Alla fine del mio alquanto conciso discorso, lo stridio fastidioso del microfono arrivò in un attimo alle mie orecchie. Scendendo dal grande palco e guardandomi intorno, adocchiai non poche facce conosciute: c'erano tutti. Ma proprio tutti, intendo. Anche chi forse, avrebbe potuto evitare.
(In realtà no, perché era fondamentale la sua presenza.)
Jen Powell, alla quarta seggiola sulla sinistra, la strepitosa ragazza dalle mani d'oro, come la si definiva. E no, fortunatamente non è nulla di ciò che potrebbe passare nella testa di chiunque leggendo questa affermazione. Semplicemente, suonando quello che sembrava un prolungamento delle sue braccia, deliziava a tal punto da inibire ogni senso all'ascoltatore del momento. Ed era semplicemente questo: lei e il piano in un tutt'uno. Fui molto contenta quando, giusto una manciata di mesi prima, mi aveva annunciato euforica di essere stata presa alla Julliard School di New York e che sarebbe partita per la lontana città giusto verso la fine dell'estate. Se lo meritava proprio.
Il successo, dico. Penso esistano persone nate per diventare qualcuno, per cambiare, nel loro piccolo, ciò che ci circonda. E lei era certamente una di quelle. Anche se non lo avrei mai ammesso apertamente, e lei ne era consapevole. Ma non le importava, o almeno, non dava troppo peso a quel mio apparentemente distaccato comportamento e ai miei strani modi di fare, mi sopportava.
Avrei sentito la sua mancanza, di lì a poco, ma non le avrei detto neppure questo.Ed ecco Jacob Morgan, giusto una sedia di fianco a Jen, con quei capelli biondi e gli occhiali con le lenti blu a specchio, risaltava solo di più in quel posto predominato da presenze femminili. Da quando la sua passione per i motori lo portò a lavorare nell'officina di Max, quella vicino al magazzino dismesso, non ci eravamo potuti vedere tanto. Gli orari erano assolutamente inconciliabili. Però trovai carino fosse venuto lì per me.
E' sempre stato uno di quei ragazzi troppo impegnati con tutto - manifestazioni, partite di hockey, palestra e feste e macchine - ma su lui avresti potuto contare sempre.
Era una di quelle persone che avresti potuto chiamare alle due di notte - per un qualunque motivo - anche solo perché non riuscivi a dormire e ti serviva una distrazione.
Una di quelle persone che non c'erano mai per un caffè o per vedere un film, ma inaspettatamente, quando c'era bisogno di lui, quando io, avevo bisogno di lui, era lì.
Lì al mio fianco, con i suoi muscoli un pò troppo sporgenti e la maglia di cotone - perché aveva caldo, sempre. Ed era quello che trasmetteva: calore, affetto, casa.Nessun'altro
- o forse sì, ma meglio non ricordare -
aveva creato quel rapporto con me - quel legame invisibile, una presenza costante.
Il mio essere me - l'irrispettosa ragazza inglese dal carattere impossibile e la testa fra le nuvole - aveva reso difficili i rapporti con gli altri; chiunque essi fossero.
Ma lui c'era stato comunque - vicino al mio letto, dopo essere scappato da una qualche festa solo perché aveva sentito che c'era qualcosa che non andava.
Allora la domanda mi sorse spontanea, erano le mie difese ad essere state deboli - per aver permesso a questo strambo ragazzo di comprendermi - oppure erano le sue forze, ad essere troppo forti e potenti e numerose?(Come un esercito di formiche a marciare sopra di me.)
La risposta fluttuava ancora nella mia testa, cavalcando una nuvola di pensieri e attraversando turbolenze mai viste.
Spostai lo sguardo, trovando una Becky Noss - una ragazza come tante, ma il cuore grande come pochi - indaffarata a parlare con la dolce signora Stevens - la signora dei dolci, come mi piaceva chiamarla -, probabilmente per la festa che si sarebbe tenuta tra poche ore.
Gli occhi scuri di Becky risaltavano sulla sua carnagione chiara, e il suo vestito a fantasia - un intruglio di pois e fiori ad invaderlo - metteva a dura prova la sua carriera (quella che avrebbe desiderato, almeno) da stilista.
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231 - Numero di ribelle (#Wattys2016)
FanfictionIl passato non tramonta, ti attraversa e ti segna. Poi ritorna.