Mio fratello ha avuto paura
che strano,
la cura lo so io qual è
Ricordi, ricordi, ricordi, ricordi
Ricordi che fanno paura
Febbraio 2014.
Certe cose le si ha nel sangue.
Conficco i denti nel labbro inferiore e afferro il bicchiere di vetro che era ancora nel lavandino, in attesa di essere lavato. Mi dirigo ad ampie falcate alla finestra, la spalanco e lo scaravento in mezzo al cortile. Non prendo la mira, perché forse non voglio.
"Pazza!" urla Luke, dopo che il rumore del vetro che si infrange bruscamente risuona tra le mura grigie che ci circondano.
Luke mi guarda, sputa a terra e riprende a camminare. Lo vedo finché non sbuca sul marciapiede, poi me ne ritorno con la testa dentro casa.
Siamo al quinto piano di uno dei tanti palazzi affollati del sobborgo di Brookvale. Qui le ville non ci sono ma, ovunque guardi, trovi solo un'infinità di edifici ammassati. Sono quelli di colore grigio macchiato, o beige sbiadito, coi muri ricoperti di crepe, dai quali si affacciano file continue di finestre minuscole.
Riconosci, quelli come noi. Ci riconosci dal modo deciso ma lento di camminare, dal modo strascicato ma non intimorito di parlare, dal modo di osservare, con una tale impassibilità da far credere a tutti di aver già visto ogni cosa, di ogni tipo. Perché noi, queste caratteristiche, ce le abbiamo nel sangue.
I denti mi battono per il freddo, ma le mani mi tremano per la rabbia. Sono viola, quasi prive di circolazione e so che, se Luke fosse ancora qua, lo riempirei di schiaffi.
Poi la maniglia si abbassa e la porta si apre. Vedo prima un ciuffo biondo, poi Luke scavalca la soglia e si ferma. Ha le braccia che gli ricadono sui fianchi e gli occhi che cercano i miei. Ha lo stesso azzurro acceso del mio e io so che, se mi guarderà in quel modo per altri secondi, inizierò a piangere. Si smuove da quella posizione, fa esattamente quattro passi e, prima che il mio cuore inizi a dar di matto, mi circonda con le sue braccia, molto più protettive e muscolose delle mie. Sento di non aver più freddo.
"Scusami" mi dice sottovoce, ed io odio quando fa così, perché la sua voce diventa mascolina e sommessa, e mi rendo conto che diciassette anni non sono più tredici, e diciassette sono troppi da controllare. "Devo solo uscire con Calum e poi andiamo al Block. Non farò tardi."
Mi stampa un bacio in fronte e posso sentire il suo piercing premere contro la mia pelle.
"Fammi vedere cos'hai in tasca, allora" pretendo e lui mi asseconda.
Infila le mani nelle tasche, tenendo i suoi occhi incastrati nei miei e mi porge un cellulare e un pacchetto di Marlboro. Ha l'espressione seria e in questi casi non posso fare niente. Così sbuffo. "Vai, ma non tornare tardi. Domani dobbiamo alzarci presto, non penso che faremo una bella figura presentandoci in ritardo in quella scuola. Non facciamoci riconoscere anche in queste circostanze."
Luke alza gli occhi al cielo e, prima di uscire un'altra volta di casa, riapre bocca.
"Non ci voglio andare in una scuola a spese di un mafioso" afferma, impassibile.
Se ne esce, sbatte la porta ed io sento un peso nel petto.
Non facciamoci riconoscere, mi rimbomba nella testa. Ma Luke non lo capirà mai, questo mio desiderio di scappare da quello che siamo destinati ad essere. Io sono forte, lui no. Io posso farcela, lui no. Ma non andrei mai da nessuna parte senza lui.
Mio padre, un mafioso, era e lo sarà sempre. Ma non mi voglio far più condizionare da questo. Voglio andare a scuola, avere degli amici, vivere una vita normale.
Io, Hepsie Hemmings, voglio essere ciò che mi merito.
La sveglia mi suona alle 7:30. Apro piano gli occhi, ma la luce mi acceca ugualmente.
Segno che Luke è già sveglio.
Mi tiro su e lo vedo in piedi, di fianco al suo armadio, intento ad infilarsi un paio di jeans stretto. Illuminato dalla fioca luce che penetra dal vetro rotto della finestra, mio fratello mi sembra bellissimo. Il petto nudo con esposte cicatrici innumerevoli, lividi bluastri, scottature e tatuaggi lo fa apparire vissuto.
Mi piace pensare di assomigliargli un po'. Mi dicono sempre di avere i suoi stessi occhi, le sue stesse espressioni, i suoi modi di fare, e questo lo so. Eppure, io non sono vissuta. Non lo sono per niente. La mia pelle è liscia, e sul mio corpo non c'è alcun segno. Io sono pura, Luke no. Lo so perché la notte lo sento arrivare e, mentre lo scruto nel buio, li vedo, quei succhiotti sul collo.
Mi piacerebbe sapere a chi si è concesso, questa notte. Ma probabilmente non avrò mai il coraggio di risultare così apprensiva. Così mi alzo, gli stampo un bacio sulla guancia, al quale lui risponde con un "Buongiorno", con quella voce roca che io odio tanto.
Mi preparo in un quarto d'ora, cercando di farmi bella. Vorrei essere come Luke, vorrei esser bella senza neanche impegnarmi. Scendo le cinque rampe di scale, e mi fermo ad aspettare Luke davanti al portone. Lui arriva dopo alcuni minuti, ed io nel frattempo mi prendo il freddo gelido di Brookvale. Ha l'aria distratta e il viso serio, perché so che non vorrebbe darla vinta a mio padre e vivere a spese sue.
Faccio finta di niente.
Luke si accende una sigaretta, e ci dirigiamo verso la scuola privata della città.
Arriviamo lì dopo pochi passi e la struttura mi sembra grande quanto il mio palazzo. Il che è davvero assurdo. Non osservo tutti i dettagli perché, se sono in questa scuola, è solo grazie ai soldi di mio padre. E i suoi non sono altro che vite spezzate a causa del piacere di possedere sempre più denaro. Chiudo gli occhi e cerco di dimenticare.
Entro nel parcheggio con a fianco Luke, che si guarda spaesato intorno.
"Quanti borghesotti e raccomandati" lo sento commentare.
Noi, invece, siamo il degrado di Sydney. Ma Luke non lo sembra affatto, coi suoi jeans stretti e neri, le sue canottiere enormi e larghe, e le sue felpe dei suoi cantanti preferiti.
"Stai zitto" gli dico, e lui alza le spalle.
Sento la campanella suonare, proprio quando sto attraversando la soglia d'entrata. Gli studenti, prima di passare avanti, mi dedicano sguardi interrogativi, critici e curiosi. Perché io non sono come loro, che sono tutti coordinati, con un passo deciso e ordinato, i vestiti abbinati e l'aria felice. Io sono solo me stessa.
Mi dirigo in segreteria, trascinando con me anche Luke e "Salve" cerco di attirare l'attenzione della signora dietro al bancone.
Questa mi fa segno con la mano di aspettare, ed io mi giro ad osservare l'interno della scuola: è davvero enorme, con quattro scale che portano al piano di sopra e quattro che portano al piano di sotto. Ne ha tre, di piani. Non oso immaginare la quantità di studenti che la frequentano.
"Buongiorno signorina" richiama la mia attenzione la stessa donna di prima, che adesso ha smesso di scrivere.
Io e Luke la guardiamo. "Avremmo bisogno dei nostri corsi."
"Cognome?"
"Hemmings."
Lei inizia a prendere e metter via delle cartelle, ad osservare dei fogli e, solo dopo svariati minuti, ci porge due fogli.
"Ecco a voi, buone lezioni e benvenuti" ci augura con un sorriso.
Luke ricambia il sorriso, io no. Do uno sguardo ai fogli che ci ha consegnato e mi accorgo di non avere le stesse lezioni di Luke. Cerco di calmare la mia voglia di urlare e poggio i fogli sul bancone. La signora mi guarda ancora con quel sorriso e "C'è qualche problema?" mi domanda.
"Sì. Io e mio fratello abbiamo ore e lezioni diverse."
"E il problema quale sarebbe?"
"Questo."
Lei osserva prima me, poi Luke. Ha una faccia visibilmente confusa ed io mi sto irritando.
"Ha capito?" la sprono a rispondere, alzando di un'ottava il tono.
"Ho capito, ma non si può di certo far qualcosa."
"Beh, invece deve far qualcosa perché io e mio fratello dobbiamo stare in classe insieme."
Luke mi si avvicina di più, mi prende il braccio e mi allontana. Solo ora mi accorgo di aver urlato e che attorno a me gli studenti si sono fermati e mi stanno puntando gli occhi addosso.
"Calmati, Hep" mi dice Luke, perché lui è debole e non sa imporre proprio un cazzo.
Butto i fogli a terra, scosto il braccio dalla sua presa e me ne vado. Ma, proprio mentre sto uscendo dalla folla che mi si era radunata attorno, lo vedo.
Un ragazzo, sicuramente più alto di me ma meno di Luke, dai capelli mossi e biondi, sta ridendo. Sta ridendo di me, e la sua risata è la cosa più irritante che possa esistere al mondo. Acuta, forte, spinta, quasi femminile.
Lo guardo. Lui smette il suo teatro che consisteva nel battere le mani, abbassare il collo ed esplodere dalle risate e ricambia il mio sguardo.
"Hai finito?" gli chiedo, retoricamente e con l'acido nelle parole.
Sulla sua faccia si dipinge un ghigno e "Abbiamo una nuova mafiosetta a scuola" afferma.
Il ronzio che si era creato cessa. Io mi sento il cuore sbattere contro la gabbia toracica forte come la sera in cui mio padre ruppe il braccio a Luke, e so che questa non è affatto una cosa positiva. Il petto mi si alza ed abbassa velocemente, e sento il mio corpo infuocato.
Vedo Luke di fianco a me e so che non vorrebbe vedere ciò che sto per fare. Mi avvicino al ragazzo ed alzo decisa il braccio, ed ho la mano rigida che si sarebbe schiantata contro la sua guancia se solo lui non avesse fermato il mio schiaffo, stringendomi forte il polso, ancora alzato.
Lo fisso negli occhi, che sono di un verde oliva mischiato all'ambra. Io questo colore non l'ho mai visto in nessuno nel mio palazzo, nella mia via, nel mio sobborgo. Sono luccicanti, acquosi, rari, ipnotizzanti. Questa tonalità non esiste nel degrado. So che questo ragazzo potrebbe rubare tutto ciò che sono solo guardandomi con quell'ambra.
Ora inizia a farmi male, percepisco le ossa che scricchiolano. Poi Luke mi si avvicina e "Ora basta!" ordina, staccando la mano del ragazzo dal mio polso.
Mi faccio più indietro, e Luke e quello stronzo mi guardano. Mi fanno male, queste tonalità di colori. Questi occhi lucidi, così giusti e mai visti, mi fanno male perché capisco che io non sarò mai come loro e non sarò mai un pezzo di un qualcosa che non sia il degrado.
Mi tremano le mani e questo vuol dire che non c'è rimedio alla mia rabbia. Così me ne vado, con ancora il ghigno di quel ragazzo stampato in testa.
Torno a casa perché non posso fuggire da ciò che sono e ciò che sono destinata ed obbligata ad essere.
Alcune cose le si ha nel sangue.
Luke rincasa dopo un'ora. Sento il suo passo strascicato attraversare il salotto e vorrei solo che camminasse più deciso, perché sono proprio i passi che eseguiva nostro padre. Lui non si impegna nemmeno a scappare dal suo stesso sangue, a lui non importa, non ha voglia di lottare. Lo vedo dal divano mentre si toglie la felpa e la maglia e butta tutto sul tavolo. Si osserva un po', poi sputa, senza neanche farci caso, nel lavandino. Lo fa quando è incazzato.
"Dici tanto di non volerti far riconoscere e poi fai di tutto per restare sulle orme di nostro padre" mi rinfaccia, con un tono calmo, dall'altra stanza.
Io non rispondo perché ha ragione.
Poi mi passa davanti, non degnandomi di alcuno sguardo.
Siamo gemelli, ma quando fa così mi sento la persona più diversa da lui. L'ho ferito, comportandomi così, e nemmeno ci ho pensato.
Siamo così, io e lui: di pietra e vetro.
Quella sera, Luke era tornato a casa alle quattro di notte. Io l'avevo aspettato sveglia, analizzando ogni rumore. Ma i palazzi di questo sobborgo sono troppo movimentati, troppo urlanti, per riuscire ad isolare i passi di mio fratello. Siamo tutti uguali, qui.
Poi la serratura era scattata e Luke, come ogni notte, era tornato in camera. Io avevo chiuso gli occhi, presa dall'orgoglio, perché non volevo che sapesse della mia notte insonne. Avevo sentito il suo piercing premere contro la mia fronte, si era spogliato e si era sdraiato sul letto.
Questo è ciò che successe, ma anche quello che accadde per tutta la settimana. Ha iniziato a parlarmi di meno, e non so se il motivo sia quella piccola discussione avvenuta sette giorni fa. Non mi guarda più in faccia, ed io non so più il colore dei miei occhi. Io non posso sopportare che Luke diventi qualcosa che non sia me.
Qualcuno suona il citofono ed io spero solo che non siano i carabinieri che mi svelino ciò che Luke sta facendo a mia insaputa. Mi affaccio alla finestra e vedo Calum, quel suo amico d'infanzia con cui non ho mai parlato.
"Può scendere Luke?" grida dal cortile per farsi sentire.
"Non c'è" gli rispondo, nascondendo tutta la mia preoccupazione.
Lui abbassa la testa, io la alzo. Lui se ne va, io prego Dio che mi dia la forza di restare.
Quel lunedì, mi sveglio con l'intento di andare a scuola. Cammino al buio nella camera e mi preparo in bagno. Faccio tutto in religioso silenzio, perché Luke è di là che dorme profondamente. Probabilmente è in quel letto da nemmeno due ore.
Resto lì, davanti allo specchio, e mi accorgo di vedere solo me stessa, e non più anche Luke. Mi sciacquo la faccia due, tre volte. E quella sensazione non va via. Esco dal bagno sbattendo la porta e, proprio quando sto prendendo lo zaino, dalla stanza esce Luke.
Mi guarda, mentre si gratta il fianco, con gli occhi socchiusi e stanchi. Un paio di boxer è tutto ciò che ricopre quel corpo che è testimone delle sere di mio fratello, che riporta ogni graffio e segno.
"Hep, dove vai?" mi domanda, con quella voce che non lo lascerà più.
Io non rispondo e gli esamino il taglio che ha al petto.
"Non mi fa male" mi dice lui, seguendo il tragitto del mio sguardo.
Faccio un cenno con la testa, che non so neanche io cosa voglia significare, e me ne esco di casa. Per ogni rampa che faccio, sento il cuore farmi male. Sono fuori dal cortile, quando penso di volermene tornare da Luke. Mi fermo.
Io ci vorrei tornare da te, Luke. Ma il colore dei tuoi occhi è un azzurro diverso dal mio, ora.
Così mi allontano definitivamente e cammino, cammino fino a quando non vedo quella che adesso è la mia scuola.
L'aria che respiro è più leggera, rispetto a quella della mia via. E' tutto nuovo, giusto, mai visto. Resto appoggiata al muro della struttura, aspettando la campanella, che suona dopo qualche minuto.
"Ehi, ma lei è quella..." sento dire quando passo di fianco alla segreteria.
Faccio finta di niente e, dopo aver tirato fuori il foglio con gli orari, mi accorgo di avere storia alla prima ora. Sbuffo, perché storia è la materia più noiosa al mondo.
Salgo le scale, alla ricerca della mia classe. Mi guardo intorno, rendendomi conto della grandezza di questo posto, e capisco che non arriverò mai in tempo di questo passo. Così mi avvicino ad una bidella, che sembra piuttosto occupata a gridare dietro a qualcuno.
"Mi scusi" la chiamo, e lei si gira e si ferma per qualche secondo a guardarmi. "Sa dirmi dov'è la 4C?"
La donna congiunge le sopracciglia e, sempre con quella smorfia, "Sta lui in quella classe, fatti accompagnare da questo disgraziato, così almeno evita di sporcare il pavimento che ho appena lavato!" sbraita, indicandomi qualcuno.
E io lo guardo anche, quel qualcuno. Ha il viola e il nero mischiato tra i capelli, la pelle che definirla pallida sarebbe sminuente, e gli occhi, risaltati dalla matita, in cui verde e azzurro fanno a gara per dominare. E mi passa per la testa che questo qualcuno abbia anche una bella bocca.
"Michael Clifford" mi dice, porgendomi la mano.
Michael Clifford risalta.
"Hepsie Hemmings."
Gli stringo la mano e mi immergo in quello stravagante colore.
"Ah, ma tu sei la tipa tosta che ha provato a dare uno schiaffo ad Irwin!" trilla, guardandomi con un misto di stupore e divertimento. "Penso se la sia legata al dito. Sarà anche il mio migliore amico, ma è proprio fuori di testa" aggiunge e la bidella, dopo essersi lasciata sfuggire un commento di approvazione, se ne va.
A me, quel cognome dice qualcosa. Però non dico niente, faccio segno con la mano di lasciar perdere, perché di quell'Irwin non voglio sapere niente, e "Andiamo in classe, ché forse è meglio" consiglio.
Michael si passa una mano tra i capelli, annuisce e mi fa strada.
La 4C è una classe come tutte le altre. Fogli e cartelloni attaccati al muro, banchi sparsi in uno stato confusionale, lavagna con scritte tralasciate dalle bidelle... Ed io mi sento semplicemente stretta.
Michael entra prima di me, io lo seguo e, non appena metto piede dentro, venticinque paia di occhi si posano su di me. Me ne frego. Perché io sono di pietra, e la pietra non ammette emozioni.
"Buongiorno" mi limito a dire, passando davanti alla cattedra della professoressa di storia.
Quest'ultima distoglie per un secondo gli occhi dal registro, mi sorride e "Benvenuta" mi saluta.
Mi siedo in un banco a caso e, con mio grande stupore, Michael prende posto di fianco a me. Posa lo zaino sul banco, scivola sulla sedia, assumendo una posizione più comoda e, dopo aver tirato su il cappuccio, incrocia le braccia al petto. Chiude gli occhi ed io lo esamino sbalordita.
Questo Clifford è buffo e mi intriga. Mi dà l'idea di uno che faccia un po' ciò che gli pare, ma è anche innocuo.
La professoressa si alza, dà un'occhiata a Michael, alza gli occhi al cielo e inizia la sua lezione. Io, nel frattempo, mi becco gli sguardi incuriositi dei miei nuovi compagni. Allora mi viene in mente che sarebbe tutto più facile fare come Michael e dormire, per non affrontare così direttamente il mondo. Penso anche a Luke, che mi sta poco a poco martoriando.
Lui è il vetro: è fragile e basta cadere, per rompersi. E quando si rompe, le sue schegge fanno male, e lui nemmeno se ne accorge.
L'ora di storia passa. Così come passa quella di matematica, di storia dell'arte e di chimica. Seguendo gli orari che mi erano stati consegnati una settimana fa, la mia giornata scolastica finisce qua. La campanella suona e tutti i miei compagni si affrettano ad uscire dall'aula per non perdere il pullman.
