CAPITOLO IV

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L'alba arrivò, come un ladro che entra di soppiatto in un appartamento, più fredda e dolorosa che mai.

Mi sentivo come un pugile che aveva appena preso un gancio destro: me ne stavo lì sul letto, a fissare la finestra consapevole di quanto sarebbe stata dura preparare le valigie e lasciare tutto alle spalle.

«Non è successo niente Andrea, era l'alcol a parlare» continuavo a ripetermi, quasi a convincermi di una verità a cui nemmeno io credevo troppo. Perché se da un lato non facevo che pensare a quel bacio, fugace, rubato e senza spiegazione, dall'altro non potevo non fantasticare sulla grande libertà che mi ero appena guadagnato.

Una libertà che potevo pagare a caro prezzo ma che mi sarebbe servita come lasciapassare per la mia felicità futura.

La felicità, ci ostiniamo così tanto a trovarla che alla fine perdiamo di vista tutto ciò che di bello ci capita nella sua ricerca, vivendo nella continua speranza che il premio alla fine sarà sempre più grande del presente.

Non sono mai stato un grande conoscitore della filosofia orientale, delle pratiche di meditazione o di religioni come buddismo ed induismo. Eppure ammetto che nella loro complessità, la semplice formula del "qui ed ora" è quanto di più vero possano rivelarci le tecniche di meditazione tramandate da secoli nelle regioni più sperdute dell'Asia.

Perdiamo la rotta quando non viviamo più "qui ed ora", facendoci imprigionare da pensieri dannosi che ci allontanano dai nostri obiettivi, che non sono una meta, sono parte del percorso che ci scegliamo. Tutto parte dalle nostre scelte, anche gli errori come spesso mi ricordavo.

E stavo commettendo un errore a tergiversare sul mio futuro? Ad ancorarmi nelle mie certezze anche se non mi regalavano nulla di più di un mondo che conoscevo già? Dove tutto è prevedibile, programmato e va di fretta, come le persone alla stazione di Bologna.

«Il treno!» esclamai sobbalzando dal letto, si erano fatte già le 9 ed io dovevo ancora prepararmi la valigia per tornare a casa.

«Chissà se riesco a far stare tutto in una valigia» pensai mentre mi infilavo l'ultima maglietta pulita rimasta nel fondo del cassetto.

Ed era vera, il mio disordine mi impediva di programmare con certezza ciò che mi sarebbe servito per sopravvivere al freddo autunno scandinavo, certo quel che mi mancava avrei potuto comprarlo lì o prendere qualche maglione in prestito da mio nonno, ma sentivo il bisogno di aver qualcosa di mio che mi facesse sentire ancora a casa in qualche modo.

È buffo pensare come certi oggetti mi abbiano sempre evocato una naturale tranquillità in momenti complicati; era il caso ad esempio dia vecchia felpa con un indiano cucito nella parte centrale, ora sgualcito e senza quei colori sgargianti che lo contraddistinguevano anni prima, con un cappuccio troppo largo per chiunque.

La comprai anni fa in California, in un piccolo negozio di Santa Monica, gestito da una famiglia boliviana, al cui interno presentava una enorme quantità di oggetti della più svariata natura: un arco indios con le frecce, copricapi, tamburi in pelle, collane, bracciali, coperte, amache, t-shirt e questa felpa.

Doveva essere l'ultima perché la taglia che presi era grande anche per me, anche se il giallo, il blu e l'arancione dell'indiano cucito a mano sul petto mi convinsero a prenderla ugualmente senza esitare.

Il ricordo di quell'esperienza ogni volta che indossavo quella felpa in casa nelle serate invernali era sempre vivido, così come l'idea di pace e tranquillità che mi trasmetteva quell'oggetto ovunque io fossi.

Quella felpa era lì, appoggiata a una sedia della mia camera che mi fissava, scucita ma ancora vogliosa di vivere nuove storie da raccontare, forse più di me allora.

Iniziai a fare ordine fra le mie cose e in poco tempo riuscii a comporre una valigia decente, finché mi soffermai sulla mia Fender, compagna inseparabile da tempo e ingiustamente abbandonata da mesi.

Cosa potevo fare? Certo avrei avuto qualche difficoltà a viaggiare con quel peso oltre allo zaino che, una volta arrivato a casa, mi sarei portato.

Certo, perché da quella valigia avrei dovuto fare ulteriori dolorose scelte, come quelle che a un certo punto devono fare gli accumulatori seriali prima di buttare la famosa "spazzatura".

Ma la musica era una parte fondamentale del mio viaggio, era il fuoco che mi doveva bruciare dentro e darmi la motivazione per continuare, per conoscere e scoprire. Non potevo fare a meno della chitarra.

Mi ero quasi deciso a sacrificare qualche comodità in più di spostamento e qualche soldo in più per l'imbarco, finché mi venne in mente un'idea.

«Una chitarra è una chitarra, in tutto il mondo» pensavo «prenderò a buon prezzo qualche chitarra usata man mano che mi sposterò».

E così feci, la mia amata Fender Sonoran California Series rimase nel mio appartamento a Bologna, finché non sarei tornato qualche giorno dopo con la mia auto per svuotarlo definitivamente.

Sì, perché avevo solo la mia vecchia Vespa lì con me, portata con un corriere mesi prima e ora avrebbe dovuto fare il percorso inverso, anche se mi sarebbe piaciuto portarla personalmente a casa e godermi un altro po' di spensieratezza, come la sera prima.

La sera prima, non riuscivo a togliermi di mente quei pochi istanti in cui il mio bellissimo progetto è apparso volatilizzarsi, sparire, per perdersi nei bassifondi dell'etere.

Una spiegazione me la ero data, abbastanza razionale anche se non del tutto convincente: gli affetti per me sono sempre stati importanti, ma erano anche un limite sotto certi aspetti, un limite alle ambizioni personali e all'autorealizzazione. È un pensiero davvero egoistico, lo ammetto, ma contiene una verità che in pochi sono in grado di ammettere.

Perché è difficile trovare una persona con cui condividere un percorso che, alla fine, ti metterà davanti a delle scelte, anche dolorose, sicuramente difficili e lì, in quel momento, noi decideremo se giocare il nostro destino sul rosso o il nero di quella straordinaria roulette che è la vita.

Eppure l'uomo, animale sociale, è portato a cercarlo questo qualcuno, quasi spinto da quel "Wille zum Leben" di schopenhaueriana memoria, un moto perpetuo e costante verso la volontà dividere, condividendo questa condanna con quella che sarà la propria anima gemella.

Il mio idealismo si è spesso trovato a scontrarsi con questa teoria latente in molti uomini, prediligendo un più cauto approccio "realista", in cui emerge tutta la razionalità di un individuo che, pur guidato dalla sua razionalità, non sopprime le proprie passioni.

E così ero io, alla costante ricerca di un equilibrio fra la mia razionalità e le mie passioni, molto spesso venivo sovrastato dalla prima, cadendo nell'abisso della monotonia. Quante cose rischiavo di perdermi.

Eppure il bacio della sera precedente non riuscivo a collocarlo in nessuna delle due: era frutto della mia razionalità, che mi ancorava a un mondo che conoscevo e che mi stava offrendo delle opportunità, oppure derivava dalla passione, che mi spingeva in un'avventura rischiosa e con alte possibilità di farsi male?

Una risposta non ce l'avevo, ero di nuovo a quel punto in cui ogni mia scelta poteva ritorcersi contro di me, rischiando di tenermi ancora una volta bloccato.

Tutto era ormai pronto, quindi decisi di schiarirmi le idee in terrazzo, accendendomi l'ultima sigaretta della mia avventura bolognese. La signora Cavalieri non c'era, probabilmente era uscita, così rimasi a fissare quel viale che ogni mattina percorrevo, nella speranza di svoltare prima o poi.

«Ora o mai più» dissi deciso.

E fu così che uscii di casa, dirigendomi verso la fermata dell'autobus che mi avrebbe portato alla stazione.

Iperbole, la nascita di una canzoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora