuso, gli leggo la preoccupazione sul volto. Che aspetto ho? Continua ad assottigliare gli occhi come se non riuscisse a mettermi a fuoco.
«Non sapevo avessi una macchina.»
«Ora lo sai.»
«Non sapevo nemmeno che avessi la patente.»
«Non fai delle buone congetture.»
«No, hai ragione» abbasso per la prima volta gli occhi davanti al suo viso. Li incollo di nuovo sui miei piedi e chissà su cosa vorrebbero interrogarli.
Jared viene a sedersi al mio fianco, così tanto che i nostri corpi aderiscono l'un l'altro.
«Non mi hai risposto. Che stai facendo qui, da solo, a quest'ora?»
«Sono tornato da poco, ho preso il treno» indico con un cenno del capo la stazione in lontananza.
Jared la guarda per un attimo poi torna a fissare me, e quelle rughe al centro della fronte non vanno via, continua a scrutarmi.
«Sono andato a casa di alcuni amici. Avevano una piscina favolosa. Gente dell'élite. E' stato un pomeriggio tranquillo, rilassante. Il treno di ritorno ha fatto ritardo, sono rimasto più di due ore a morire dal caldo e lamentarmi. Continuavano a urlare dagli altoparlanti che c'era stato un problema» rido senza un pizzico di allegria. Le mani tremano mentre gesticolo «ci hanno fatto spostare su un altro treno, perché quello dove eravamo noi non si sarebbe mosso per un bel po'. Un ragazzo si è buttato di sotto. Si è ucciso, Jared, gettato tra le rotaie. L'hanno chiamato "problema", il resto dei passeggeri lo chiamava con altri nomi orribili, e tutti non facevano che lamentarsi del ritardo causato. Ci erano abituati. Un signore mi ha detto che capita spesso. Santo cielo, si ammazzano ogni giorno? E sembrava che solo io fossi traumatizzato... quando ho visto... quando ho visto il sangue, le lenzuola bianche sui resti... avrei voluto piangere...» ma tanto lo stavo facendo ora, e la voce continuava a spezzarsi davanti al viso di Jared che mi guardava con le labbra serrate.
Le lacrime finiscono tra le labbra, sono salate, sono disperate.
«Tutti dicevano "che folle! Che coglione! Doveva farlo proprio qui?" e intanto io pensavo: povero Cristo! Nessuno merita di morire in quel modo. Come doveva sentirsi per compiere una simile azione? Doveva preferire qualsiasi cosa al confronto del dolore che si portava dentro. E mentre lui si uccideva non c'era nessuno che potesse confortarlo, che potesse mostrargli una possibilità diversa!» Chiudo gli occhi, sto urlando. Jared mi afferra il pugno e lo massaggia.
«E invece stava lì, mentre noi non avevamo fatto altro che lamentarci! Stava lì, e il suo sangue ci resterà per sempre. E non è giusto! Sono uno stupido... ma non riesco a scrollarmi da quella scena. Perché? Perché devo continuare a sentirmi così? Io il treno non lo prendo mai, non ci sono abituato alle morti suicide. Non riesco a disumanizzare il sangue.»
La mano di Jared sale fin sopra l'avambraccio e poi, in un lampo di pressione, sono stretto nel suo abbraccio.
«E' facile. Per molti lo è: trovare una risposta comoda. La gente si gode la vita, e allora perché non posso farlo anch'io? Perché non riesco a tornare a casa e lasciare quel cadavere lì dove l'ho visto, in un posto sconosciuto e farlo ritornare per me una persona altrettanto sconosciuta?»
«Se non ti accontenti della facciata, se scruti la gente da diverse angolazioni, allora non sei come gli altri, Sonny. Devi accettare solo questo. Non sei uno stupido, ma ti lasci toccare troppo dalle cose che ti sono intorno. Quello era un ragazzo solo. Sai cosa è successo quando sei arrivato a quella conclusione? Ne hai avuto una paura fottuta.»
Il profumo di fumo e dopobarba mi invade le narici e il cervello. Improvvisamente sento il calore di quelle braccia riscaldarmi più nel profondo, muove qualcosa, tocca dei punti lontani, che fino a poco fa erano inafferrabili anche per me... poi capisco. E' il conforto. E' quella cosa che avevo cercato come un disperato da oggi. Calo la mia guancia sul braccio di Jared, prendendo a manciate quel conforto che mi sta dando.
«Mi lascio ossessionare, è diverso.»
«L'ho capito... col tempo.»
«Me lo rimproveri? I miei genitori lo fanno spesso.»
«Non capisco perché dovrei rimproverarti.»
Jared è ritornato più padrone di sé, pian piano si scioglie dall'abbraccio ma senza allontanarsi.
Accende una sigaretta.
«Mah, non lo so... forse perché alle persone, di solito, piace esprimere la propria opinione in merito agli argomenti di turno.»
«Vuoi la mia opinione?»
«Certo.»
«Sei un po' strano, e non so se lasciarti ossessionare da qualsiasi cosa possa farti bene..»
«Guarda che non mi lascio ossessionare da ogni cosa» mi fissa.
«E da quali cose, allora?»
Sento le pupille farsi calde, coagulandosi nello sguardo di Jared.
«Da quelle che amo... o raramente, da quelle che mi rendono triste» distoglie lo sguardo, ancora a fuggire da ogni corda che lancio nella sua anima. E' un amo che non abbocca.
«Non riuscirai mai a mantenere un equilibrio.»
«Per te è essenziale, vero? Tutto deve essere maneggevole per controllarlo. Ecco perché parti sempre, per azzerare tutto. A me non m'importa dell'equilibrio.»
Jared sogghigna, ma quella smorfia assomiglia a un rimprovero, un enorme rimprovero fatto a se stesso.
«Sonny, mi stai giudicando. Che c'è, mi hai analizzato tutto questo tempo?»
«Certo che ti ho analizzato, come analizzo ogni persona che mi vive intorno.»
«Complimenti.»
La tua anima ha folgorato la mia, Jared. Non lo vedi?
«Sei arrabbiato?»
«No. Sono provato, come ogni volta che parlo con te.»
«Non ti stavo giudicando.»
«No? E comunque, se proprio vuoi saperlo, hai perfettamente ragione. Su tutto. Per me è necessario avere ogni cosa sotto controllo, ed evito i legami.»
«Perché?»
«Non puoi, proprio tu, farmi questa domanda!»
«Io?»
«Sei così bravo a leggere la gente, avresti dovuto capire la risposta.»
«E invece non l'ho capita.»
«Mi chiedo perché...»
«Perché sono troppo coinvolto da te per poter scavalcare certi muri.»
Jared chiude la bocca di scatto. Eccolo lì, ora si sta barricando lentamente dietro la sua fortezza.
«Sonny, ora ti svelo una cosa. Forse è più di una, ma voglio dirtelo. Per diversi motivi. Uno tra tutti è quello di riuscire a distrarti dai tuoi pensieri catapultandoti nei miei. L'altro è che voglio che inquadri bene la mia figura e capisca di dovertene allontanare...» getta il mozzicone a diversi metri di distanza, e quello fa alcune scintille prima di spegnersi.
«Vivo la vita a fasi alterne. Per la maggior parte del tempo mi sento un estraneo. Riesco a percepire me stesso solo con poche persone e in diversi luoghi. Non ho una religione, non una casa a cui appartenga veramente, non riesco ad amare fino in fondo. Non riesco mai a trovare qualcuno o qualcosa per cui restare, per cui mettere le valigie in cantina. Alcune mattine mi sveglio e mi dico di non avere niente, di essere qualcuno che non conosco. Altre sono contento di tutto, della mia libertà, della mia privazione di catene. Perché evito i legami? Le persone sono come piante, i legami stessi lo sono. Devi curarli. Avere riguardo. Non puoi dimenticarli al sole, non puoi partire e poi ritornare quando vuoi e trovarli intatti. Finisce che poi cambi anche tu. Non sono fatto per prendermi cura di qualcosa, sono fatto per evadere. Sono fatto per restare sempre la stessa persona di sempre.»
Il suo viso è una tavola di colori, gli occhi argentei catturano la luce del tramonto, mentre sulle guance i riflessi del sole calante, raggi caldi, non accecanti, soffusi, tiepidi, si posano su quei tratti così duri e decisi.
E' bello da rimanere lì per ore, a fissarlo senza stancarti. E' bello da farmi male al petto.
«E se trovassi qualcuno da amare?»
Mi sorride, aprendo il sipario che sono le sue labbra, mostrandomi quel taglio netto e bianco sul viso, quella luce che lo rende vivo, che accende un suono nell'aria. Che fa rughe nella sua pelle, da farlo sembrare più vecchio di quel che è, ma anche più spensierato. Più incline all'ilarità.
«Non so darti una risposta, per me sarebbe un'esperienza nuova, non riesco a prevedere le mie reazioni.»
«Jared, ti ammiro molto» gli occhi gli si spalancano per un attimo, poi li abbassa come se non meritasse quelle parole. «Sei una persona... unica. Non riesco a non provare un po' d'invidia per te.»
Si tira su, mi tende una mano.
«Io invece credo che tu non debba invidiare nulla a nessuno. Dovrebbe essere l'opposto. Adesso andiamo, ti riaccompagno a casa.»
Afferro la sua mano, quella mano che appare sempre così ferma, senza tremori, senza inflessioni, la lego alla mia gustandone il sudore che ci appiccica i palmi.
Avrebbe potuto essere semplicemente il caldo, eppure l'istinto continuava a dirmi che quelli erano segnali, che la persona che mi stava riaccompagnando a casa non era poi così impenetrabile.
Dovevo significare qualcosa per lui, altrimenti non mi avrebbe baciato.
Cazzo, da quando gli etero vanno in giro a baciare gay?
Una volta a casa la mia famiglia mi tartassa di domande, papà è un po' risentito per non averlo chiamato, mamma è preoccupata.
«Quanto tempo sei stato al sole? Hai il viso chiazzato e le labbra secche» offre dell'arancia premuta a tutti, Jared la beve in silenzio osservandomi dal suo angolino. Non faccio parola alla mia famiglia dell'incidente ai treni. Lui tace, non sembra voler infrangere questa mia decisione ma mi fissa come se volesse capire.
Carlos continua a giocare con i miei capelli.
«Non dovresti uscire.»
«Ah no?»
«No. Non hai l'aspetto di uno che può cavarsela. Attiri sventure.»
«Che stronzo» dico con voce impastata, mentre il sonno inizia a tirare le tende della mia lucidità.
«Sonny-boy, parla bene» grugnisce mamma.
«Non scherzo, fratellino. E' strano che tu vada via per una giornata intera. Sono abituato alle tue uscite serali.»
«Carlos, mi infastidisce che ti impicci dei miei affari quando io con te non l'ho mai fatto. Ho caldo, tu non ci sei sempre è quando capita la maggior parte delle volte sei occupato. Avevo bisogno di rinfrescarmi.»
«Rinfrescarti? Ma se sei andato in un'altra piscina!»
Mi alzo, vado proprio di fronte a quella faccia da burlone stupida di mio fratello.
«Ti ringrazio per la bella chiacchierata. Vado a dormire.»
«Dovresti prima lavarti» sono quasi sotto l'uscio della porta, non resistendo mi giro incenerendolo con lo sguardo.
«E' ovvio che prima devo lavarmi!» Tu vedi se devo ricevere richiami da uno zotico come lui.
Resto sotto il getto della doccia per un tempo fin troppo lungo, considerando la stanchezza fisica e mentale.
Quando entro in camera l'aria è pesante, intrisa di calore. Non riesco nemmeno a spalancare completamente la finestra, mi getto come uno straccio sul letto, ancora in mutande, sprofondando dopo poco in un profondo sonno.
C'è qualcosa più bello del sonno? Dio, ero così in pace con me stesso, galleggiavo nel relax totale, e nel frattempo, nonostante lo stato catatonico, riuscivo a sentire il mio stesso russare.
«Sonny?»
Sentivo il mio nome arrivare da qualche parte, la testa era più calda, qualcosa continuava a sfiorarmi il cuoio capelluto. Forse il vento.
Avevo caldo, non riuscivo a sentire il vento.
«Sonny, svegliati.»
Quella voce.
Apro di scatto gli occhi, ritrovandomi il viso di Jared a pochi centimetri dal mio. E' denso, mi fissa con aria strana, le sue pupille sprizzano dalle mie labbra agli occhi continuamente, procurandomi un leggero affanno. A differenza della volta scorsa, quando ci siamo baciati nel corridoio, nella mia stanza c'è luce a sufficienza per ammirare ogni particolare di lui e sapere con certezza che quell'espressione non è di uno che non prova attrazione.
«E' quasi pronta la cena» cerco di annuire. L'ho fatto? Non ho più controllo del mio corpo, e l'improvviso risveglio non fa che irrigidirmi di più.
«Stai mettendo il burro cacao?»
Annuisco con più vigore.
«Hai le labbra secche» provocandomi uno sconvolgimento ormonale e uno stupore emotivo, Jared alza la mano strofinando le dita sulle mie labbra. Lo fa più e più volte, apre e chiude le labbra, si avvicina di qualche centimetro poi indietreggia senza però riuscire a staccarsi.
La mia erezione è così agli estremi che pulsa nelle mutande, e penso: se mi bacia eiaculo.
Ma lui non mi bacia.
Si stacca con difficoltà, e solo quando si alza mi accorgo della posizione in cui era: disteso sul letto, proprio vicino a me, così tanto che una spalla era sul mio petto.
Mi tiro su anch'io, ma resto seduto sul bordo del letto, cerco i miei pantaloni e prima ancora che li veda e Jared a prenderli. Si inginocchia ai miei piedi, ne afferra prima uno e poi l'altro, inizia a infilarmi i pantaloncini, osservando la mia erezione apertamente e senza cercare di camuffarlo, facendomi morire d'imbarazzo e insoddisfazione.
Con una calma estenuante trascina la stoffa su per le mie gambe, mentre le sue dita mi sfiorano la pelle facendomi rabbrividire.
Quando arriva in alto alzo il bacino, per permettergli di completare il lavoro, e lui, nel momento in cui spinge il pantaloncino in alto, avvicina il viso davanti al mio fallo, a pochissimi centimetri.
Involontariamente mi esce un ansimo.
Jared ha la pelle accaldata, più scura del solito. Le palpebre gli pendono, e i suoi pantaloni, all'altezza del cavallo, sono gonfi.
Si tira su, senza dire una parola, mi tende una mano che prontamente afferro.
Non ho il coraggio di fare niente.
Non ho parole giuste per dirgli quanto lo desideri, ma sembra già abbastanza evidente.
Scendiamo giù come se non fosse successo nulla. Lui riesce a districarsi, nascondendosi dietro la sua calma d'argento.
Arrivato al tavolo credo di poter affermare con sicurezza di aver contato tutte le cuciture dei suoi pantaloni e aver fatto una accurata analisi della sua schiena e i movimenti che procurano l'ondeggiamento della stoffa creando in diversi punti alcuni infossamenti. E' proprio in quei punti avrei voluto lasciare i miei baci.
Avrei voluto fermarlo, confessargli che oramai mi ero già innamorato di lui, pregarlo di provare, di stare una notte con me, di vedere quel desiderio nei miei confronti se si rivelasse solo una piccola scintilla destinata a spegnersi o a divampare.
Così magari mi sarei rassegnato, senza restare nel mio eterno dubbio.
Jared però non aveva solo quell'ostacolo da superare. No. Credo che quello più grande, per lui insormontabile, ma anche una profanazione, fosse l'amicizia con Carlos.
E' troppo incline alle regole.
Così colmo di principi che in quel preciso momento ogni cosa che provavo sembrava inutile.
Mi buttati completamente sul riso all'insalata, perché a confronto di un inutile confessione sembrava la scelta più facile che potessi fare.
Di solito la parte più bella è proprio quando scende la sera, e resto io e tutte le cose che mi piacciono, ogni dettaglio del giorno su cui posso riflettere.
Resto io e basta.
Ma non mi sentivo più così isolato. Su di me iniziava a incombere l'ombra di qualcuno, un'ombra pulsante, come un cuore, che occupava ogni stanza in cui entravo, che invadeva la mia mente lasciandomi senza più spazio solo per me. 
Inoltre avevamo mantenuto il silenzio stampa sul bacio.
Evitare il discorso voleva dire un mucchio di cose, ma quello principale era che nella mia mente non avevo chiarito un bel niente e restavo con i miei grattacapi.
Se non gli interessavo, perché non aveva detto nulla in proposito?
Sono uno scarabocchio di essere umano.
Lo penso spesso, il più delle volte davanti allo specchio, o quando le persone con cui ho appena parlato vanno via e a me solo dopo vengono in mente tutte le cose che avrei voluto dire.
Credono che sia uno che capisce bene la gente, anche in famiglia lo danno per scontato.
Come no! Se solo sapessero che in realtà il più delle volte mi lancio in congetture fantasiose, e l'ironia è che riesco sempre a indovinare tanta roba.
Non le capisco le persone, non dovrebbero meravigliarsi di questo. Se uno ci riflette, alla fine arriva alla conclusione che nessuno potrà mai capire bene un altro. E' così.
Abbiamo così tanti strati d'animo, bagagli di segreti, sfaccettature che vogliamo nascondere che sarebbe davvero assurdo credere che qualcuno, con una sola occhiata, possa intuire quel ben di Dio.
Sì, certo.
Penso cose impensabili a orari pesanti.
Dopo l'ennesima giornata di noia, tanto che sono uscito più volte a fare commissioni per Carlos, non mi resta che pensare, pensare e ancora pensare.
Abbiamo cenato presto, i nostri genitori sono rientrati prima perché mamma, che ora gira per casa con una faccia dal colorito grigio e i capelli legati in malo modo, ha avuto un attacco feroce di emicrania.
In realtà ha le sue cose.
Non si accorge dei gesti che oramai conosciamo tutti a memoria e ripete, puntuale come un orologio svizzero, ogni mese. Si massaggia il ventre, fa dei piccoli lamenti, palpa il seno. Deve farle male anche quello. Eppure il malessere che ha non le impedisce di mettere continuamente apposto e pulire qualcosa.
Ora, per esempio, stira una tonnellata di indumenti, arretrati di vari mesi. Io me ne sto con il mento affondato in una mano, seduto al tavolo della cucina, ad annoiarmi al posto suo.
«Mamma, posso farti una domanda?»
«Perché non dovresti?» diciamo che nel suo periodo mensile è particolarmente suscettibile.
«Ti vedo un po' sofferente.»
«Sono abituata.»
«Okay. Volevo chiederti se sei soddisfatta dei tuoi figli o vorresti cambiarli» lo dico con tranquillità, senza badare al fatto che mia madre non ha assistito alla discussione fatta con me stesso poche ore prima, davanti al vecchio film di Frankenstein (la trasposizione in bianco e nero), e quindi sembra che stia parlando, più di figli, di bottiglie di detersivo. Una volta sono riuscito a noleggiare anche la prima versione del film, uscita agli inizi del novecento, un cortometraggio muto bellissimo.
Mamma ripone il ferro da stiro, incrocia le bracci al petto e assottiglia lo sguardo.
«Vorrei cambiarli, entrambi. Uno sembra crescere solo fisicamente, l'altro è talmente strano da fare domande davvero assurde» la guardo, registrando dopo poco il significato delle parole. Mi ero soffermato solo sull'iniziale volerci cambiare entrambi...
«Sei impazzito? Sonny-boy, vergine beata, perché fai una domanda simile?» Afferma con gesto teatrale spalancando le braccia.
Papà ci passa davanti sussurrando: «Perché lui è un visionario, cara» gli rivolgo tutta la mia irritazione con uno sguardo che lui non vede, visto che continua per la sua strada fino a sparire dalla stanza.
«Oggi ho visto il film Frankenstein, e mi sono accorto della delusione di Victor per aver generato un figlio così... così... diverso. Anormale.»
«Quale versione hai visto? Io non ricordo che il dottore fosse così deluso...» riprende, nel frattempo, a stirare.
«La versione che ho visto oggi? Non ricordo bene. Beh, non lo dice, ma gli si legge negli occhi.»
«Sonny, ma il suo Prometeo non era umano.»
«Per metà sì.»
«Non era nemmeno figlio suo.»
«Certo che lo era, mamma. L'ha creato lui.»
«E allora lo amava.»
«No. Non penso che quando mettiamo al mondo una cosa poi uno debba per forza amarla. Creiamo delle vite e non sappiamo poi come queste si sviluppino.»
Mamma sorride, finisce di piegare una maglia e poi mi viene vicino, accarezzandomi il viso.
«Sonny, ora non lo puoi sapere. Ma un giorno, quando avrai dei figli, solo allora capirai che le cose che generiamo con amore, dalla nostra carne, non possono essere odiate né disprezzate. Le amiamo incondizionatamente, è un processo naturale. Un dare senza voler ricevere nulla in cambio. Ecco l'amore di una madre cos'è.»
«E se non li avessi dei figli, un giorno, a te dispiacerebbe?»
Le pupille guizzano attente su di me, soppesano le mie parole, studiano la curva della mia bocca.
Capita in alcuni istanti in cui abbia la netta sensazione che mamma da sempre sappia qualcosa, o meglio, abbia intuito parecchio su di me.
«Beh... certo, un po' sì. Ma dovrebbe dispiacere più a te. Io di figli miei ne ho già avuti.»
«Figli che vuoi cambiare» sorrido ammiccando. Lei ride.
«Figli folli! Avrò mai un rimborso?» Urla mentre torna al suo lavoro.
«Che madre perfida!»
Due giorni dopo di Jared nemmeno l'ombra, anche se so grazie a mio fratello che invece con lui si vede tutti i giorni in diversi posti. Vanno a divertirsi.
Due uomini con delle salopette blu macchiate di sostanze ignote, girovagano per casa da questa mattina presto.
Mamma ha preso alcuni giorni di ferie al lavoro perché la casa necessitava manutenzione. Tipo i condizionatori.
Perdevano acqua e siamo stati costretti, più che altro per la corrente elettrica, a farne a meno. Papà dice sempre che la prudenza non è mai troppa, che se c'è l'elettricità è meglio essere cauti.
Ha una fissazione quasi maniacale. Ogni mattina, appena sveglio, va ad aprire la manopola del gas e quella dell'acqua. La prima ritorna a spegnerla prima di uscire, se nessuno di noi è ancora sveglio, l'altra invece la lascia aperta fino a sera. E' questa procedura vale anche quando usciamo la sera, prima di andare a nanna. 
E' il primo giorno dell'ultimo mese di vacanza, poi dovrò ritornare a scuola.
Quando mamma è a casa, per la prima volta dopo mesi a godersi il suo posto sicuro.
Sono rilassato, pieno di speranze, pieno di uno strano senso di appagamento.
Da questa mattina ho passato il burro cacao così tante volte sulle labbra, che l'avrò consumato quasi del tutto. Quella sera uscii con i miei amici.
Rintanati in uno dei bar nella nostra cittadine da provinciali. Non ricordo mai i nomi delle persone, a meno ché non siano sempre a contatto con me, eppure ci sono persone che le registro con nomi sbagliati, quando succede non faccio altro che continuare a sbagliare, finché la persona in questione non ci fa l'abitudine.
Metà dei ragazzi al mio tavolo hanno un volto, ma nella mia mente non riesco a pescare i nomi con cui si sono presentati.
C'è Peter, vecchio amico, il jolly che mi procura sempre delle uscite, inviti a feste e quant'altro.
Poi c'è Sam. Ovvero, "Simon", ma che avevo erroneamente ribattezzato senza riuscire più a smettere. Successe anni fa, da allora tutti hanno iniziato a chiamarlo così.
A volte per scherzo mi rinfaccia questa cosa, mi dice "la colpa è tua se ho perso il nome" e io gli rispondo "avere un nomignolo è una cosa molto originale, dovresti ringraziarmi".
«Ehi Ryan, hai tu le mie chiavi?» Dice un ragazzo molto scuro di carnagione, rivolto a uno moro come lui. Credo siano parenti, si somigliano molto. E ho scoperto un nome.
«Quali chiavi?»
«Delle macchina, cretino» quello infila le mani in tasca e le tira fuori, facendole cigolare davanti al viso dell'altro. Quel rumore, mi ha ipnotizzato, richiamava alla mente qualcosa che non riuscivo a rammentare del tutto. Un richiamo familiare, una di quelle cose che hai tutti i giorni sotto al naso eppure te ne dimentichi sempre.
Il cameriere porta le ordinazioni. Quasi tutti hanno ordinato un panino, mentre io ho preferito una doppia porzione di patatine fritte con Red Bull ghiacciata.
«Jim, che cazzo mi hai portato?» Urla al cameriere uno dei ragazzi al nostro tavolo. Questo qui, per esempio, non mi sta particolarmente simpatico. E' alto, ha dei capelli biondi che non sembrano tutto frutto di madre natura, e ha più o meno delle fattezze abbastanza comuni. E' gradasso, socievole, ma la cosa che mi irrita è il tono con cui scherza. Vedo qualcosa di maligno ogni volta dietro i suoi sorrisetti.
«Quello che avevi ordinato, Lex» dice Jim calcandosi il cappellino in testa, che da quando è nato lavora in questo posto.
Lex (ecco come si chiamava!) lo guarda sopraffatto dal disappunto, aprendo i suoi grandi palmi in aria.
«Jim, ti avevo detto che volevo un doppio hamburger con sottaceti, salsa barbecue e insalata.»
«Il panino della casa.»
«Esatto. Ma senza le fottute cipolle!»
Jim sbuffa. Tanto di cappello Jim, sembra che la tua faccia brufolosa se ne freghi altamente della stazza del tizio a cui hai sbagliato l'ordinazione.
«E non puoi scartarle?» A quel punto Lex chiude di scatto la bocca stingendo i pugni. No, ora non scherza più. Jim, sempre sbuffando, si avvicina e prende il piatto.
Dopo due secondi è di ritorno.
«Ti capisco al volo.» annuncia con orgoglio, al ché scoppiamo tutti a ridere quando ripone un panino nuovo di zecca davanti a Lex.
«Per fortuna che mi capisci al volo! L'avete sentito? Dormirò sogni tranquilli, perché c'è il caro Jim qui a servirmi, lui mi capisce al volo. Non ho bisogno di fare l'ordinazione, vero Jim? Mi entri nella fottuta testa...»
«Fortuna che sia la testa...» dice il parente di Ryan. Allorché le risate del nostro tavolo sovrastano ogni altro suono nel locale. Jim intanto si allontana, urlando un bel «Lasciate la mancia!»
«Vaffanculo, Jim! Prima impari, poi ti toccheranno le mance!» Urla Lex prima di addentare il panino. Jim intanto fa alcune ordinazioni al bancone degli alcolici, poi inaspettatamente fa dietrofront e si riavvicina al nostro tavolo.
«Lex, sicuro che non vuoi lasciare la mancia? Non si scherza coi camerieri. Hanno pur sempre del cibo in mano. E si sa....»
Lex è sconvolto, ha gli occhi sbarrati mentre noi siamo praticamente schiacciati sul tavolo a ridere come matti, lui fissa la schiena di Jim sparire nelle cucine.
«E si sa cosa?» Lo ignoriamo, finché il discorso non cade nel dimenticatoio.
E' durante una barzelletta che racconta Ryan, i miei occhi mettono a fuco due coppie che entrano nel locale. Proprio come in quei momenti in cui per la paura ogni cosa dentro ti si gela, quell'istante fu simile, ma più penetrante, quasi sentivo la puzza del mio dolore.
Dimenticai le parole.
Dimenticai di mettere a posto la bocca, anche se dentro non sorridevo più.
Dimenticai di chiedere a me stesso chiarezza, risolutezza, dei calcoli.
Dimenticai che Jared non era mio, e non avrei dovuto lasciare che mi ferisse in quel modo vederlo abbracciato a una ragazza bella, molto bella. Con dei capelli biondo ora raccolti in uno chignon. Entrano, prendono posto al bancone. Deve esserci anche mio fratello, ma non riesco a smettere di fissare Jared. Jared che cammina, che viene illuminato a tratti dai faretti, che entra nell'ombra e poi sbuca con un sorriso ammaliatore, fisso sulla ragazza. Prende posto su uno sgabello con disinvoltura, con quell'aria di chi impone la sua presenza senza lasciare altre opzioni. Afferra il vitino stretto e avvolto in un abito azzurro della ragazza, avvicinandola.
Lei gli posa le mani sul torace, una zona che a me non era mai stata concessa di toccare.
Si avvicina, sussurra qualcosa nel suo orecchio. Jared ride fragorosamente, avvicina il naso al collo di lei, lo annusa, lo bacia e apre gli occhi. E' lì che ci incontriamo tra bicchieri rumorosi, fumi di sigarette e persone ovunque. E' lì che ci incontriamo ancora, mai più distanti. Mai più chiari. E allora, in quel preciso momento, quando un dolore al petto mi piega ogni costola, mi chiedo perché mi ha baciato in quel modo. Non mi ha mai guardato in quel modo. Non ha mai lascito che lo toccassi così. Tra noi non c'era solo una distanza fisica, ma anche morale. Tra noi, per la verità, ci sono davvero poche parole.
Jared si gela sul posto, resta a fissarmi per un po'. Non so le sue mosse seguenti. Ho abbassato lo sguardo. Fa male. Fa troppo male.
Non mi piace sentire queste sensazioni, sentirmi per la prima volta inopportuno e rimpiangere di non essere diverso da quello che sono. Non voglio sentirmi così.
Riprendo a guardare i miei amici, ricomincio a parlare, riacquisto la mia vita ben sapendo tutte le ombre che ho lasciato entrare nel cuore. Creare nella propria testa una trama per un eventuale storia mi ha sempre messo tanta tristezza, un po' come essere un burattinaio, dar vita a uno spettacolo senza anime. Sì, ci sono dei momenti in cui guardo Jared e desidero che faccia qualcosa. Ma quelle sono voglie impulsive, non premeditate, che nascono e dopo mi fanno stare male per non essere state compiaciute.
Posso solo immaginare chi si crea una storia prototipo nella mente e poi resta deluso quando la vive. Deve restarti un'amarezza di base. Un'eterna delusione verso quello che invece ti tocca vivere, che potrà essere bellissimo e tu non te ne accorgi, o bruttissimo ma per te sarà sempre peggio. Il bello è che in questo momento non so cosa voglio da Jared, so solo che mi ha ferito tanto vederlo così. Spero solo che Carlos non mi veda. Ma ecco che sento il suo fischio, il solito con cui mi chiama in lontananza. Forse ha preferito non avvicinarsi perché sono con altre persone. Lui fuori casa porta sempre un certo rispetto per le mie cose. Lo apprezzo molto.
Ecco perché faccio un bel respiro, mi dico che andrà meglio, mi dico che sono solo infatuato, e alzo gli occhi. Carlos mi sorride, riesco a vederlo da qui, facendomi un cenno.
Mi alzo, senza essere costretto a dar spiegazione a nessuno, tanto sono così immersi in qualche altra stupida discussione da non accorgersi di me.
Mentre mi avvicino al quartetto, asciugo i palmi sui jeans. Sono sudatissimi. E' l'agitazione.
I piedi si fermano vicino a Carlos. Evito deliberatamente lo sguardo di Jared, ma lo sento bruciarmi sul corpo. Lo sento ovunque. I suoi respiri, le labbra calde e ruvide. La forza del suo corpo, l'argento dei suoi occhi. Tutto.
Poi mi dico che è solo un infatuazione, di smetterla di sudare per lui.
Le ragazze non ci sono, devono essere andate al bagno.
«Sonny-boy, non sapevo dovessi uscire.»
«Ci siamo visti ieri sera l'ultima volta, non abbiamo avuto l'occasione di aggiornarci.»
«Oggi ho avuto da fare.»
«Sì, papà» lo scimmiotto. Carlos ride fragorosamente, si afferra il labbro tra i denti assumendo un espressione feroce e buffa prima di acciuffarmi e farmi una bella ripassata di mani sui miei ricci. «Che capelli, Gesù!»
«Ehi, lasciali stare» gli dico inutilmente, sommerso dalle le sue moine.
Quando mi stacco riaggiusto alla bell'e meglio la maglietta.
«Torno al tavolo...»
«Certo. Anche noi stiamo per andar via. Fai il bravo.»
«Sempre. Divertitevi» quando faccio roteare i piedi sul pavimento, mi permetto di guardare per un attimo Jared. La sua espressione fa peggiorare tutto. Il mento basso, il cipiglio al centro della fronte, la tristezza nei suoi occhi... in tutto quel grigio c'era anche l'impotenza.
Vado via da quell'ultima verità che mi permette di scorgere dentro di lui. Vado via dal "no" categorico che si porta dentro. Perché per lui è tutto impossibile. Invece come deve essere per me sapere che la sua mente è chiusa in una rigidezza morale? Per me è difficile progredire in una società come questa, ma cammino. Continua a crescere aspettando l'attimo giusto per spuntare fuori e farmi carico delle conseguenze.
Ho così tanta paura, e lui non sa come mi sconvolge e mi getta ancora di più nell'insicurezza quelle sue sensazioni orribili.
Sono incline alle riflessioni, per qualcuno quello sarebbe stato un chiaro segnale che mi schierava da un solo lato, quello della compostezza, abbandonando del tutto la follia.
Invece non era così. Mi lasciavo trasportare anche da quella. Sentivo così tanto la vita scorrermi nel corpo, avvertivo così tanto nella mente a causa delle riflessioni, scorgevo così tanto con gli occhi che tutta quella limpidezza non faceva altro che spingermi a commettere piccoli gesti di follia. Perché, non era anche quella la vita? Il rischio. Non arrendersi alle solite probabilità.
Come Che Guevara, se vale la pena uno si gioca anche l'ultimo pezzo di cuore.
E l'avrei fatto, non perché fossi un folle, ma bensì uno sciocco, imprevedibile e sincero sentimentale.
Ritornai al tavolo, attesi l'uscita del quartetto e poi, con una piccola bugia, lasciai anch'io il locale. Quella sera iniziai a sentire il cuore più pesante. Parecchio pesante.
Credo sia quello a rendere davvero penoso e difficile l'obiettivo di andare avanti. Sembra essere pieno di grandi sassi, a ogni passo cedi, barcolli, cadi e ti rialzi.
Forse uscire dal locale e andare a casa avrebbe cambiato il corso degli eventi.
Invece fuori non scorsi le cose vere, vedevo solo l'immagine di Jared che lasciva che quella donna lo toccasse. Ovunque rivedevo l'ombra del suo profilo avvicinarsi al collo di quella persona. Non rivivevo solo gli attimi passati poco prima. La mente iniziò a elaborare anche scene che non avevo visto, e di lui che baciava un corpo di donna, che l'amava nel modo che per lui era giusto. Immaginavo mentre amava col corpo una donna, mentre le stringeva i voluttuosi seni, la bocca baciava posti inesplorati, le mani percorrevano una pelle molto più liscia e morbida della mia... e poi quell'immaginazione si tramutò come una verità palese nel mio cuore. Mi si mozzò il fiato in gola. L'improvvisa incapacità di respirare procurò dei crampi ai polmoni. Avvertii un freddo polare nonostante il caldo. Avevo bisogno anch'io di stringere qualcuno, di ritrovare ciò che stavo perdendo, di sentirmi bene, di far uscire quello che veramente ero per non dimenticarlo, per non cercare mai e poi mai di sotterrare me stesso.
Andai dall'unica persona che mi aveva toccato non con le mani, ma con dei sentimenti.
Il condominio dove abita Franck è abbastanza ampio e tetro, a tre piani, ognuno diviso in enormi ballatoi lunghi, con metri e metri di distanza tra una porta e l'altra. Busso alla porta, subito mi pento di non averlo chiamato. Sento la catena sganciarsi e armeggiare con le chiavi.
La testa di un bianco puro illumina l'ingresso. Già, Franck si tinge i capelli nel modo più strano possibile, tanto che non passa mai inosservato. La cosa buffa è che i suoi capelli naturali sono di un nero corvino, ma da piccolo ha sempre avuto dei ciuffetti bianchi nel mezzo, una delle caratteristiche di chi nasce con capelli di un nero purissimo.
Improvvisamente ha iniziato a tingerli bianchi e non ha smesso più. La sua pelle è pura, sembra non aver mai preso il sole, e quegli occhi fermentati dalla vita, di un castano scuro e variegato, gli colorano tutto quello che lo ritrae come una figura surreale, una vita esposta, capace di ipnotizzarti, tanto che resteresti per ore a guardarlo.
E' poggiato contro lo stipite della porta, caviglie incrociate, mi sbadiglia in faccia passandosi la mano tra i capelli. E' in mutante. Lui gira così per casa.
Su entrambe le braccia, dalla spalla fin sopra al gomito, è coperto da due tatuaggi diversi e simili. Sulla destra è raffigurato l'arcangelo Gabriele, e sulla sinistra l'arcangelo Michele.
Hanno dei colori bellissimi, tanto che sembrano i dipinti naturali da cui sono stati copiati.
Ogni volta che è così nudo non posso evitare di fissarli. Sono straordinari.
«Che ci fai qui?» Mi chiede.
«Disturbo?»
«Sorprendi» sorride, spalancando la porta e rientrando. Lo seguo.
Mi sfilo le scarpe all'ingresso. Franck non permette a nessuno di tenerle in casa. Credo che sia una specie di fissazione. Già, conosco tutte persone con strane manie.
Andiamo ad accoccolarci sul divano, lui in un primo momento mi ignora, riprendendo a leggere alcuni fogli.
Franck è più grande di me, anche se non si direbbe. Ha finito il liceo da un pezzo, lavora, è autonomo, vive da solo e viaggia molto. Gli arcangeli che si è tatuato li ha visti in uno di questi viaggi. Mi raccontava tante cose, prima. Ha una fede incrollabile, perlopiù segreta perché non è ai livelli maniacali. Ecco perché la sua fede la ammiro, è pura. Da neonato è stato lasciato in un orfanotrofio. Un piccolo convento di suore che accudiva orfanelli. E lì che è cresciuto.
Ogni volta che me lo racconta divento triste, anche se lui mi dice che quelli sono stati anni tranquilli, era circondato da brave persone, tanto che ci ritorna ancora per salutare.
Ma lo so, anche se dice così lui la condizione dell'orfano l'ha sofferta molto. Non avere nessuno non è bello. Ti cambia. Credo che negli anni lui abbia combattuto e cercato se stesso, e nella fede ha trovato la carica, la speranza. Credere in qualcosa di supremo l'ha aiutato a superare l'immensa solitudine che aveva. Così è riuscito ben presto a diventare autonomo, a trovarsi un lavoro e vivere per conto suo. Franck viaggia molto, dice che vuole girare tutto il mondo.
Ammette spesso che ci sono alcuni posti da cui non si vorrebbe più staccare. "Sono belli per ricominciare" mi dice.
Vorrei dirgli che lui ha già ricominciato, ma ogni volta che lo guardo so che conosce già questa verità, ecco perché le sue parole le lascia portare via dal vento.
«Forse avrei dovuto chiamare...» annuncio ad alta voce, infrangendo il silenzio.
Franck alza gli occhi persi, mi mette a fuoco e sorride teneramente facendo l'occhiolino.
«Non essere stupido. Lo sai che qui puoi venire ogni volta che vuoi. Ti spiace?» Alza il libro in mia direzione.
«No, affatto.»
«Ho ripreso gli studi.»
«Cosa?» Sono meravigliato, sorridendo a quella notizia. Mi alzo e vado a sedermi vicino a lui.
Siamo spiaccicati sul divano, non molto comodi, ma voglio stare così.
«Sì. Non hai notato che non sono a lavoro? Ora faccio il DJ solo nei fine settimana, per il resto studio. Ho fatto un piano di studi che seguo prima degli esami e mi trovo bene.»
«Sei fantastico, Franck!» Lo abbraccio, baciandogli l'incavo della spalla.
«Pazzo vorrai dire, a riprendere così gli studi.»
«Avevi bisogno prima di stabilizzarti. Per me è stato saggio. Poi l'università è sempre stata una tappa che hai rimpianto.»
«Esatto. Credo sia stato proprio quella sensazione a spingermi di punto in bianco a iscrivermi.»
«Che facoltà hai scelto?»
«Indovina.» Dice prima di riprendere a leggere.
«Storia dell'arte.»
«Ti odio quando centri la risposta» rido sommessamente.
«Dici sul serio?» Annuisce.
«Dico sul serio. Adesso mi lasci finire il capitolo? Così termino il piano studio di oggi e mi dedico al piccolo Sonny.»
«Un Dj che prende una laurea in storia dell'arte...» rabbrividisco per l'emozione. In realtà questa notizia mi ha messo una carica d'adrenalina assurda.
Franck mi ignora riprendendo a leggere, io invece lo abbraccio forte, con le labbra contro la sua pelle, canticchiando sotto voce:
«In mezzo ai fulmini della tempesta, noi tra le nuvole tuffiam la testa. Come sugli alberi d'una foresta, osiam le pendule, sartie scalar, noi gli scoiattoli siamo del mar.» La voce è rauca, con un effetto che ricorda un po' il jazz, forse a causa del tono basso, tanto che alcune parole risultano incomprensibile anche alle mie orecchie. Franck posa il libro e viene a ricambiare l'abbraccio, fissando il viso di fronte al mio. Continuo, osservando i suoi capelli bianchi, ne infilo alcuni ciuffi tra le dita, e poi la pelle candida, di un chiarore assai diverso, e le ali degli arcangeli, minuziosamente, per poi ritornare negli occhi nocciola.
«greco a levante, Bora a ponente, scïoni e turbini sappiam sfidar. Noi gli scoiattoli siamo del mar!»
Franck si abbassa sulle mie labbra, come a voler far scivolare il canto lungo la sua laringe catturandolo per sempre. Mi bacia con dolcezza, portandomi a una temperatura alta in pochi secondi, risvegliando la fame che ho di lui.
«Che cos'era?»
«Marinaresca. Melodramma in quattro atti tratto da La gioconda. Un canto che usavano i marinai sulle navi.»
«Mi piace molto.»
«Anche a me.»
«E' stato un marinaio a cantartelo?» Dice sorridendo e mordicchiandomi uno zigomo. Anche se fugge dai miei occhi lo vedo con quanta pena gioca su cose che lo fanno soffrire, fingendo di essere un gradasso.
«Che sciocchezza. Papà da piccolo mi portava spesso al porto, aveva un amico che lavorava sulle navi mercantili e gli procurava ottimi crostacei. Canticchiava questi vecchi canti che usavano un tempo. Questo era il mio preferito e infatti ne ricordo tutti i versi. Dopo anni ho scoperto la provenienza. Sai che sono curioso. Diceva che una parte era interpretata da un solista e alcune strofe venivano cantate in coro. Riesci a immaginarlo? Avrei voluto proprio assistere a una cosa così suggestiva» dico gesticolando e ondeggiando le mani come a riprodurre il mare.

«Curioso, eh? Vai a pensare certe cose, tu. Non ho mai avuto il piacere di sentire che ti piacesse una cosa normale. Mi fai sentire molto banale, piccolo Sonny.»
«Tu banale? Allora io sono un gladiatore!»
Scoppia a ridere, baciandomi ancora.
Si tira su, mi prende per mano portandomi nella sua bella camera da letto.
Lentamente sfila tutti i miei vestiti, lasciando umidi baci sul corpo, mordicchiando, succhiando.
Mi stringe con possessività, con le dita tra i capelli, bacia il viso, trapassa più e più volte la mia bocca.
Non so come, ma mi ritrovo disteso su lenzuola profumate mentre le mani di Franck lavorano con del lubrificante.
Si prende sempre cura di me. E' gentile. E' qualcuno che ammiro. Entra nel mio corpo come se fosse una chiesa, con grazia, delicatezza, amore.
Tanto amore, così grande da circondare entrambi. E' in quei momenti credo di innamorarmi un po' di quella figura pulita e sacra.
Franck non è rumoroso mentre facciamo l'amore, simile a me, non da tante moine. Lui preferisce urlare con il tocco.
Fa dei sospiri, grugniti di piacere che riescono a eccitarmi incredibilmente.
E' su di me, con le braccia issate sul letto a ogni lato.
Osservo quegli angeli tatuati, ogni spinta i muscoli gli si contraggono e penso sempre la stessa cosa: sembra che volino davvero.
E' con puntualità a quella meraviglia, ne segue il picco del piacere, finché non poso gli occhi sui tratti arrossati di Franck, che si tiene il labbro tra i denti, che mi guarda con occhi a mezzelune, caldi e liquefatto; l'immagine della sensualità fatta persona. Senza imporre nessuna barriera lascio esplodere il mio orgasmo su entrambi, mentre stringo possessivo le sue spalle, fin quando non cede e si accascia su di me, pompando ancora, ancora, ancora.
E poi il piacere raggiunge anche lui.
Franck dopo un po' si accoccola al mio fianco, copre entrambi con le lenzuola. C'è l'aria condizionata accesa. Non me ne ero accorto.
Mi abbraccia, bacia dolcemente il mio zigomo destro.
«Da cosa stai scappando?»
«Da niente» mento. Anche la voce è monocorde, segno evidente.
«Sonny, magari si potesse sopperire alle condizioni di un cuore.»
Al mio o al tuo, Franck?
Restai zitto, cibandomi avidamente dell'affetto che mi donava il ragazzo dalla chioma bianca, e sentendomi per la prima volta terribilmente triste e afflitto per non riuscire a far sbocciare il mio bene in amore.
Per me non amare lui era, ad oggi, una sconfitta.
Lui sarebbe stato perfetto.
Era vedere una piccola parte di me che se ne andava indisturbata nel mondo.
Franck era esso stesso un pezzo d'arte, ma era lungi dal pensare una cosa simile.



Un capitolo bello lungo ma decorato da tante emozioni. Cosa pensate della storia? Chi capite di più tra Jared e Sonny? Attendo con ansia le vostre opinioni.
Bruna

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