Schegge di vetro

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Auguri, L.
La vera ragione di questa storia.
+19


E' mattino. Lo capisco dalla chiara luce che penetra dalla finestra, dal continuo canto degli uccelli. Ashton è al centro della camera, sembra preso da una fretta assurda, si infila i pantaloni di una tuta grigia, cercando di rimanere in equilibrio. Poi si ferma, mi regala uno sguardo, giusto per accorgersi del mio risveglio.
"Sta arrivando tuo fratello" mi informa, entrando in una canottiera nera ed attillata. "E' tempo di vendetta" annuncia, per poi uscire dalla stanza.
Io mi rivesto, cancellando ogni segno che appartenga sia a me, sia ad Ashton. Luke è lì cinque minuti dopo. Ha un grande borsone in spalla, un paio di jeans neri ed attillati, abbinati ad una semplice maglietta, coperta in parte da una giacca in jeans, entrambe dello stesso colore. 
"Hep" mi saluta subito, circondandomi con quelle braccia che diventano giorno dopo giorno sempre più potenti. "Stai bene?"
"Sì, e tu?"
Mi osserva, alla ricerca di qualche traccia persa nella notte. Ma non ne trova. "Sì, anche io."
Mi posa un bacio sulla fronte e va a prendersi un bicchiere d'acqua, segno che questa sta diventando anche la sua casa. 
"Ehi, Luke. Tutto bene l'allenamento di ieri?" entra in scena Ashton, sceso dalle scale del secondo piano.
"Sì, sì. Ce le siamo date di santa ragione" ironizza.
Ashton ascolta, ma nel frattempo mi lascia sguardi fuggitivi, forse un po' complici, per vedere se la verità di quella notte resterà ancora per molto tra noi. 
"Bene. Io ho un piano" comincia, poggiando la mano su una porta, mantenendo il peso.
"Sentiamo."
"Potremmo fare un'imboscata." Luke lo guarda, e la tensione cresce quando "Ma c'entra anche lei" ammicca. 
Mio fratello rimane lì, fermo, inerme, col suo bicchiere in mano. I suoi occhi cristallini passano da me ad Ashton, con un ritmo pauroso. 
"Lo sappiamo tutti che quegli stronzi hanno il controllo della città. Sappiamo anche quali zone sorvegliano, sappiamo che i loro occhi sono sempre puntati su Jhon Fisher Park. Potremmo farla restare lì poco, davvero il giusto per far sì che si accorgano di lei. Ormai è scontato che la vogliano. Noi saremo lì, non lasceremo e non lascerò che le facciano del male. So quant'è importante per te, so-"
"Ashton, è tutto ciò che mi rimane" lo ferma Luke, con un tono serio, che non ammette niente di niente.
"Cazzo, so anche questo. Ma lì interverremo noi, con tutti i ragazzi della palestra. Lo vuoi vendicare, Calum?"
Ci pensa su, elabora ciò che ha in testa, punta gli occhi in basso, li rialza. "Sì."


Ho sentito gente che diceva che la paura è un'intensa emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o supposto. Nel mio caso, il pericolo è reale, è vivo, è proprio davanti a me. Luke ci prova, a farmi capire che si può avere paura insieme.
"Non ti farò far del male. Ti vengo a prendere, Hep. Ok?"
Ok, Luke. Ti aspetto, l'ho sempre fatto. Sei tu che non aspetti me da un po' di tempo, e forse ora le cose si stanno ribaltando. Te lo faccio vendicare, Calum. Solo, ti prego, aspettami. Aspettiamoci, una volta tanto.
Attraversiamo Old Pittwater Road a fari spenti, con un camioncino rubato due anni fa da Ashton. Michael sembra il più calmo di tutti. Luke è un unico fascio di nervi, che mi tiene la mano e non vuole lasciarmi più. Ha paura, anche lui. Ha paura perché tutto ciò che gli rimane sono io.
Ashton, invece, guida piano, per passare più inosservato. Scendiamo di fianco al parco, non sono ammessi rumori, nemmeno parole: tutto è già stabilito. Luke mi guarda un'ultima volta, prima di inoltrarsi nel parco. Ashton mi sfiora impercettibilmente la mano e se ne va, seguendo Luke. Inizio a camminare, squarciando il silenzioso buio della notte, sentendo il resto dei ragazzi nascondersi. E' questione di minuti, ed una luce si sofferma su di me: mi hanno intercettata. 
Non fermarti, qualsiasi cosa dovesse succedere, mi ha detto Ashton. Allora continuo, passo dopo passo, e il battito del mio cuore accelera secondo dopo secondo. Mi è chiaro, dopo, il rumore delle suole a contatto col terreno, proveniente da sinistra. Sono qui. E sono tre i secondi che passano, prima che si scateni il tutto. Riesco solo ad individuare due uomini, e il mio braccio viene tirato dalla mano di Michael per farmi fuggire. I ragazzi escono allo scoperto, mentre io corro, corro verso il furgone, fino a non sentirmi più le gambe. Si sente il rumore di tre colpi, tutti partiti da una pistola semiautomatica. E' quella di Luke, ed è questo che mi basta sapere per ritornare a respirare regolarmente. 
Quella sera, Luke uccise due uomini. Tornò da me, abbracciandomi, sporco di colpa, macchiando anche me. L'avevo aspettato, mi aveva aspettata.
In bocca aveva il sapore della vendetta.

Sono passati alcuni giorni. Più di cinque, meno di dieci, da quei colpi di pistola. Tra di noi non si è più detta nessuna parola, riguardo quella sera. Anche Brookvale sembra taciturna: sono stati spesi non più di due minuti al telegiornale dell'altra sera per parlare dell'uccisione. La mafia di Ashton - anche se a lui non piace chiamarla così - agisce in silenzio.
Oggi, che non è poi un giorno diverso dagli altri, ci troviamo nella solita palestra. Dopo cinque ore di scuola, ci siamo diretti qui, ed è da più o meno un'ora e mezza che Ashton controlla i ragazzi e Luke. Urla, urla come un matto, si incazza coi colpi deboli. Luke gira attorno al sacco, scarica tutta la sua rabbia addosso ad esso. I suoi muscoli si flettono, chissà per quanto resisteranno a quell'immane sforzo, ed Ashton pretende sempre di più.
"Attacca di destro! Uccidilo!" e gli gira intorno, lo osserva, lo sprona.
Io sto seduta, con la schiena appoggiata al muro, cercando di studiare gli appunti di storia. 
"Basta! Giù, venti flessioni!" 
Luke obbedisce e si abbassa al suolo freddo e sudicio. Fa otto flessioni. Alla nona si ferma, e il corpo si scontra col pavimento. Ha il respiro pesante e lento.
"Beh? Cosa mi significa questo?" chiede Ashton, alterato.
Luke si alza lentamente, si posa una mano sul petto e "Devo vomitare" avvisa, per poi correre negli spogliatoi. Io mi alzo da terra, raggiungendo Ashton.
"Continui così e lo ammazzi" comincio io.
Lui sta zitto, mentre si posa un asciugamano sulla spalla e raccoglie le sue cose. Si dirige verso la porta dello spogliatoio, la apre di poco e "Cambiati pure, andiamo a casa" avverte Luke. Poi torna da me. 
"Grazie" gli dico.
"Penso che dovremmo dirglielo, comunque" cambia discorso.
"Dirgli che cosa?"
"Di questo" risponde Ashton, indicando se stesso e me. E' prepotente, pensa di non far male a nessuno.
Io fingo che niente mi possa toccare. Ed anche lui, forse, crede di non farmi del male. Perché io non glielo mostro. Ma Ashton è uno di quei ragazzi che agisce senza pensare, che ha l'aggettivo stronzo cucito sulla pelle. E' odioso, perché la si può solo odiare, una persona così.
"Come vuoi" gli dico io, fingendomi indifferente.
Purtroppo lo puoi odiare solo se non sei me. Perché io ed Ashton siamo troppo uguali, e lui per me è una sfida. Non posso snidarlo da me stessa, non posso sostituire la sua faccia con una qualsiasi faccia. 
Quando Luke è pronto, saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la casa di Ashton. 
Sembrava una solita giornata. E lo sembra fin quando non intravediamo una Ford nera davanti all'abitazione. Parcheggiata per metà su quel ristretto marciapiede, quella macchina pare aspettare solo noi. Ashton rallenta e si ferma, continuando ad esaminare la vettura.
"E' tornato" sussurra a se stesso.
E scende, sbattendo la portiera. La pioggia che cade di traverso, gelida, sembra tagliargli il viso. In pochi secondi i suoi vestiti si fanno più pesanti e scuri, ma a lui non importa. Un uomo gli si avvicina e, andando contro ogni morale, Ashton lo abbraccia. Lo abbraccia come si abbraccia una persona che si può perdere ogni giorno, una persona che parte e non si sa più se tornerà, una persona che è tornata e non si vuole più lasciare. Come si abbraccia un padre tornato dal carcere.
Luke mi guarda, come a dire l'hai visto anche tu? e non riesce a credere. 
"Scendiamo" propongo io.
In pochi attimi anche io mi ritrovo sotto la pioggia tagliente ed Ashton è ancora tra le braccia di suo padre. E poi le vedo, quelle lacrime che gli accarezzano le guance e scendono prepotenti fino al mento. Ashton non piange mai. 
Lacrime ed acqua sono diverse, lo si sa. Ma anche quelle della mafia, lo sono. Sono quelle più visibili, quelle più rare, quelle che sanno di dolore, orgoglio, pentimenti. Ashton sembra piangere il sangue di tutte le persone uccise.
Ma ha aspettato suo padre, questo conta.
Abbiamo tutti una persona che ci aspetta.

"Hepsie" mi presento, quando siamo entrati in casa.
"Daryl" mi stringe la mano, ha una presa salda. 
E' un uomo che avrà una quarantina di anni, ben piazzato, che porta ogni segno della mafia. La stessa mano che ha stretto la mia, potrebbe aver stretto il collo di una persona, fino ad impedirne la respirazione. Deglutisco. Mi guarda, quasi come se avesse capito ciò che sto pensando, e scopro lo stesso colore dell'ambra di Ashton, forse con meno verde. Ma ha anche lui quel senso di riconoscimento del confine. 
Anche Luke si presenta e, nel frattempo, dedico uno sguardo di sfuggita ad Ashton. Mi avvicino, gli sfioro la mano: siamo ancora nascosti al mondo. Ha paura di ciò che gli accade attorno, perché non è abituato a vivere situazioni non programmate. E' ritornato suo padre, è arrivata una possibilità di tornare a vivere.
Poi Daryl si siede sul divano, Luke lo imita.
Sei da tanto fuori dalla porta? Sì. Bene, beh, mi dispiace. Sei uscito da tanto dalla gattabuia? No, tre ore. Ok. Sì. La situazione è questa. E non c'è tensione, solo domande improvvisate.
"Ashton... Ho collaborato con la giustizia, un'altra volta."
Ashton lo guarda negli occhi, mentre parla. 
"Ma ho mentito. Ho mentito per te. Perché è ora che tu ne esca fuori, da tutto questo. Ho sentito di quello che hai fatto l'altra sera, gliene hai uccisi due. Hai fatto una totale stronzata, lo sai, ma ora non ti cercheranno più. Ho testimoniato a favore loro, ho ritirato gran parte delle cose dette in precedenza."
Ashton vorrebbe sorridere, vorrebbe fare qualsiasi cosa che non sia stare inerme. Ma ha questo peso sui ripiegamenti della bocca che non lo possono far sorridere. Però ha l'animo più leggero, glielo si legge in faccia. 
A me viene da abbracciarlo, e lo faccio. E' un pezzo di ghiaccio, il suo corpo, a contatto col mio.
"Come ti senti? Felice?" gli chiedo, sussurrando, facendo sì che nessuno possa sentire.
"Non lo so. Strano."


Il mattino dopo, a scuola, Ashton è un'altra persona. Non ha più ossessioni, non si sente più in dovere di continuare a guardarsi le spalle. Lascia anche più libertà a me.
Non ci sono più paure.
Forse sì, ma solo una, solo mia. Si chiama Luke. Il suo passare gli occhi su me e due secondi dopo su Ashton mette i brividi. Capisco le sue perplessità, le si trovano nel suo disperdersi, nel suo battito di ciglia impercettibile, nei suoi attimi di silenzio prima di parlare. Luke pensa. Lo fa in silenzio, ma io me ne accorgo. Io mi accorgo di tutto.
Sono sovrappensiero, mentre cammino per il corridoio sotterraneo della scuola, che collega gli spogliatoi alla palestra. Ho rinunciato ad educazione fisica anche oggi, probabilmente per sfuggire una volta di più a Luke. Dallo spogliatoio femminile esce una figura. Mi bastano altri due passi per riconoscerla.
"Ashton?" 
La mia voce rimbomba tra le mura. Sul suo volto c'è un'espressione di compiacimento, che io non riesco a decifrare.
"Piccola."
Piccola.
Ormai sono davanti a lui. "Che ci fai qua? Dovresti smetterla di saltare le lezioni."
Lo sorpasso, entrando nello spogliatoio per cambiarmi più in fretta degli altri mentre restano in palestra. Mi siedo sulla panca, sotto lo sguardo vigilante di Ashton, che mi si avvicina. Ha quello sguardo da strafottente che mantiene spesso dal primo giorno in cui l'ho visto, ed io non lo sopporto. Gli spaccherei la faccia.
"Senti, se devi fare il coglione, avvertimi" affermo, cercando la mia maglia di ricambio.
"Hep, ricordi quando ti ho detto di informare Luke di noi?" Alzo un sopracciglio. "Io sì. E ricordo anche la tua risposta."
"Non ho cambiato idea."
"Potresti, però." E, detto questo, alza un braccio, prima nascosto, e mi mostra la mia stramaledetta maglia.
Mi alzo di scatto, per tentare di strappargliela di mano, ma Ashton ha già un programma. Ed io sono nella sua trappola. Mi blocca il polso, senza farmi troppo male, e posa le sue labbra sulle mie. Io mi stacco, tentando un'altra volta di prendere la maglia. Fallisco ancora, ed Ashton si riappropria delle mie labbra. Indietreggia, spingendo il mio corpo sempre più vicino al muro, fino a quando la mia schiena non incontra la superficie gelida. Dà una tregua al mio respiro, scendendo a baciarmi il collo. 
"Stai giocando sporco" lo accuso, sentendo sempre più mancanza di aria.
Ashton ride. "Lo so" mi dice, mentre la sua lingua a contatto con la mia pelle mi provoca brividi per tutto il corpo. 
Poi il suo palmo della mano preme contro il muro, sostenendo il peso, e la mia maglia, tanto bramata, non interessa più a nessuno dei due. La sua altezza mi sovrasta e, invece che sentirmi piccola, mi sento semplicemente protetta. E' strano l'effetto che Ashton mi fa.
"Ok, ok. Glielo diciamo" sbotto alla fine, quando la sua mano era ormai scesa sul mio fianco. 
Ashton mi passa la maglia, con un sorriso bastardo in volto.
"Sei uno stronzo."
"Lo sei anche tu. Vieni qua, vieni qua." E mi cattura in un abbraccio, per poi lasciarmi un bacio tra i capelli. 
"Sai cosa, Ashton? Dovresti chiudere la palestra. Basta, ora hai la possibilità di ricominciare" gli dico ciò che penso, lasciandomi abbracciare.
Lui non risponde, lasciando nell'aria solo il suo profumo.
La campanella suona.
"Potresti farlo per me, per Luke. Potresti salvare mio fratello da ciò che l'hai fatto diventare. Potresti salvare te stesso." 
Ashton mi dà un ultimo bacio e, quando si allontana dalle mie labbra, "Solo se adesso, appena esce dalla palestra, gli diciamo la verità, cosa siamo io e te" decreta. 
"E cosa siamo, io e te?"
"Non lo so, ma sento che ti darei la vita. Davvero, così, su due piedi, se uno dei due dovesse morire, mi offrirei io."
Nello spogliatoio entrano alcune ragazze. Ci guardano, corrugano la fronte. Ma non lo possono sentire, questo povero organo che tenta di bucare il petto. Ed Ashton è un bastardo, capace di far battere così forte il cuore di una stronza. 
Ci vuole coraggio a far rivivere una morta come me.
Usciamo dallo spogliatoio, mano nella mano, andando in controcorrente agli studenti. Solo io lo so com'è il rumore delle schegge di vetro che cadono a terra, e il dolore che provocano quando ti si conficcano sotto pelle. Luke non si deve rompere. Non può, ma Ashton non lo sa.
E Luke è ormai di fronte a noi, sta parlando con un suo compagno di classe. Sta sorridendo per metà. E' sudato, dopo l'ora di educazione fisica e non si accorge di niente. 
"Luke." è Ashton a chiamarlo. 
Mio fratello si gira, la sua espressione tramuta. 
Fissa me, poi Ashton. Ed infine le nostre mani, che sono unite. Gli studenti rientrano negli spogliatoi, ma noi no.
"Cosa ci fate qui?" domanda, quasi con fare accusatorio. 
"Dobbiamo parlarti." 
Luke si passa una mano tra i capelli, e solo io posso interpretare la sua agitazione. 
"Io e tua sorella siamo qualcosa di più che amici. Non siamo prossimi al matrimonio, sia chiaro. Ma ci dispiaceva lasciarti all'oscuro di tutto questo."
La mia mano va a stringere più forte quella di Ashton. Dalle gambe in giù sento di essermi congelata. Il mio cuore, quello pare essere l'unica parte di me che si ribella alle emozioni. Ci sono attimi di silenzio, in cui ci scambiamo degli sguardi. Luke non ha davvero idea di cosa dire, riesce solo a trapassare il suo azzurro nei miei occhi. Starà pensando che no, non siamo riusciti a fregarlo, perché se n'era accorto prima, già da quel giorno in palestra. Mio fratello non è stupido. 
"Ma ti aspetto, Luke. Non vado da nessuna parte" affermo, rompendo quel silenzio. Solo io e lui sappiamo cosa significa quella frase. Ashton non può capire, ma sta zitto. "Siamo ancora noi, non cambia niente."
Luke capisce che nella vita ci sono le cose che vanno e le cose che vengono. Capisce anche che c'è una via di mezzo, che sta a metà tra le due, e porta il nome di Hepsie. Capisce che le cose non possono appartenere per sempre ad una sola persona, senza mai perdere alcuni pezzi per strada. Capisce che non potrà più avermi come quando avevo tredici anni. 
Io l'avevo capito due mesi fa, lanciando quel bicchiere dalla finestra. 
La mia mano lascia quella di Ashton e le mie gambe mi conducono da Luke. E' automatico: ci abbracciamo. Non c'è altro modo per stabilizzare il vuoto che si è creato in lui. E non le sento, le schegge, mentre mi stringe a sé.
"Stai bene?" gli chiedo, sussurrandogli nell'orecchio. 
"Starò bene. Perdonami."
Non avevo capito che il vetro rotto avrebbe fatto male a qualcun altro.

In ventiquattro ore possono succedere troppe cose. I giorni possono sembrare anche squarci di inferno, alcune volte.
Siamo quasi in anticipo, Io e Luke, quando entriamo nel parcheggio della scuola. Luke butta il mozzicone a terra e lo calpesta con la suola. E' tranquillo, forse un po' taciturno. E poi ha lividi sul braccio e un taglio che si protrae sul sopracciglio destro, che io proprio non riesco a catalogare. Mi rimbombano in mente le ultime parole di Ashton, mentre lo cerco con lo sguardo. Il suono della campanella primeggia su tutto e "Vai in classe" mi dice mio fratello.
"E tu non entri?"
"Sì, andiamo."
"Ma hai visto Ashton?"
"No" risponde, senza esitare. Poi, come a rimediare quella risposta frettolosa, "Tu?" mi domanda.
"No."
Altri dieci passi. Passiamo dalla porta centrale, insieme ad alcuni studenti. La chiamano sesto senso, quella spinta che mi arriva per girarmi. E' semplice: basta voltare il capo, qualche nano secondo e la figura di Ashton Irwin che si inoltra per il cancello del parcheggio è ormai focalizzata. E rientrerebbe in ciò che noi comunemente chiamiamo normalità, se sul suo volto non ci fossero i segni che hanno lasciato mani violente, mani in preda all'ira.
Ashton si fa sempre più vicino, così come le sue ferite. Cammina a testa alta, coi piedi che non hanno paura di calpestare il suolo. Mi intercetta con lo sguardo, e sento quasi il silenzio rimbombargli dentro. 
"Ashton..."
Ha uno zigomo rosso, forse tendente al violaceo; l'occhio sinistro quasi impercettibilmente gonfio, ma accentuato dal nero che lo contorna. Ha la solita bandana, ma dalla quale nasce un taglio, sì e no di qualche centimetro. Sembra aver lottato col diavolo, stanotte.
"Ashton, cosa cazzo hai combinato?"
"Niente." Gli esce una voce bassa, che fa abbastanza male.
E il suo sguardo si posa su un qualcosa che sta dietro me, o meglio, su un qualcuno. E' uno di quegli sguardi che parlano, che sottintendono troppe parole, che ti fanno irradiare brividi per tutto il corpo. Allora mi giro e tutto quello che vedo è Luke. Ashton mi posa una mano dietro la schiena. "Andiamo in classe." 
Mio fratello non dice niente, ed è proprio quel silenzio urlante che mi fa capire. E' il prezzo stabilito da Luke, è il prezzo che bisogna pagare per avermi. 
Sto zitta. Ci sono emozioni, dolori, pensieri in cui nessuno, che non sia tu stesso, può entrare. E' un accesso riservato, riservato a quelli come me, che hanno delle spugne incorporate, che assorbono ogni tipo di dolore e che marciscono dentro.
Cammino lo stesso, senza dire una parola. Penso di volergli riempire la faccia di schiaffi, di sfigurarlo con le mie stesse mani. Però ho imparato a mie spese che a volte il silenzio è l'unica cosa che riesca a distinguersi in questo intero casino di rumori.

Ma il giorno continua. Quelle ventiquattro ore persistono, e non intendono passare velocemente. Io non ce la faccio a pensare a qualsiasi cosa che non sia Luke. Sono pensieri incontrollati, che non si possono gestire, che trascinano una rabbia che comprime. Continuo a pensare perché non so. 
Non so che, nel corridoio parallelo al mio, due studenti sono stati chiamati ad abbandonare le lezioni scolastiche. Non so che la polizia è in possesso di schede piene di reati, foto, intercettazioni. Non so che ad entrambi tremano le gambe e sudano le mani. Non so nemmeno che si rendono conto solo ora di aver sorpassato di troppo il confine, e questo fa paura. 
Fa paura perché quei due studenti portano i nomi di Ashton e Luke.

Hei people! 
Questo era l'ultimo capitolo e martedì posterò l'epilogo.
Che dire, abbiamo visto insieme le schegge di vetro che si frantumavano, ne abbiamo sentito il rumore, il rimbombo. La vendetta di sangue, i principi sbagliati, i modi per proteggersi. Le paure, i legami malati.
Era una storia che mi sono sentita di scrivere, è così quando le parole quasi si scrivono da sole. E' forse il racconto che più ho sentito sotto pelle, nonostante sia il più corto.
Spero vi sia piaciuto, a me fa solo piacere condividere con voi i miei pensieri :)
Ci vediamo all'epilogo!
//Nali
twitter: funklou

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