Parte I

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Era una notte di settembre, pioveva.
Ero uscito, solo e confuso, per le vie di una città che non mi appartiene, che non è mia.
Ero solo, infreddolito e inzuppato fino all'osso.
Sentivo l'odore dell'asfalto bagnato nelle narici, piccole gocce d'acqua mi entravano negli occhi facendoli lacrimare un po'.
Ero stanco. Stanco della mia vita, stanco della solitudine, stanco del mare di facce tutte uguali che mi circondava, che mi opprimeva.
"Dove vai?"
"Vado a buttare l'immondizia"
Era questo l'unico modo che avevo ogni sera, sera dopo sera, per scappare da quel vuoto che sentivo dentro, da quel silenzio assordante che mi circondava in quella casa in città.
Niente alberi, niente prati, niente mare, niente di tutto quello che amavo era lì.
Solo palazzi, strade, auto, clacson che si rincorrevano in quelle vie buie e strette, illuminate da lampioni e non da stelle.
Fuori era pieno, pieno di tutto, ma dentro era vuoto.
Un passo dopo l'altro, vedo una luce rossa in lontananza, in contrasto con tutto quel bianco delle luci a neon dei lampioni.
Rouge Bar, si chiamava.
"Cosa prendi?"
"Uno scotch"
...
"Un altro"
...
"Un altro"
E così ancora, e ancora, e ancora, fino a quando l'alcol non riuscirà a mettere a tacere i miei pensieri.
Fino a quando sarà silenzio dentro come fuori.

***

Il Rouge Bar è diventato il mio vizio, da quel momento in poi.
È diventata la mia abitudine, la mia valvola di sfogo.
Ogni sera, sera dopo sera.
"Cosa prendi?"
"Uno scotch"
Fino a quando il barista non me lo chiede neanche più.
Fino a quando, una sera.
"Uno scotch per il mio amico, una sambuca per me"
Mi volto e ti vedo.
Un ragazzino sembri, ma capisco subito che l'apparenza inganna.
Avrai la mia età, o poco meno.
Gli occhi sanno di vita vissuta per un po', non di vita ancora da vivere.
Gli occhi sanno un po' di tristezza.
Scuoto la testa, li conosco bene quegli occhi, e torno a fissare il bancone dove è apparso magicamente il mio scotch.
"Non dovevi"
"Mi fa piacere"
"Ti fa piacere offrire da bere ad un estraneo?"
"Non sei mica un estraneo"
Ti guardo ancora, e vedo i tuoi occhi sorridere.
Per quanto tempo mi hai guardato da un angolo del bar, studiando ogni mia mossa? Per quanto tempo mi hai osservato scolarmi uno scotch dopo l'altro?
Sollevi la tua sambuca a mo' di brindisi e la butti giù in un sol sorso.
Ti imito col mio scotch, e sento i miei occhi sorridere ai tuoi.
In uno slancio di pensiero, che giustifico con l'alcol che sento scorrere nelle vene, penso che sei bello.
Sei un bel ragazzo, non c'è niente di male nell'ammetterlo, no?
Hai gli occhi scuri, profondi come il mare, come i miei.
Hai la pelle ambrata di chi non è di queste parti, ma viene da lontano, non come la mia, ormai bianca, stanca, spenta.
Tu brilli, la tua pelle brilla nelle fioche luci del bar, i tuoi capelli scuri brillano.
Vedo i nostri riflessi nello specchio dietro il bancone.
Due ragazzi diversi, diversi capelli, diversa pelle, diverse origini probabilmente, occhi simili, scuri, bui, profondi, ma allo stesso tempo diversi.
Vedo i tuoi brillare di vita, di speranza, di gioia, appena ombrati di tristezza, e vedo i miei spenti, cupi, un pozzo nero di cui non si vede la fine.
Dallo specchio, ti vedo tendermi la mano.
"Paolo"
"Tiziano"
Hai una presa forte, salda.
Avrai carattere, sicuramente.
"Un'altra sambuca per il mio amico, uno scotch per me"
Più che vederti, percepisco il tuo sorriso.
Continuiamo così, per tutta la sera, per tutta la notte, fino a quando le prime luci dell'alba non rischiarano quel locale buio, fino a quando i primi raggi di sole entrano da qualche persiana lasciata socchiusa.
Paghiamo, usciamo.
Mi guardi, sorridi.
"Ci vediamo domani"
Non è una domanda, è un'affermazione.
Ti volti e vai via.
Vado via anch'io, senza voltarmi, con le narici piene di anice e un po' meno di silenzio nel cuore.

***

Da quella sera, per molte sere, il Rouge Bar è stato nostro.
Per qualche ora chiudevo il silenzio fuori dal portone d'ingresso in quercia e lasciavo che la musica, le parole, le voci, scorressero intorno e dentro di me.
Tu c'eri.
Da quella prima sera, il primo che arrivava ordinava per due.
La sera dopo entrai, e tu eri già lì.
Stretto nel tuo maglione blu, con una gamba che dondolava nervosamente, tu eri già lì, mi aspettavi, con davanti a te uno scotch e una sambuca.
Mi sono seduto, senza dire una parola, ho alzato il mio bicchere a mo di saluto e tu hai fatto lo stesso, e li abbiamo buttati giù.
Da quella sera abbiamo iniziato a parlare, piano piano, quasi con paura, quasi come se ogni parola potesse rovinare quello strano senso di pace che provavamo seduti agli sgabelli del bar.
Eri sempre tu ad iniziare la conversazione.
"Quanti anni hai?"
"31. Tu?"
"27. Sei di qui?"
"No, vengo dalla costa. Vivo qui da quattro anni"
"Anch'io vengo dalla costa. Mi sono trasferito da poco. Che lavoro fai?"
"Agente di commercio"
"Cosa commerci?"
"Tessuti"
"Io sono un fotografo"
Fai tante domande, chiedi tante cose, vuoi tante risposte.
Mi hai fatto vedere le tue foto.
Sono belle, dico davvero.
Tu, che vieni dal mare come me, riesci a vedere questa città per quello che è: una nuvola grigia e spenta, che spegne le persone insieme a lei.
Fotografi le strade vuote di domenica mattina, un fiore che cresce fra i rifiuti gettati per strada, una crepa nell'asfalto dove un albero è riuscito a sconfiggere l'uomo.
Fotografi ciò che le persone, di solito, non notano.
Sei bravo, hai buon occhio.
Te lo dico, e quasi arrossisci per il complimento inaspettato.
Non sei abituato a ricevere lodi, si capisce benissimo.
Ti guardo mentre mi parli di te, del tuo lavoro, di quanto sia mal retribuito, e inizio ad impararti.
Sì, impararti è il termine corretto.
Ti imparo, sera dopo sera.
Imparo ogni tuo gesto, ogni tua espressione, ogni tua smorfia.
Imparo le rughe che si creano sul tuo volto quando sorridi, imparo i gesti delle mani quando giochi con un fazzolettino del bar, imparo i movimenti del tuo corpo.
Ti imparo così tanto che, appena ti vedo, capisco già di che umore sei.
Ti imparo a memoria, come quando andavo a scuola, come quando andavo al mare e imparavo le onde, come quando la mia pelle non era bianca e spenta, ma era come la tua, ambrata.
Ti imparo sera dopo sera, fino a quando quel rumore in più nel mio cuore non mi accompagna anche di giorno.
Fino a quando non diventa più sopportabile svegliarmi, più sopportabile sorridere, più sopportabile pensare che la mia vita abbia un senso e non faccia così schifo.
Più sopportabile stendermi nel letto accanto a lei a notte fonda, in silenzio, senza che se ne accorga.
"Sei fidanzato?"
Mi chiedi una sera.
"Sono sposato"
"Non porti la fede"
"Non la metto mai"
Già, non la metto.
Perché se la mettessi sentirei ancora più silenzio di quello che già sento, mi sentirei ancora più perso, sentirei ancora più quell'ansia che provo e quel groppo in gola che sento ogni volta che respiro.
Non la metto perché se la mettessi mi sentirei ancora più incatenato, intrappolato in una realtà che non voglio, che non mi piace.
"Tu sei fidanzato?"
"No"
Risposta secca, fredda, distaccata.
Passi una mano fra i capelli, nervosamente, la gamba oscilla sotto il tavolo, le spalle si irrigidiscono, lo sguardo si perde chissà dove.
Non ne vuoi parlare, lo capisco subito, ho imparato ad impararti.
Dio, quanto suona male questa frase, ma è la verità.
Ti ho imparato così bene che capisco che ci sarebbero tante cose da dire, da raccontare, ma non vuoi, non ti senti pronto.
E io non insisto, non lo farei mai.
"Tua moglie lo sa che resti fuori tutta la notte, tutte le notti?"
"Non lo so. Probabilmente no"
Non insisti, non chiedi più nulla.
Probabilmente anche tu hai imparato ad impararmi, perché sento le mie spalle irrigidirsi, le mani che reggono lo scotch tremare appena, e ti vedo, vedo che noti tutti questi particolari.
Non chiedi più nulla, io neanche, e la serata finisce così, nel silenzio, nella quiete che precede la tempesta.

Scotch al sapore di SambucaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora