Vendetta di sangue

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Per tutta la settimana successiva io e Luke siamo andati a scuola. Siamo un po' tornati come prima, legati come un tempo. Cadiamo insieme.
A scuola sono venuti anche Michael ed Ashton. Mi tengono d'occhio, ma senza avvicinarsi. Probabilmente non si aspettano nemmeno che rivolga loro parola, perché sanno di star facendo cadere me e mio fratello in vuoti colmi di nero a cui noi apparteniamo, ma dai quali stiamo da sempre cercando di scappare.
Luke non è andato per tutta la settimana agli allenamenti, e ultimamente indossa una maglietta che recita: destroy yourself, see who gives a fuck. E io mi chiedo se questo non è un suo grido muto di aiuto, se sta realmente distruggendo se stesso. Perché a me sembra proprio che sia così.

L'ora di educazione fisica non l'ho mai davvero presa in considerazione. La nostra professoressa ha un nome che si avvicina a Phillips, una quarantenne per niente esigente. Si siede alla sua cattedra e "Chi oggi è intenzionato a far niente, può anche sedersi sulle gradinate e aspettare la fine dell'ora. Basta che non disturbi" dice a mo' di annuncio.
Io vado a sedermi, come mi è stato proposto, insieme ad altre due ragazze di cui non ricordo né nome né cognome. La lezione, che si basa sulla resistenza, incomincia. C'è anche Luke, perché la mia classe e la sua si ritrovano sempre alla quarta ora del venerdì in questa palestra enorme. Per un attimo si gira, mi dedica un sorriso mentre scuote la testa, come a dire sei una sfaticata. Gli sorrido anche io, e poi se ne va a saltare la corda. Successivamente passano alla corsa, ed io rimango seduta lì, persa tra i miei pensieri.
Fino a quando non sento una presenza di fianco a me. Mi giro con calma, ed Ashton Irwin è la visuale che mi si presenta. Fingo indifferenza. Così mi volto un'altra volta, vedendo i miei compagni impegnati in delle flessioni.
"Perché non fai lezione?"
Alzo le spalle. "Non mi va."
"Tuo fratello ne farà cinquanta" afferma, orgoglioso.
Tutti i ragazzi uno per uno fanno la loro sessione di flessioni. Arrivano massimo a venti, tranne alcune ragazze che ne fanno a malapena tre.
E' il turno di Luke. Arriva a trentacinque, e ormai tutti hanno gli occhi su di lui. Anche la professoressa.
Poi arriva a quaranta. Rallenta un po'.
"Dai Luke" lo incinta Ashton quasi parlando a se stesso. Si tiene le mani, se le sfrega insieme, muove le gambe in un movimento veloce, nervoso. Quasi snervante.
Quarantacinque.
Cinquanta.
Cinquantuno.
Luke si ferma.
"Lo sapevo" ammicca Ashton."No, ragazzi, questo lo dobbiamo dire ad Ashton!" dice qualcuno, mentre tutti applaudono. Ashton ride, sembra realmente fiero.
"Gliel'ho insegnato io, quello. L'ho fatto restare un intero giorno in palestra finché non me ne ha fatte cinquanta."
Poi le classi si riprendono, e Luke si rialza, ancora un po' affaticato.
"Non fargli male."
"Sono altre le persone a cui far male."
"E quali sono?"
"Te lo spiegherò oggi, se solo lasci che io ti riaccompagni a casa. Ho paura che abbiano già in mente qualcosa."
E' questione di respirare, ingoiare sensazioni amare e ricoprirsi di indifferenza. Poi sai che devi fare tutto questo per tuo fratello, e allora "Sì" rispondi.
Ashton chiama Luke a squarciagola, di modo che lo noti. Lui ci guarda, sorpreso, e ci si avvicina.
"Oggi te la accompagno a casa io. Dobbiamo tenerla protetta, ricordi?"
Luke non ci stacca gli occhi di dosso, ma sa che oggi finisce le lezioni dopo di me e non può fare la strada con me. Sta pensando se fidarsi, perché a lui non viene naturale farlo. Poi annuisce, ma mantenendo un'espressione compunta e seria. E, prima di andarsene in campo, sale sulla gradinata e mi stampa un bacio sulla guancia. Luke è così: quando capisce che qualcosa potrebbe andarsene, cerca di autoconvincersi che, marchiandola, resterà.

Come era stato stabilito, all'una Ashton si trova fuori da scuola. Mi sta aspettando. Dei ragazzi, quasi tutti facenti parte della squadra di football, passano di fianco a lui e lo salutano con mano aperta e pugno. Quando gli sono vicina, toglie la sigaretta dalla bocca e "Ci metti sempre così tanto ad uscire?" mi chiede.
Ci incamminiamo. "Stavo svegliando Michael" gli spiego, e lui sembra divertito.
Un attimo dopo ritorna serio e inizia a guardarsi intorno. "Stai attenta, comunque" mi dice. "Possono essere ovunque."
Si rimette la sigaretta in bocca, cominciando ad aspirare.
"Chi?"
Passano alcuni secondi, e intanto continuiamo a percorrere la strada verso casa.
"Sai cosa, Hepsie?" Hepsie ha una strana cadenza sulle vocali, quando a pronunciarlo è Ashton. Lo dice con un tono che fa sembrare che il mio nome sia l'unica cosa rilevante nelle sue frasi. Come se il mio nome fosse vivo, come se io fossi viva in tutto ciò in cui è costretto a stare. "Essere figlio di un pentito non è una cosa facile. Vivi sapendo che potresti essere ammazzato da un momento all'altro dagli ex compagni che tuo padre ha tradito, collaborando con la giustizia, e allora le opzioni sono due: o lasci che ti ammazzino con una pallottola conficcata in testa, o ti difendi. Io ho scelto la seconda."
Sguardo rivolto in basso, spalle rilassate, passo lento e mai preciso. Io ed Ashton siamo uguali.
"E come ti difendi?"
Fa un altro tiro dalla sua sigaretta, volta il viso a destra e a sinistra, attraversa. Io lo seguo.
"Creandomene una mia, di mafia. Ci alleniamo per questo. Noi, in quella palestra, abbiamo imparato a guardarci le spalle, ad interpretare il senso di onore, di rispetto, di fiducia. Io mi fido ciecamente di tuo fratello. Altrimenti non sarei qui a raccontarti questo."
Solo ora capisco cos'è mio fratello, cosa sta diventando, cosa è diventato. Non mi fa arrabbiare. Uccide solo un po', quel tanto da rilasciarti il peso all'altezza del petto. Però comprendo anche la spropositata pericolosità in cui vive Ashton, la costante ansia in cui naviga... Mi fermo. Alzo la testa, e lui si accorge che non lo sto più seguendo. Si gira e "Cosa c'è?" mi domanda.
"Ashton, ti difendi anche da mio padre. Aspetta, i nostri padri erano alleati?"
Ashton sembra perdersi. Lui non si perde mai. Sta guardando me, ma so che in realtà non ha proiettato davanti a sé i miei occhi. Vede altro. In questi momenti è assente.
"Lo erano."
"E' per questo che sei così con me?"
"Così come?"
"Così maledettamente stronzo."
Ashton sorride, sempre con l'inquietudine ad accompagnare il sorriso. "Solo all'inizio. Adesso è la tua compattezza che mi dà rabbia. Sembri quasi una pietra: così compatta, così solida dentro, senza alcun sentimento. Potresti anche cambiare sentimenti e opinioni verso una persona da un momento all'altro, ma nessuno lo saprà mai."
Ogni tanto capita che mi manchi il fiato. E' una questione di deglutire saliva, e poi l'aria si rifiuta di passare per il naso o la bocca. Questo è uno di quei casi. Sto in silenzio, cercando di riprendere fiato. Ashton fa lo stesso. Intravedo poi il mio palazzo, anche se irriconoscibile tra tutti quei muri grigi, ed avverto il ragazzo dagli occhi ambra.
"Aspetta" mi dice lui. "Volevo dirti che forse è per questo che ti bacio. Perché non mi va di guardare maschere alla gente invece che reali emozioni. Volevo vedere se la pietra si sarebbe un po' sgretolata, e a me sembra di sì. Solo questo. Bene, stai attenta. Guardati sempre intorno, loro ti hanno vista. Attaccano me, ma uccidendo le persone con cui parlo. Ciao, Hepsie."
Me ne vado a casa, senza nemmeno guardarlo andare via, senza dire un'altra sola parola. Ho tutti questi pensieri, che non si trasformano in parole, che mi rimangono incastrate in gola.
La pietra è messa a dura prova, e non sa se si sgretolerà.

Di pietra e vetroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora