1. Los Angeles

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"Mi dispiace obbligarti a cambiare città ogni volta che mi viene affidato un nuovo caso" disse mio padre mentre metteva in moto la sua vecchia jeep dopo l'ennesima sosta.
"Ormai ci sono abituata papà" dissi con nonchalance cercando di non dare a vedere quanto mi era dispiaciuto lasciare San Francisco per trasferirmi a Los Angeles.
Ormai era da quando avevo 5 anni che io e mio padre ci spostavamo di città in città in base al suo lavoro.
"Ho fatto di tutto per rimandare il trasferimento all'anno prossimo per permetterti di fare l'ultimo anno di liceo a San Francisco ma purtroppo questo è un caso importante e tirarmi indietro sarebbe stato troppo rischioso" cercò di giustificarsi mentre teneva gli occhi fissi sulla strada. Saremmo arrivati da un momento all'altro.
Mio padre era stato un Marine, e ora era il vice direttore della National Security Branch. Ciò comportava vari spostamenti in vari sedi dell'FBI. E comportava anche da parte mia omettere nei miei discorsi con gente estranea tutto ciò che mi raccontava o che ascoltavo in casa. Da anni ormai avevo capito che mio padre amava solo tre cose nella vita: me, mia madre e il Bureau. Mia madre però era venuta a mancare il giorno della mia nascita, o almeno così mi era stato raccontato da mio padre e da sua sorella, zia Annie. Avevo sempre fatto domande e loro spesso mi avevano risposto che con il tempo avrei saputo come funzionavano davvero i parti e che c'erano molti rischi.
Non avevo mai visto foto, e non mi ero mai ribellata.

"Arrivati!" esclamò mio padre slacciandosi la cintura di sicurezza. Saltò giù dalla jeep e i suoi anfibi scricchiolarono sui sampietrini del marciapiede davanti alla casa che avevamo comprato pochi mesi prima.
In foto sembrava più piccola. Mi decisi a scendere e ad aiutare papà a prendere gli ultimi scatoloni che avevamo caricato in auto.
"Lydia non devi portarne due, puoi fare due viaggi" scherzò lui mentre cercavo di portare più scatoloni possibili.
"La forza l'ho ereditata da te" risposi ancheggiando mentre tentavo di non far cadere nulla.
La casa era circondata da un piccolo giardino con qualche piantina qui e lì. Un albero faceva ombra sul lato sinistro e a malapena superava il tetto. La casa era in mattoni rossi e le finestre bianche. Sembrava una scuola inglese, quelle che si vedono sulle copertine delle brouchure pubblicitarie.
Entrai seguendo mio padre e un odore di vernice mi invase le narici.
"Dobbiamo aprire tutte le finestre, la scorsa volta che sono venuto qui per ritinteggiare poi sono dovuto correre via per lavoro." Mi spiegò.
Annuii, posai a terra gli scatoloni e andai ad aprire tutte le finestre di tutte le stanze.
Sull'entrata si estendeva un piccolo salottino con una porta finestra che apriva sul retro del giardino. Sul lato sinistro c'era la cucina, bianca e verde, nulla di che, adatta per ospitare una famiglia, ma purtroppo avrebbe ospitato solo due persone.
Lo studio di papà era molto piccolo rispetto a quello della vecchia casa. Aveva deciso di lasciare a me la stanza più grande.
Salii le scale mentre sentivo mio padre che iniziava a tagliare lo scotch che avevamo usato per chiudere tutti gli imballaggi.
Vi erano quattro stanze.
Quella di papà era in fondo al corridoio, abbastanza spaziosa per un letto, un armadio e una piccola scrivania con un televisore.
C'era poi un bagno e una stanza degli ospiti.
Sulla sinistra, lontano dalle scale c'era invece la mia di stanza.
Aprii la porta. Era bianca e rosa. Un letto di una piazza e mezza era sul lato destro, e di fronte vi era un armadio e una scrivania abbastanza spaziosa dove c'erano già i miei nuovi libri per la mia nuova scuola. Aprii la porta finestra e mi affacciai al balcone. Un venticello caldo mi accarezzò i miei capelli castani e cercai di non provare malinconia per ciò che avevo vissuto nella mia vecchia città.
Iniziare da capo, ancora e ancora, risultava sempre difficile.
Non avevo mai avuto una vera amica, un gruppo con cui uscire, andare alle feste, e non mi ero mai davvero innamorata.
Mi chiedevo come sarebbero stati i miei nuovi compagni di scuola e cosa avrebbero pensato di me.
"Hai visto il tuo bagno?"
Sussultai sentendo la voce di mio padre. Ero immersa nei miei pensieri e non lo avevo sentito arrivare.
"Quale bagno?" Chiesi curiosa.
Mi indicò una porta che non avevo notato perché non mi ero davvero guardata attorno.
Rientrai nella mia stanza chiudendo la porta finestra e aprii la porta indicata da papà.
"Un bagno in camera?" risi.
"Così non dobbiamo litigare la mattina, sai la tua voce è molto fastidiosa" mi prese in giro e risi anche io perché non potevo dargli torto.
"Che ne dici di farti una bella doccia e di andare a comprare qualcosa da cucinare per stasera? Magari fai due passi e inizi ad ambientarti".
Annuii alla sua proposta e lui uscì dalla stanza.

Qualche ora dopo ero pulita, profumata e pronta per uscire. Avevo indossato un paio di shorts comodi e una canotta fresca. Essendo settembre faceva ancora abbastanza caldo, perciò decisi di legare i capelli in una coda alta e mettere un paio di occhiali da sole. Presi una borsa e il mio portafoglio.
"Papà allora esco!" Gridai scendendo le scale.
Mio padre apparve dal suo studio con dei fogli in mano "va bene, non allontanarti troppo mi raccomando, compra del latte e della frutta, scegli tu la cena"
"Non ti va una pizza?" Proposi.
Mio padre sembrò rifletterci su, e poi annuii.
Sembrava abbastanza giovane per i suoi 48 anni. A parte qualche ruga attorno agli occhi e la cicatrice che portava sul collo e su gran parte della schiena, la sua pelle sembrava quella di un trentenne. Aveva lo stesso mio colore di capelli, ma i suoi occhi erano azzurri, mentre i miei castani. Spesso mi piaceva pensare di somigliare alla mamma, per poterla immaginare meglio.
Presi le chiavi di casa e uscii all'aria aperta.
La mia strada era piena di case simili alla mia, le auto sfrecciavano sull'asfalto di fianco al marciapiede. Non avevo intenzione di prendere un taxi o un autobus e quindi mi incamminai verso un minimarket che trovai sulle mappe del cellulare.
Dopo dieci minuti arrivai a destinazione, entrai e subito l'aria condizionata mi avvolse.
Iniziai a cercare il latte e qualcosa per la colazione. Mi spostai poi nel reparto frutta e presi qualsiasi cosa mi sembrasse abbastanza matura.
Girai l'angolo di uno scaffale per andare a prendere la pasta ma improvvisamente urtai contro qualcosa di duro.
Neanche il tempo di pensarci mi ritrovai a terra con un dolore lancinante sul didietro e pacchi di pasta ovunque.
"Stà più attenta!" gridò una voce.
Solo allora alzai gli occhi e notai un ragazzo in piedi davanti a me.
"Io più attenta? Tu piuttosto!" Esclamai di rimando.
Cercai di alzarmi evitando di fare altri danni.
Il ragazzo di fronte a me era chiaramente arrabbiato, ma io lo ero di più.
"Guarda cosa hai combinato, prega che non sia da buttare tutta questa merce"
"Potrei benissimo pagarla, ma sei stato tu a venirmi addosso" mi giustificai raccogliendo ciò che era caduto. Mentre raccoglievo anche il ragazzo si abbassò per prendere i pacchi di pasta e per la prima volta mi guardò negli occhi.
"Ah capisco, sei una figlia di papà"
"E tu sei un arrogante"
Rise e io mi innervosii ancora di più.
"Una principessina viziata piena di soldi che vuol fare la predica a me... assurdo" disse alzandosi di scatto e sistemando il cibo sugli scaffali.
Solo allora notai che indossava una maglia con il logo del minimarket e che lavorava lì.
La sua pelle era abbronzata e i suoi capelli castani scuro gli incorniciavano il viso squadrato. Aveva dei lineamenti duri, e un livido sulla guancia destra.
Era molto più alto di me, quasi più di venti centimetri. Se non fosse stato per quello sguardo da ragazzo di diciotto-venti anni avrei giurato che fosse un agente federale. Era molto simile ai colleghi di mio padre, ma da come si comportava capii benissimo che faceva parte di un altro mondo.
Una volta presa la mia pasta mi diressi alla cassa, evitando di incontrarlo ancora in quel piccolo negozio.
Alla cassa vi era una donna, doveva essere abbastanza giovane perché quando sorrise quasi nessuna ruga le si formò sul viso.
Sul cartellino della maglia, diversamente dal ragazzo incontrato poco prima, aveva scritto il suo nome con un pennarello nero "TALIA WARD."
"Paghi in contanti o carta?" Mi chiese distrattamente mentre passava la mia spesa e pigiava i numeri su uno schermo.
"Carta" risposi.
Una volta uscita dal piccolo supermercato mi diressi a casa, sperando che gli altri miei coetanei di Los Angeles non fossero tutti così scontrosi come quel ragazzo.

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