Michael è ancora qui, seduto, ed io non so se stia ancora dormendo o no. Sto per scuoterlo con la mano, quando una voce irrompe nella classe, ormai silenziosa.
"Ci penso io" afferma, deciso.
Mi giro di scatto, e un po' il cuore fa qualche battito in più. Quello che vedo è il ragazzo dell'altro giorno, che ho capito chiamarsi Irwin. Mi stringo nelle spalle, perché non mi importa realmente. Mi metto lo zaino in spalla ed esco, passando di fianco a lui.
Ma io lo sento, quel bisbiglio.
Mi volto un'altra volta.
"Ripetilo" gli ordino, fredda.
Lui sorride e so che lo farà. "Malafemmina" sputa con una cattiveria che non capisco.
Rimango ferma lì, in mezzo al corridoio, ad osservare quel verde ambra dei suoi occhi. La mano mi prude e l'unica cosa che ora vorrei fare è fargli del male fisico, per stabilizzare il mio mentale.
Michael si sveglia.
Penso alle parole di Luke e controllo me stessa. Così me ne vado, fuggendo un'altra volta da ciò che sono.
"Scappa, scappa come fa quel latitante di tuo padre!"
E qua mi blocco, e i miei passi si interrompono. Ci guardiamo, in silenzio, e mi sembra che tutto si sia improvvisamente sospeso. Non so se dar per scontato che sia vero, oppure se negare ciò che ha detto e farlo passare per assurdo.
"Merda" sussurra poi. "Non avrei dovuto."
Io sto lì, con le palpitazioni e le lacrime agli occhi, a fare i conti con chi sono.
Questo Irwin sa della latitanza di mio padre. Questo Irwin, quindi, sa.
Io voglio solo sapere quanto dista da me quell'uomo che ha il mio stesso sangue, o con che nome va in giro adesso. Così risalgo le scale, cammino verso lo sconosciuto e "Dov'è?" gli chiedo, fredda e impassibile.
E sta semplicemente zitto, mentre non stacca gli occhi dai miei. Sento il mio azzurro consumarsi.
"Ne fai parte?" gli domando ancora.
Sul suo viso si forma un sorriso di scherno, che dura massimo due secondi, perché poi si trasforma in una maschera seria. E' un attimo: infila la mano nella tasca, cerca qualcosa, ed una punta in metallo si intravede dal tessuto in jeans.
"Ashton, non fare il coglione" interviene Michael, che lo affianca.
Ha un coltellino, che ripone immediatamente al suo posto. Faccio lo stesso un passo indietro, perché questo ragazzo è pericoloso più di quanto pensassi. Guardo sconcertata Michael, e lui scuote la testa, come a dire che è un caso perso.
"Stai lontana da questa questione" mi intima Ashton.
Lo oso guardare un'ultima volta. Poi torno a casa, e scopro un nuovo colore del degrado: il verde oliva mischiato all'ambra.Hei people!
Ho aggiornato presto perché in realtà non avevo niente da fare. Si sente che la scuola è finita.
Con questo capitolo vi ho introdotto Ashton e Michael, che dire che sono strani fa un po' ridere. Ma questa è solo una piccola parte della loro vita. E quello che avete letto, è il lento distacco che sta avvenendo tra Hep e Luke. Che per me è davvero triste. Ma ok, andando avanti a leggere la storia potrete affezionarvi a loro, o almeno spero.
Penso che aggiornerò ogni martedì e per ora vi ringrazio per aver letto il prologo!
Nali :)
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Di pietra e vetro
FanfictionHepsie e Luke Hemmings sono due gemelli, legati da un rapporto unico, figli di un latitante. Hepsie è pura, forte, di pietra. Luke è vissuto, fragile, di vetro. Ma qualcosa non va, ultimamente. Perché Luke, la notte, torna tardi, e l'azzurro dei su...