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La sera antecedente la mia prima esecuzione, durante il processo dell'imputato, uno dei preti mi illustrò i motivi per i quali il condannato sarebbe sicuramente finito sulla forca.

"Questo giovanotto è Nicola Gentilucci" bisbigliò, indicando il ragazzo che se ne stava all'impiedi in attesa di conoscere il suo destino.

"Ha prima ucciso un prete e il suo cocchiere, per motivi di gelosia, poi ha grassato due frati. Capite che tutto ciò non poteva passare inosservato"

"Sì, lo capisco perfettamente. Vedremo ciò che gli succederà"

Dopo qualche minuto uno dei cardinali si alzò e, solennemente, si appresto' ad annunciare al Gentilucci la sua sorte.

"Nicola Gentilucci, io ti cito a morte per domattina"

Queste parole generarono nel giustiziando una reazione di autentico terrore; si impressionò a tal punto che impallidì all'improvviso, e sarebbe sicuramente caduto a terra se uno dei religiosi non l'avesse prontamente sorretto.

Per permettergli di riprendere un po' di colore gli venne dato un bicchiere di vino, poi, affinché riposasse, lo ricondussero in una delle celle del carcere.

Quanto a me, quella notte la passai in un'osteria lì a Foligno, accompagnato da due preti e dal fiscale del Papa.

Nonostante insistettero nel dirmi di dormire, io non riuscii a farlo per più di due ore; quando era ancora buio dovetti prendere parte alla messa per l'anima del condannato e, una volta finita, mi procurai il materiale per rizzare il patibolo.

Trovare il necessario fu più difficile del previsto: dato che nessuno era intenzionato a vendermi il legname per preparare la forca, in piena notte andai a sfondare la porta di un magazzino per provvedermelo.
Non per questo mi scoraggiai, ed in quattro ore di assiduo lavoro fu tutto pronto.

Quando il sole era già alto nel cielo, dopo essermi confessato e aver preso la comunione, indossando un mantello rosso mi diressi alle carceri, ove mi consegnarono Nicola Gentilucci. Gli legai le mani con una fune, tenendone i capi io stesso, e dopodiché ci dirigemmo verso la Piana delle Forche, luogo dell'esecuzione, affiancati dai confortatori e dai preti.

Un gruppetto di persone accerchiava il patibolo: uomini, donne, anziani e persino bambini se ne stavano tutti raggruppati, per accaparrarsi il posto con la visuale migliore.

Il condannato recitò un'ultima preghiera su un piccolo altare eretto vicino alla forca, poi, quando si rialzò,  lo condussi verso il palco a reni volte affinché non lo vedesse.

Lo feci salire su una delle scale e, mentre io ascendevo per un'altra vicinissima, gli passai attorno al collo due corde; la prima, grossa e lenta, detta corda di soccorso, sarebbe servita se mai si fosse rotta la piccola, detta mortale, perché è questa che strozza il delinquente.

I confortatori, già saliti sulle scale laterali, recitavano a voce alta il Pater Noster e l'Ave Maria e il Gentilucci rispondeva.

Ma non appena ebbe pronunciato l'ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai giù dalla scala e gli saltai sulle spalle, strangolandolo alla perfezione e facendo eseguire alla sua salma parecchie piroette.

La folla restò ammirata dal contegno severo e coraggioso di Nicola Gentilucci, non meno che dalla straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quell'esecuzione.

Staccai il cadavere, gli spiccai la testa dal busto e la infilzai su una lancia, che poi misi sulla sommità del patibolo. Quindi, con un'accetta, gli spaccai il busto e l'addome dividendo in corpo in quattro parti, per poi mettere in mostra i resti intorno al patibolo.

Avevo 17 anni compiuti, e non provai alcuna emozione. La freddezza, che si richiedeva a un esecutore affinché le sue giustizie risultassero esemplari, non mi mancava.

Mentre stavo scendendo dal palco, incrociai lo sguardo di una ragazza che era in una delle prime file.

Non sembrava minimamente turbata, nemmeno dopo aver assistito all'impiccagione del Gentilucci: sorrideva splendidamente, e man mano che scendevo i gradini eravamo sempre più vicini.

Era bella come poche; non molto alta, densa di forme e dotata di due meravigliosi occhi ambrati, che mi colpirono immediatamente.

"Così il nuovo maestro di giustizia siete voi, dico bene?"

"Proprio così. Piacere di conoscervi, Giovanni Battista Bugatti,  17 anni" replicai, porgendole la mano. La sua, decisamente più piccola della mia, la strinse senza nemmeno curarsi del sangue ancora depositato su di essa.

"Piacere mio, Benedetta Lucatelli. Ho 16 anni, se vi interessa. Pensate che io e la mia famiglia siamo venuti fin qua da Roma per vedervi all'opera, giacché mio padre era desideroso di vedervi all'opera"

"Quindi vivete a Roma" osservai, incuriosito e sorpreso allo stesso tempo.

"Certo, e voi?"

"Anche io" affermai, nonostante ancora non sapessi quale sarebbe stata la mia nuova casa.

"Ragazzo, cosa fate in mezzo alla piazza? Coraggio, stiamo aspettando soltanto voi!"

Il fiscale, nervoso come non mai, cercò di trascinarmi via tirandomi per un braccio.

"So camminare, non serve che mi strattonate"

"È pericoloso che vi esponiate così tanto, vi ha dato di volta il cervello? Guardate, la carrozza è già arrivata" annunciò, indicando la vettura poco lontana dal palco d'esecuzione.

Non avendo altra scelta, seppur a malincuore, salutai Benedetta con un gesto della mano, che fino a qualche istante prima era stretta nelle sue.

"Buon viaggio, allora. Spero vivamente di incontrarvi di nuovo" mi disse, parlando sottovoce, probabilmente per non farsi udire dal padre.

"Vale lo stesso per me, chissà se un giorno le nostre strade si incroceranno ancora"

"Ne sono più che certa, ci rivedremo prima di quanto possiate arrivare a credere"

Si allontanò a passo svelto, ed io mi girai a guardarla  finché la vettura, su cui nel frattempo ero salito, scomparì alla mia vista.

Di quel giorno non fu la mia prima esecuzione a rimanere impressa nella mia mente, bensì l'incontro con Benedetta, a cui non riuscivo a smettere di pensare.

















L'ultima graziaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora