CAPITOLO II

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Vi capita mai di pensare che possa esistere un tasto "reset" in grado di farvi ripartire dall'inizio? Riportandovi esattamente al preciso istante in cui la vostra vita ha iniziato a plasmarvi in quel tipo di persona che, da piccoli, vi sareste detti «ma questo non voglio essere io». Ecco, quello era esattamente ciò che mi ripetevo da giorni.

Avevo 24 anni, una vita davanti e tanti errori da rimediare, sempre che di errori si potesse parlare. C'è una sottile differenza fra errore e scelta sbagliata, penso che agli errori ci sia sempre rimedio, o almeno, quasi sempre. Alle scelte sbagliate no.

Una scelta sbagliata implica necessariamente un processo di elaborazione, seppur minimo, del pensiero, finché questo non viene in qualche modo assimilato dal nostro inconscio.

Un errore nasce dall'istinto, ed è quasi sempre figlio della fretta e delle circostanze esterne e molto spesso viene riconosciuto in un tempo minimo, quanto basta per "connettere" i neuroni in modo corretto.

Ero arrivato al punto da non distinguere più gli errori dalle scelte sbagliate, fino a dove potevo ancora rimediare? E fino a che punto ero implicato in un circolo vizioso dal quale non vi era uscita?

Mi stavo accendendo l'ultima sigaretta prima di andare a dormire, fissavo dalla terrazza il camion dei rifiuti svuotare gli ultimi bidoni del viale.

Il vento soffiava fra i pioppi, aria della sera non era più mite come qualche settimana fa; io ero in maglietta e iniziavo ad aver freddo, stavo per rientrare quando la signora Cavalieri si affacciò dal balcone.

«Buonasera Andrea, com'è andato il colloquio?» cinguettò.

Aveva un'aria mite, mista alla malinconia data dall'età e la solitudine, eppure in fondo agli occhi brillava sempre una luce, che traspariva nonostante le spesse lenti degli occhiali, portati al bordo del naso.

Doveva avermi sentito, perché indossava uno scialle blu per ripararsi dal vento della sera.

«Molto bene» mentii «le dirò nei prossimi giorni, al momento non vorrei sbilanciarmi troppo».

Mi sorrise, forse aveva capito lei prima di me cosa mi sarebbe successo, ma non disse nulla.

«E allora teniamo le dita incrociate! Buonanotte caro, e non fumare così tanto che fa male» ridacchiò.

La salutai, spensi la sigaretta e rientrai, non avevo nessuna voglia di prendermi qualche malanno. Il mio appartamento era buio, solo la luce fioca dei lampioni di via San Luca illuminava un po' la sala.

La mia chitarra abbandonata in un angolo mi ricordava che era da un po' che non suonavo qualcosa, probabilmente avrei dovuto anche cambiare le corde ormai ossidate, ma ero troppo pigro per farlo in quei giorni.

Erano state settimane impegnative quelle del rientro dalle vacanze, le ore passate al pc erano raddoppiate per rispettare le scadenze di articoli troppo noiosi per essere letti anche da me. Stavo perdendo l'efficacia, e non parlo di quella suggerita dal direttore del Digiteller, parlo di quell'autenticità che mi ha sempre contraddistinto come scrittore prima e giornalista poi.

La noia e la ripetitività di una routine tossica mi stava distruggendo, sia internamente che esternamente. Fumavo sempre di più per concentrarmi meglio, i caffè per tenermi sveglio avevano sostituito l'acqua e da giorni mangiavo solo cibo spazzatura o pizza per asporto.

I rapporti sociali erano quasi azzerati, Carla, una ragazza livornese che avevo conosciuto in un pub del centro, era stata la mia ultima uscita, quasi due mesi fa. Quando decisi di prendermi una pausa per andare a trovare i miei nonni in Finlandia quest'estate, al mio ritorno non si fece più sentire. Forse perché per due settimane non le avevo mandato nemmeno un messaggio, oppure perché fra di noi non era scattata nessuna scintilla, era solo sesso, niente più.

Iperbole, la nascita di una canzoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora