Capitolo 2.

731 40 2
                                    

Quando mi sveglio il mio primo pensiero va a Niall. Mi ritrovo a pensare ai suoi occhi azzurri che fissano i miei e mi domando dove si trovi in questo momento. Poi però il ricordo di Halina mi fa sprofondare nella depressione. Mi rigiro nel piccolo lettino vuoto e piango un po’. Non mi sentivo così vuota da quando è morta la mamma. Avevo solo dieci anni quando è successo e da allora la nostra levatrice Dori ci ha cresciute come se fossimo figlie sue. Ormai è anziana e dal mio letto la vedo camminare lentamente da una stanza all’altra con uno spolverino in mano, l’aria agguerrita, la fronte corrugata per la concentrazione.

Mi alzo. La temperatura è scesa ancora. Non c’è quasi più legna per alimentare la stufa del nostro appartamento. Per colazione c’è solo la zuppa della sera prima e un po’ di pane secco. Rabbrividisco mentre Dori mi lega i lunghi capelli biondi in due trecce strette.

-Prevedi una giornata impegnativa oggi, tesoro? – annuisco.

Da quando c’è la guerra ogni giorno all’ospedale è impegnativo. Infilo la mia divisa da infermiera e noto che si è leggermente scucita, di nuovo. Sospiro e aggiungo la vocericucire uniforme al già lungo elenco di cose che devo fare entro la fine della serata.

Bacio sulla guancia Dori e scappo fuori. L’ospedale in cui lavoro non è molto lontano dal ponte su cui ieri sera ho conosciuto Niall ma percorsa senza di lui la strada sembra interminabile. Se non fossi ebrea potrei semplicemente prendere il pullman o camminare su quei bei marciapiedi su cui camminano tutti gli altri.

Invece sono costretta ad accontentarmi di camminare sul marciapiede riservato agli ebrei ed evitare i cadaveri disseminati per strada.

Dicono che le condizioni all’interno del ghetto siano peggiori, ma faccio davvero fatica ad immaginare qualcosa peggiore di questo. 

Appena arrivo all’ospedale mi consegnano una pila di cartelline spingendomi all’interno del reparto dei terminali, a cui mi hanno assegnata il primo giorno.

Non credo che ci sia un reparto peggiore di questo. Quando alla sera arrivo a casa e chiudo gli occhi non posso fare a meno di rivedere i volti di quelli per cui non ho potuto fare niente, le facce per cui io sono stata l’ultima speranza.

Come ogni mattina inizio facendo il giro del grande reparto, chiamato Camelot. C’è un odore stantio che mi si impregna nei capelli e nei vestiti. Cammino lentamente, sbriciando da sopra le cartelline, sistemo i letti disfatti e do un po’ di conforto a chi ne ha bisogno.

Un uomo geme accanto a me.

-Signorina – gracchia ormai senza voce. Accorro.

-Signorina, lei è così bella da sembrare un angelo. Mi dica, lo è? – ogni sforzo gli provoca delle fitte al torace fasciato ed intriso di sangue. Deve avere la stessa età dei miei fratelli. Mi si stringe il cuore e mi limito a stringergli la mano. Ormai gli restano poche ore da vivere.

Poiché non abbiamo medicinali sufficienti a curare tutti i pazienti, la politica dell’ospedale è quella di dare il massimo conforto a quelli per cui non c’è più niente da fare. Mi rimbocco la mani del camice e gli cambio la fasciatura, gli lavo il viso con una spugnetta e gli tolgo le macchie di sangue secco che ha sul petto. Quando finisco è ormai morto. Mi faccio il segno della croce come mi ha insegnato Dori e passo ad un altro paziente.

Continua così per tutta la mattina. È un lavoro estenuante. Vorrei davvero salvare qualcuno, invece muoiono tutti davanti ai miei occhi senza neanche un po’ di morfina ad attenuare il loro dolore.

-La tua belletta rende la loro morte più felice, credimi – qualcuno mi appoggia le mani sulle spalle.

Mi volto di scatto. È il dottor Tomlinson. Mi sorride nonostante le profonde occhiaie sotto gli occhi. Probabilmente ha fatto il turno di notte. Louis è un infiltrato americano e poiché i tedeschi non hanno molta considerazione del nostro ospedale può lavorare in tutta tranquillità con i suoi farmaci portati dall’America.

-Vorrei poterle credere dottore – sussurro coprendo con un lenzuolo bianco l’ennesimo deceduto.

- È così, credimi. Me l’ha detto proprio ieri il signor Deploski. Ha detto che senza di te questo posto sembrerebbe un inferno.

Mi sforzo di sorridere, ma le lacrime premono per uscire.

- Abbiamo bisogno di te in sala operatoria. C’è stato un incidente proprio qui davanti.

- Certo.

Il resto del giorno passa in modo confuso. I pazienti mi passano davanti al naso velocemente e io continuo a passare pinzette e lacci emostatici, che non bastano mani. Un getto caldo di sangue mi schizza sul camice appena lavato. Sospiro, dovrò subire la furia di Dori anche questa sera. Succede ogni giorno.

Quando finalmente il mio interminabile turno finisce sono esausta. Indosso il cappotto logoro sopra il camice sporco e getto la cuffietta in un cestino.

L’aria fresca mi risveglia. Non vedo l’ora id essere a casa. Arrivata al cancello saluto le mie college e mi fermo a scambiare quattro parole con l’anziano portinaio. Allora lo vedo. Niall, immobile nella sua divisa tedesca, il fucile appoggiato alla spalla.

Mi sorride gentile.

Mi avvicino prudente.

-Sergente – lo saluto con un piccolo inchino del capo.

-Helen! Che piacere vederla, posso accompagnarla a casa?

Sembra che stia battendo i denti. Chissà da quanto tempo mi aspetta qua fuori, il mio turno è finito da quasi mezz’ora.

Questa volta accetto senza esitazioni. Ci incamminiamo verso il mio palazzo.

-Sono venuto per parlarle – ammette dopo un po’.

- Mi dica – rispondo un po’ delusa. Speravo fosse venuto solo per vedermi. Che cosa sciocca.

- Signorina Helen. Lei deve andarsene da qui. Varsavia sta diventando troppo pericolosa per gli ebrei, dentro e fuori dal ghetto.

- Mio padre non se ne andrà. Non finchè il cimitero resta qui – sospiro. la verità è questa.

- Cerchi di convincerlo, per l’amore del cielo. È importantissimo.

Sospiro e guardo da un’altra parte. La mia vita è già decisa. Sposerò Piotr e resterò qui finchè non raggiungerò la mamma ed Halina al cimitero ebraico.

-Non posso. Io… - sospiro – io sto per sposarmi.

La decisione l’ho presa questa notte mentre sentivo tossire i miei fratelli e battere i denti per il freddo. Non ci sono più soldi e papà non può più mantenerci tutti.

- Lo ama? – mi chiede schietto. Vedo i suoi occhi diventare duri. Due diamanti che brillano.

- Cosa? – mi copro la bocca con la mano. Non avrei dovuto essere così sfrontata.

- È una domanda semplice signorina. Questo ragazzo, lo ama?

Cerco di distogliere nuovamente lo sguardo ma mi afferra delicatamente il mento tra le dita. Il mio cuore va in tilt. Spero solo che lui non se ne accorga.

- No – rispondo apertamente.

- Allora non dovrebbe sposarlo – mi guarda apertamente negli occhi e sento le gambe cedermi.

Non ho mai visto un ragazzo più bello.

il ponte dei suicidi ||niall horanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora