Capitolo 11.

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Non so quanto tempo sia passato da quando hanno chiuso gli sportelli del treno merci su cui siamo stipati come animali.

È buio.

I bambini piangono e i vecchi si lamentano.

C’è un profondo senso di disperazione che si abbatte su tutti noi, è come una nebbia sottile che si infila sotto i nostri abiti leggeri e ci entra nell’anima.

Non c’è speranza di rivedere casa, non abbracceremo più le persone care.

Il ricordo di Niall mi appare già lontano, ma non posso sprecare le mie energie piangendo. Devo rimanere lucida, finchè posso.

Sono seduta contro la parete e la testa mi dondola avanti e indietro, seguendo le scosse del treno che sbanda. Poi, tutto si ferma e le porte si aprono. L’oscurità si frantuma e si trasforma in una luce altrettanto accecante.

Le SS urlano di scendere. Sono gentili, la loro voce è calibrata e cortese. Tutti si guardano un po’ straniti, perché non capiscono il significato di quelle parole così dure e estranee. I pochi che conoscono il tedesco si affrettano a tradurre e a spingere per far uscire la folla dai vagoni. Mi unisco a loro.

- Dobbiamo scendere, forza – dico in tono calmo.

Ben pochi comprendono dove siamo arrivati. Se qualcuno dovesse capire, se qualcuno dicesse qualcosa a voce troppo alta, basterebbe una scintilla per far scoppiare il panico.

Una signora rifiuta di scendere, probabilmente perché non vuole lasciare il marito, morto, sulla carrozza abbandonata. La prendo per mano e lei sussulta.

- Signora, la prego, dobbiamo andare – lei si volta e mi guarda, gli occhi spalancati per il terrore.

Le stringo la mano rugosa e lei mi segue.

Ci dispongono lungo il binario dopo averci diviso dagli uomini. Il tono accondiscendente delle SS inizia a venir meno. Chi non si sbriga viene bastonato, risuonano le prime grida.

Una bambina urla disperata.

-Papà! Papà! Voglio il mio papà!

Mi trattengo dal piangere. Anche io vorrei il mio papà.

Un uomo dalla pelle grinzosa passa in rassegna tutte le donne della fila e con un cenno del capo indica se debbono andare a destra o sinistra. So fin troppo bene che la scelta è tra morte e vita.

Quando arriva a me fa un passo indietro per osservarmi meglio.

- È molto bella. Molto, molto bella – borbotta torturandosi la lunga barba bianca.

- Grazie signore – rispondo umilmente.

Ho scelto la vita. Mio padre mi ha chiesto di vivere, e io ho scelto di regalargli questo ultimo desiderio. Abbasso il capo e mi mostro rispettosa.

- Venga con me – mi dice.

Mi afferra con la mano guantata e mi spinge lontano dalla fila. Le gambe mi reggono a sento e mi devo appoggiare a lui per camminare.

-La tua bellezza ti ha salvata – mi dice.

Non comprendo le sue parole, ma rispondo ugualmente.

- Lo so – mormoro.

E il pensiero torna a Niall, alla prima volta che ci siamo conosciuti.

- Portala da Friedrich – dice il dottore affidandomi ad una giovane SS che subito mi afferra per il braccio e mi spinge per una strada sterrata.

È tutto ricoperto di neve. La luna illumina la pianura davanti a noi, facendola brillare.

Quando arriviamo davanti ad un enorme cancello le mie ultime speranza crollano.

“IL LAVORO RENDE LIBERI” recita la scritta che si staglia nera nel cielo notturno.

Auschwitz. Aperto da poco ha già la fama di essere uno dei peggiori campi della Polonia.

Suona molto come “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”

Chino il capo e prego. Prego che mi sia concesso di vivere, di poter vedere un’ultima volta Niall. Poi, lascio che le mie speranze cadano alle mie spalle mentre i battenti si chiudono dietro di me.

***

Niall’s pov.

Potrebbe essere una giornata come le altre se non fosse che Helena ha passato tutta la notte a piangere, se non fosse che ha scoperto che amo sua sorella. Non so davvero se potrà perdonarmi.

La pattuglia della città è estremamente noiosa. Mi appoggio al muro della caserma e accendo una sigaretta. Non fumo davvero, la tengo solo tra le labbra mentre si consuma.

Vedo Rouge corrermi incontro e penso di raccontargli cosa è successo questa notte. Ma poi vedo il suo sguardo allucinato e la sigaretta mi cade di bocca.

- L’hanno presa, l’hanno presa! – urla agitando le braccia.

Sembra che stia piangendo. Quando è vicino a me si ferma e ripete sotto voce la stessa frase.

- Chi!? – non oso pensare a quell’alternativa, non può essere lei.

- Helena – sussurra Rouge piano.

Il mio cuore va in frantumi. Il primo istinto è quello di rannicchiarmi sul marciapiede sporco e piangere, ma non ne ho il tempo, perché Rouge mi afferra per un braccio e mi scuote.

- Devi fare qualcosa! Devi andare a cercarla! – mi dice.

Le sue parole mi sembrano provenire da molto lontano, come un’eco.

- Sai dove l’hanno portata? – riesco ad articolare.

- No, ma forse riuscirai ad arrivare alla stazione in tempo, prima che partano i treni.

Prima che la frase sia finita sto già volando verso la stazione. Il pensiero di poterla perdere mi distrugge. Corro, e non sento più le gambe. Corro, e non sento più il cuore.

Entro nella stazione e il mio grido viene coperto dallo sferragliare del treno in partenza.

- NO! – urlo.

Un addetto alla sicurezza mi spinge indietro.

- Dov’è diretto questo treno? – grido nelle orecchie dell’anziano signore.

- Ovunque ragazzo mio! – ride lui allontanandosi.

La speranza sta scemando. Guardo le facce sfuocate delle persone all’interno del treno. Alcuni allungano la mano.

- Helen! – urlo – Helena!

Il treno sparisce dalla mia visuale.

- Ti troverò! – è l’unica cosa che riesco a dire.

Crollo in ginocchio e finalmente piango.

il ponte dei suicidi ||niall horanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora