Parte IV

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È di nuovo silenzio.
Tutto è tornato silenzioso, da giorni.
Da sei giorni, dall'ultima volta che ti ho visto.
Da quando mi hai sbattuto in faccia le tue parole, la tua verità, la tua rabbia, la tua delusione.
Tu avevi portato rumore.
Ora è di nuovo silenzio.
Un silenzio forte, assordante, da spaccare i timpani con la sua potenza.
Il cuore tace, la mente pure.
Ho continuato ad andare al Rouge Bar, tutte le sere, nella vana speranza di vederti entrare da quella maledetta porta.
Ti ho aspettato, non ti ho cercato, mi manca il coraggio, non ce la faccio.
Ma non sei venuto.
Mai.
Mi sono seduto da solo su quello sgabello per sei sere, bevendo scotch fino a farmi bruciare lo stomaco.
Ho vomitato, nel lurido bagno di quel bar, fino a farmi bruciare la gola.
Ogni sera, ogni notte.
Ho continuato a bere, fino ad annientarmi completamente.
In sei giorni, non ho più sentito la tua voce, non ti ho più visto, non ho più incrociato i tuoi occhi.
E non so nemmeno se voglio.
La vergogna è troppo grande in me, il senso di colpa mi annienta.
Se volessi, se volessi davvero, potrei parlarti ancora.
Potrei cercarti, potrei provare a farmi perdonare.
Ma non ti cerco, non ti scrivo, non ti chiamo.
Non voglio.
Non riuscirei a sopportare, ancora una volta, i tuoi occhi che mi guardano disgustati.
Non riuscirei a sentire le tue accuse, verso me, verso te.
Sono passati sei giorni, ed è tutto così confuso.
Vivo in un limbo infinito, in uno stato di caos perenne, dove la testa gira, le gambe tremano, gli occhi bruciano, puzzo d'alcol.
Sono così stanco.
Vorrei solo chiudere gli occhi, dormire, riposarmi, dimenticarti.
Dimenticare il dolore che ti ho letto dentro, dimenticare il rumore che provavo con te e che ora non sento più.
Sono un vigliacco.

***

Ancora una volta, sono seduto allo sgabello del Rouge, e guardo Gianni riempirmi il bicchiere.
Ancora.
Ho perso il conto di quante volte l'ha già fatto sta sera.
Sono le tre del mattino di un giovedì qualunque, non c'è quasi nessuno.
Sarebbe stata una serata perfetta per noi.
Sarebbe stata una serata perfetta, se qua ci fossi stato tu.
Perché non vengo a cercarti?
Perché non ti chiamo, non ti rincorro, perché lotto contro quello che il mio istinto mi grida da quasi una settimana?
Non lo so.
Sono un codardo, un vigliacco.
Un perdente.
Ho perso tutto, ho perso te.
Ho paura.
Ho paura di me, di te, di quello che potresti dirmi, del male che potrei farti.
Butto giù il bicchiere di scotch in un sol sorso.
"Io glielo manderei un messaggio"
Parla con me?
Gianni mi guarda da dietro il bancone, asciugando distrattamente un bicchiere con lo straccio.
Il mio sguardo è appena appannato dall'alcol, appena, non troppo.
Lo fisso su di lui e non capisco perché, dopo mesi di ostinato silenzio e di attenta osservazione, ha deciso di parlare con me.
Di cosa poi?
"Come scusa?"
"Mi hai capito"
Non una parola di più, non una di meno.
Preciso, diretto, senza mezzi termini, senza peli sulla lingua.
I suoi occhi buoni mi osservano con indulgenza, come un padre che guarda il figlio imparare come si sta al mondo.
Aspetta, paziente, continuando a strofinare lo straccio sul bicchiere.
Inarco un sopracciglio, mentre una risposta acida rischia di scapparmi dalle labbra.
I cazzi suoi non se li può fare?
Non mi ha mai parlato, non ci ha mai parlato, non ha mai detto una singola parola, ed ora se ne esce con un consiglio da uomo vissuto?
La rabbia inizia a ribollirmi nelle vene, inizia a scorrermi dentro insieme all'alcol.
Una rabbia insensata, dettata dalla vergogna, dal senso di colpa.
Gianni ha ragione, sono un vigliacco, sono stato scoperto.
E non accetto il mio essere vigliacco, lo ignoro, lo nego a me stesso, e al contempo lo riconosco.
Lo accetto e lo rifiuto.
Ma la rabbia c'è, cresce incontrollata, perché potrò anche riconoscere a me stesso di essere un vigliacco, potrò anche riconoscerlo a te, ma mi sento messo all'angolo da qualcuno che non sono io, che non sei tu.
L'orgoglio di un uomo ferito, in difetto, ha la meglio.
E come un lupo messo all'angolo, braccato, reagisco, attacco.
"Non sono cazzi tuoi"
Gianni sorride dall'alto del suo metro e novanta, e scuote il capo.
Si avvicina appena a me, posando il bicchiere pulito fra gli altri.
"Ascolta ragazzino.."
"Non chiamarmi ragazzino"
"..quando la smetterai di fare il bambino capriccioso che si piange addosso tutto il tempo e uscirai le palle, sarà troppo tardi, e capirai che hai perso solo tempo e un'occasione"
...
"Non sono comunque cazzi tuoi"
Gianni annuisce, allontanandosi dal bancone per prendere la dannatissima bottiglia di scotch.
Mi riempie il bicchiere, e io lo butto giù tutto d'un fiato.
"No, infatti, non sono cazzi miei. Ma mi dispiacerebbe per entrambi"
Lo guardo, ho le guance arrossate, le sento calde, forse a causa dell'alcol, forse a causa della rabbia.
Forse a causa di tutto.
Mi riempie di nuovo il bicchiere, ed io lo svuoto ancora, senza pensarci.
È un gesto automatico, il mio cervello non lo registra, non lo può controllare.
"Si può sapere cosa cazzo vuoi da me sta sera?"
L'uomo ridacchia, si prende gioco di me, e io sento la rabbia crescere di un'altra tacca.
"Io? Niente. Ma voglio dirti una cosa, ragazzino. Una cosa che ho imparato in quarant'anni di lavoro dietro questo bancone"
Posa la bottiglia di scotch mezza vuota accanto al mio bicchiere, e il suo sguardo, da divertito, diventa improvvisamente serio.
"Io vi conosco. Conosco tutti quelli che sono seduti in questa stanza, in questo momento. Mi faccio i cazzi miei, non dico niente, ma posso raccontarti vita, morte e miracoli di tutti quanti, compreso te. Non so cosa è successo, e neanche mi interessa. Ma quello seduto qui a bere come un alcolizzato da una settimana sei tu, non è Paolo. Quindi, qualsiasi cosa sia successa, la cazzata l'hai fatta tu, e al posto di andare fuori a rimediare stai qui a piangerti addosso e a bere da solo come un coglione. Ora prenditi questa bottiglia e finiscitela pure tutta se vuoi, poi vai in bagno a vomitare se ti fa sentire meglio, ma fatti dire, da amico, che stai facendo una stronzata"
Se mi avesse picchiato, avrebbe fatto meno male.
Un pugno nello stomaco sarebbe stato meno doloroso.
Ha ragione, ha ragione su tutto, sono un coglione.
Una parte di me lo sa, se ne rende conto.
Ma c'è un'altra parte di me, quella del lupo, quella dell'uomo ferito, messo all'angolo, braccato, spogliato di ognu sua difesa e smerdato in grande stile.
Ed è questa parte a prendere il sopravvento, mentre il sangue mi schizza al cervello.
Mi alzo dallo sgabello con foga.
Non voglio più stare qui, in questo stupido bar, con questo coglione che crede di essere chissà chi, che crede di sapere chissà che cosa.
Quando, da osservatore silenzioso, si è trasformato in giudice esecutore?
Lui non sa un cazzo, lui non sa niente di me.
Mollo una banconota sul bancone mentre guardo Gianni con disprezzo.
Vaffanculo anche a lui.
Vaffanculo a tutto quando.
Sto per voltarmi, sto per andare via, e incrocio per un'ultima volta il suo sguardo.
Ha gli occhi soddisfatti di chi sa che ha vinto.
Brillano per il divertimento.
Sorride appena.
Con il cervello che mi ritrovo, confuso e annebbiato dalla rabbia e dall'alcol, mi incazzo ancora di più davanti alla sua faccia soddisfatta.
"Mi dici cosa cazzo hai da sorridere? Sei contento di avermi fatto girare i coglioni?"
Il suo ghigno si allarga ancora di più, mentre scuote la testa.
"Non sto sorridendo. Buona serata Tiziano, divertiti"
Mi prende per il culo?
Mi trattengo dal tirargli un cazzotto.
Vorrei cancellargli quell'odiosa espressione felice dalla faccia.
Mi volto e vado via, sbattendomi la porta alle spalle.

Scotch al sapore di SambucaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora