Capitolo 10

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C'è una crepa in ogni cosa,
è da lì, che entra la luce.

L.Cohen.

MALAKAY

La pioggia sbatte furiosa sulle lamiere, il suo rumore riempie il silenzio della stanza, mescolandosi al fragore delle pentole, al lieve scoppiettio dei bracieri della cucina.
Faccio perdere lo sguardo oltre il vetro lineato della finestra, tra stralci di scotch scuro che ricoprono crepe, soffocano spifferi d'aria.

«Hai portato le uova alla signora Salliv?» il timbro ruvido di mia madre mi graffia i timpani, facendomi sollevare lo sguardo su di lei, stagliata tra i mestoli appesi e la penombra dell'alba.

«Sì» esalo lentamente, abbassando lo sguardo sulla tazza ricolma di tè stretta tra le dita. «I soldi li ho messi sulla sedia» aggiungo atono, contraendo  le spalle percorse da un brivido gelido. Oggi fa davvero freddo, ho i piedi congelati e il naso che continua a colare di umidità.

«Quando smette di piovere, vai all'emporio  a vendere la gallina che abbiamo ucciso ieri» ordina perentoria, indossando un kway nero che le arriva alle caviglie. I capelli biondi le rimangono incastrati dentro il colletto, ma lei non li tira via, si limita ad  alzare pigramente il cappuccio sulla testa.

«Va bene» sussurro, con il timbro trafelato dal sonno.

Lei mi osserva con sufficienza, incamminandosi verso l'uscita. «Vado a lavoro, quando tornano i tuoi fratelli, fagli trovare il brodo di pollo pronto» sentenzia sul ciglio della porta trovata chissà dove e messa lì, insieme agli altri pezzi che compongono queste quattro pareti. Un mosaico di scarti, rottami che non vuole più nessuno.

«Sì mamma» farfuglio incolore.

«Dopo che finisci di fare colazione, vai anche dalla cagna e dille che oggi deve pulire tutto il pollaio» sputa fuori, con la voce imperlata di disprezzo che cozza all'istante sul mio stomaco. Odio quando la chiama così, ma dirglielo sarebbe inutile; parlarle non porterebbe a nulla, non è mai servito a niente.

Annuisco flebile, abbassando gli occhi sul pezzo di pane brustolito, poggiato accanto al mio polso che si indurisce all'istante. I nervi guizzano, si intagliano tra le vene bluastre che risaltano sulla mia pelle troppo pallida .

«Malakay» mi richiama duramente, calamitando le mie pupille che timorose si legano alle sue, «Non portarle niente che non le serva!» aggiunge acre, spingendomi i suoi occhi severi addosso, quegli occhi così uguali ai miei. Iridi segnate da una stanchezza grondante, circondate  da pelle violacea che fa risaltare il loro colore chiaro, spento.

«Certo mamma» gracchio, portando la ceramica sbeccata alle labbra. Con fatica, mando giù un sorso di tè che resta bloccato tra le clavicole, come un macigno arpionato ai dedali dei nervi. Un ultimo sguardo che sento premere addosso, bisognoso di imprimermi a fuoco le sue disposizioni; e poi solo il rumore del legno che sbatte, unendosi al boato del cielo. Tuoni squarciano il ticchettio armonioso della pioggia, fanno tremare le lamiere, ma io non ho paura, perché le urla delle nuvole mi sono sempre piaciute.

Aspetto qualche minuto, il tempo necessario per farla allontanare, percorrere il viale pieno di sterpaglia. In uno scatto, mi isso dalla sedia e conservo il pane dentro un tovagliolo di stoffa in un gesto automatico, compiuto troppe volte. Nervosamente, prendo tutto quello che mi serve e corro fuori, ci metto pochi minuti.

Scendo le scale di pietra, venendo colpito dalla pioggia che mi crolla lungo il viso, appiccicandomi i capelli biondi alle tempie. Le scarpe di tela si impregnano d'acqua ad ogni passo, che mi porta dinanzi alla baracca di tavole e foglie essiccate di palme. L'odore di terra bagnata è così forte da sentirlo impiastrarmi la gola, le narici umide. La mano libera spinge a fatica la porta creata da mio fratello con la rete metallica di un letto e un telone blu. Mi in filo nella piccola fessura, smuovendo le pinne secche intrise d'acqua. Una volta dentro, con un colpo deciso di tallone la richiudo.

Tu sei velenoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora