CAPITOLO VII

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Dopo la doccia, alle 18.30 era già in reception ad aspettare Joshua che stava sistemando le ultime cose prima di smontare il turno.

Ne approfittai per sfogliare qualche guida turistica e farmi un'idea su cosa fare nei giorni successivi; non avevo programmi troppo rigidi, avevo deciso di farmi trasportare dal momento e, dentro di me, confidavo in qualche dritta dal mio nuovo angelo custode conosciuto quel giorno.

«Allora Andrew, sei pronto?»

«Ovviamente, visto che puntualità? Non è da me sappilo» risposi.

«Conosci un po' Helsinki?» mi chiese.

«I miei nonni stanno a Tampere, ma ho girato per la città già diverse volte»

«Tampere?» mi domandò scrutandomi con sorpresa.

Effettivamente, il colorito olivastro della mia pelle suggerisce ben altre origini, cosa che effettivamente corrisponde alla realtà: mi definisco italo-brasiliano, eppure lo sono solo per l'anagrafe dato che fin dai primissimi mesi di vita ho vissuto in Italia, quando i miei genitori mi adottarono che ero ancora in fasce.

Non conosco una parola di portoghese, né sono mai tornato a Rio Branco, la mia città natale; tutto ciò che so del Brasile lo devo ai documentari, a Google e alle vecchie foto scattate dai miei genitori nel '92.

Mia madre è per metà finlandese, da parte di mia nonna, anche se di fatto può essere considerata italiana, l'unica eredità delle terre del ghiaccio sono i suoi occhi azzurri e i capelli biondi, tipico cliché scandinavo.

Per questo motivo non ero affatto sorpreso dallo sguardo inquisitorio di Joshua che, dal canto suo, aveva una storia altrettanto intricata e il suo aspetto aveva ingannato anche me durante il nostro primo incontro.

«Ti devo spiegare anche io un paio di cose amico mio» gli dissi ridendo «ma prima andiamo in questo posto, che sto morendo di fame, come hai detto che si chiama?»

«Non te l'ho detto! Sarà una sorpresa» mi disse con tono misterioso.

«Ok, mi fido, basta che non sia roba etnica che non ho nessuna voglia di passare la mia prima serata a Helsinki nei bagni dell'ostello» scherzai.

«Tranquillo bro, è un locale speciale»

Di sera faceva ancora più freddo, il termometro segnava 0 gradi ma a me sembravano molti meno; sono una di quelle persone che quando vanno a sciare iniziano a congelarsi ancora prima di infilare gli scarponi e preferiscono girare con mille strati appena il calendario segna la fine dell'estate. Il freddo non fa parte del mio DNA, eppure questo uscire dalla mia comfort-zone mi dava fiducia.

Lo vedevo come un percorso necessario, anteporre la sfida alle sicurezze cui ero abituato, e comunque si parlava sempre di 0 gradi, mica dei -50 di certe zone della Russia.

«Credevo ci fosse meno gente in giro la sera» dissi a Joshua camminando frettolosamente per scaldare le gambe.

«Scherzi? Vedrai ora, bisogna andare nei posti giusti, meno turistici» mi rispose Joshua ammiccando.

«Eccoci qui»

Ci trovavamo all'esterno di un gigantesco edificio post-moderno, con murales sui vetri e una gigantesca pista da skateboard che si anteponeva all'ingresso.

La struttura non si sviluppava in altezza, era una specie di cubo azzurro ricoperto di graffiti e bandiere di ogni nazione, c'era anche quella del Nepal, riconoscibile per la sua particolare forma triangolare.

Nonostante l'ora, c'era già parecchia gente che si accingeva ad entrare, e qualche skater che approfittava della pista libera per provare qualche trick illuminato dalle torce degli smartphone.

Iperbole, la nascita di una canzoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora