Capitolo 5

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Mi sveglio la mattina. La luce di un cielo meno grigio del solito mi punge gli occhi. Istintivamente mi giro. Jonas non è più li di fianco a me e io non l'ho nemmeno sentito uscire dal letto.

Guardo l'ora: sono le nove del mattino. Mi domando come mai si sia alzato presto; forse un tentativo di evitare il confronto, di non parlare di come sia possibile che siamo finiti a letto insieme. Ancora.

Anche io dovrei evitare di pensarci, ma non è facile quando mi sveglio nel suo letto, senza vestiti e le immagini della notte mi scorrono una dietro l'altra.

Decido di uscire dal letto, vestirmi, così da eliminare almeno il primo dei problemi.

Vado in cucina, mi preparo velocemente un tè che bevo accompagnato da un dolcetto al cioccolato.

Nel frattempo anche Jakob esce dalla camera. Ha i capelli scompigliati e gli occhi socchiusi. - Guten Morgen - lo saluto, sfoderando una delle poche parole che conosco in tedesco.

- Morgen - ricambia - mi sembri allegra stamattina - aggiunge in inglese.

Sul suo viso spunta un sorriso malizioso.

- Giusto un po'- rispondo.

- Dormito bene? - domanda ancora, preparandosi un tè. Il sorriso malizioso non se n'è ancora andato.

- Non ho dormito tanto, ma ho dormito bene.

Questa volta non si trattiene e si lascia andare a una leggera risata. - Posso immaginare.

Non dico altro, cercando di arrestare quel susseguirsi di battute implicite riguardo gli avvenimenti di quella notte: sappiamo entrambi cosa sia successo visto che Jonas non è tornato a dormire nella sua stanza.

Il suo tè è pronto. Prende la tazza e si dirige verso camera sua. - Non darci troppo peso - dice con un sorriso d'incoraggiamento giusto prima di uscire dalla cucina.

- A chi? A cosa? - chiedo, ma lui è già arrivato in camera e chiuso la porta.

Mi preparo con calma, sapendo che ho tutta la giornata davanti a me per esplorare. Fra l'altro il tempo non è troppo brutto, magari almeno per oggi non rischio di congelarmi.

Esco di casa abbastanza serena ed in effetti, come avevo sperato, non fa troppo freddo. Cammino lungo la via che comincio a sentire un po' più familiare: non faccio quasi più caso ai materassi riversi lungo il bordo del marciapiede.

Arrivo alla fermata della metro e prendo il primo treno per andare a visitare Checkpoint Charlie, giusto perché è l'attrazione più vicina e voglio riservare il resto per i giorni seguenti insieme a Martina ed Anna.

Appena giunta in superficie mi rendo conto che è uno di quei posti presi d'assalto da turisti di ogni nazionalità che si divertono a fare almeno mille fotografie con ognuno dei probabilmente numerosi compagni di viaggio, per poi fermarsi a comprare un souvenir standardizzato pensando di avere in mano la cosa più unica e caratteristica del posto. Come al solito, non mi sento molto a mio agio in luoghi del genere: mi sento vulnerabile, timorosa che qualcuno possa cercare di ingannarmi, avvicinarsi nel tentativo di spillarmi qualche soldo, come un pollo che attende il suo momento per essere spennato.

Perciò, cercando di farmi spazio nella folla, arrivo il più vicino possibile alla piccola casetta bianca controllata dai sue finti soldati americani.

Do un'occhiata, faccio giusto una o due foto e mi allontano ancora, facendomi spazio e uscendo dalla folla.

Prendo un grande respiro, godendomi l'aria che si respira fuori dalla ressa e comincio a camminare senza una direzione precisa.

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