Capitolo 1

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27 Dicembre 2016, Berlino, ore 17:15


Berlino è una città strana. E' questo quello che penso mentre per la prima volta nella mia vita mi aggiro da sola per le strade di una grande città. E' una città che grida alla libertà, mi sembra di sentire vibrare la sua anima steampunk dietro i muri scrostati, di vederla uscire alla luce sui graffiti colorati, aggressivi. E allo stesso tempo ci sono i grattacieli moderni di Potsdamer Platz, i monumenti imponenti che ricordano un antico splendore, i quartieri tranquilli e puliti.

E ogni volta che risalgo alla luce del sole dai cunicoli della metro mi sembra di capitare in un mondo diverso.

Ma non faccio fatica ad adattarmi, anzi no, non ho bisogno di adattarmi. Mi sento un fantasma, un essere etereo che viene da un'altra dimensione, che è lì per vedere come vivono gli umani. Mi godo solo il piacere di camminare, cercando di resistere al freddo pungente, di osservare il mondo attorno a me senza esserne troppo coinvolta.

Poi, verso sera, dopo aver dato un'ultima occhiata a uno dei tanti mercatini di Natale, ritorno a casa ripercorrendo Unter den Linden. Una pioggia fine ha cominciato a cadere dal cielo e le spirali di luce attorno agli alberi del viale sembrano ancora più brillanti, mi colpiscono gli occhi insieme alla pioggia e rimpiango di non avere un ombrello.

Esco dalla metro alla fermata di Hermannstrasse e cammino verso quella che è ormai la mia casa per i prossimi dieci giorni. Tutto mi sembra estraneo, dalle persone che incontro per strada alle scritte nei negozi in quella lingua che non conosco e che suona dura alle mie orecchie. Eppure già sto prendendo confidenza; so che tra qualche giorno conoscerò quel tragitto a memoria, forse mi sentirò più a casa. Per il momento cerco di osservare, di non fare troppo caso alla strada sporca, ai materassi e a qualsiasi altro genere di cose riversate giusto di fianco al marciapiede.

Arrivo a casa, salgo le scale e come apro la porta vedo subito qualcosa di estraneo: uno zaino rosso.

Giro la testa verso la cucina e incontro lo sguardo di un ragazzo. Per qualche secondo non capisco,ci fissiamo imbarazzati, poi mi ricordo giusto il giorno prima quando ero arrivata...

26 Dicembre 2016, Berlino

Il cuore mi batteva nel petto mentre percorrevo quella strada per la prima volta. Avevo paura di perdermi- e non era una possibilità tanto improbabile - avevo paura che lui non arrivasse, che sarei rimasta sola lì, senza sapere bene dove andare. Cercavo di ripetermi che tutto sarebbe andato come previsto: scendere a Hermannstrasse, andare dritto, prendere la terza a destra e camminare quasi fino alla fine della via, arrivare al numero 55,cercare il suo nome, suonare e aspettare. Semplice.

Eppure ad ogni passo mi sentivo il cuore in gola, la mia mente era talmente affollata di pensieri che non avrebbero potuto entrarne altri, troppo occupata a considerare tutte le cose che avrebbero potuto andare storte. Lo sapevo: in fondo non era razionale. Avevo già fatto tutta quella strada, preso quell'aereo da sola, attraversato una città sconosciuta. Ma era in quel momento che sentivo la resa dei conti, il momento in cui avrei dovuto incontrarlo. Mi avrebbe riconosciuta? Cosa avrebbe detto? Si sarebbe ricordato? Cercavo di immaginare gli scenari possibili, a dire il vero forse di più quelli impossibili.

I numeri civici erano sempre più vicini a quello giusto: 50, 52, 54. Ecco, 55. Ho visto la porta di legno verniciato di verde, il numero ben visibile. Ho attraversato la strada.

Il mio cuore mi batteva ancora più forte in gola, così tanto da ammutolire i miei pensieri mentre cercavo il suo cognome tra tutti quelli presenti. Non lo vedevo. Ho cominciato ad andare nel panico , ma mi sono costretta a ricontrollare un'altra volta. Fortunatamente l'ho visto, scritto a penna marrone, mezzo sbiadito: Jonas Schuhler. Ho suonato il campanello. Un'attesa che mi è parsa interminabile mentre il cuore mi batteva ancora più forte e oscurava qualsiasi pensiero razionale. Nulla, nessuna risposta. Ho suonato ancora e proprio in quel momento ho gettato il mio sguardo verso la strada e l'ho visto. Inconfondibile; i riccioli che gli spuntavano dal berretto, i vestiti larghi dai colori spenti, lo zaino enorme sulle spalle da cui spuntava la custodia nera di un sassofono.

 - Grazie per essere arrivata in orario -  mi ha detto, dopo avermi rivolto un sorriso e un breve abbraccio per salutarmi. - Sai, devo scappare a lavoro - , ha aggiunto aprendo la porta d'ingresso.

L'ho seguito lungo il corridoio, ho afferrato la valigia per portarla su per le scale, ma lui mi ha fermata.  - Lascia a me -  si è proposto, prendendola e portandola con lui.

Non ero abituata a salire tanti piani di scale e a quanto pareva quel palazzo era privo di ascensore, il che mi ha fatto sentire tutta la stanchezza del viaggio.

«Potrebbe essere un po' caotico», mi ha avvertito non appena giunto di fronte a una delle tante porte di legno, contrassegnata da un adesivo blu con la scritta "refugees welcome".

Appena sono entrata in casa, mi sono subito accorta che aveva ragione: montagne di vestiti erano accatastate sugli attaccapanni dell'ingresso, tra cui cose piuttosto bizzarre - una parrucca blu, un frack, un cappello a cilindro. Il lavello era traboccante di stoviglie da lavare, altri vestiti fuoriuscivano dalla lavatrice.

Mi ha condotto nella sua camera angusta: un letto matrimoniale, un divano in pelle, una piccola scrivania, una libreria e talmente tante cose inutili che mi sono chiesta come potessero starci tutte quante lì dentro.

- Dalla cucina puoi mangiare tutto quello che vuoi -  mi ha suggerito, aprendo i vari scomparti della dispensa. 

- Stai solo attenta alla cioccolata.

L'ho guardato con aria perplessa. - La cioccolata?

Ha aperto il frigo e ne ha estratto uno yogurt. - Sì, sai, io e i miei amici lo fondiamo e lo mischiamo con l'haschish -  ha confessato come se fosse la cosa più normale del mondo.

Si è messo a mangiare lo yogurt, la schiena contro il ripiano della cucina, gli occhi persi nelle formule di matematica sulla lavagna di fronte a lui. Non si è nemmeno tolto il giubbotto di pelle e il berretto. - Come hai passato questi mesi? - gli ho chiesto.

- Niente di che, lavoro e matematica,la solita routine che mi annoia a morte.

Non ho dubitato neanche per un secondo di quello che aveva appena detto: una persona come lui, con la vita bizzarra che conduce, non poteva trovarsi a suo agio nella normale routine.

- E tu? - si è deciso finalmente a chiedermi.

- Io'  lo sai, mi sono trasferita in Francia - 

- E com'è? -  ha continuato a domandare, senza staccare gli occhi dalla lavagna.

- Non dovrei dirtelo, dovrebbe stare a te venire a scoprirlo.

Lui non ha risposto. Ha finito di mangiare il suo yogurt ed ha esordito con un: - ora devo andare.

E' fuggito in camera per prendere la borsa a tracolla, mi ha salutata con un abbraccio veloce ed è uscito quasi sbattendo la porta.

Io sono così rimasta sola lì, nel suo appartamento caotico.


NdA: Vi lascio questo primo capitolo, dove cominciamo già a conoscere un po' Jonas. Spero vi sia piaciuto, anche se è solo l'inizio!  In alto ho inserito l'immagine di Unter den Linden, a Berlino, per dare un'idea dell'ambientazione a chi non è mai stato. A presto con il secondo capitolo! 

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