Generale Mapal IV

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Fu un violentissimo tuono a svegliarmi, una tipica ed improvvisa pioggia tropicale, da una parte non vedevo l’ora di alzarmi e far colazione con Riem, dall’altra parte era tanto tempo che non mi permettevo il lusso di stare sdraiato e godere del riposo. Trovai Riem già in piedi, faceva colazione con una banana arrosto, me ne offrì una e sorrise:
“Organizziamo una battuta di caccia? Oppure andiamo a pescare? Potremmo seguire i combattimenti corpo a corpo dei migliori guerrieri di tutte le arene del nostro villaggio!” ma mia madre lo aveva bruscamente interrotto: “Prima Nanco deve andare a far visita al Generale Mapal, penso abbia qualcosa da dirgli”.
Il generale Mapal era come un secondo padre per me, probabilmente da grande lo avrei servito e questo era un ottimo periodo per diventare grandi, mi recai immediatamente all’entrata principale della Grande Capanna, distinta dalle altre entrate perché munita di un palco davanti al quale avvengono i riti religiosi in nome di Obilis. Accanto alle travi del portone i cosiddetti Guardiani scrutavano i volti di chi entrava e usciva; erano quarantacinque solo su quest’entrata. Mi avvicinai e chiesi loro di avvertire Mapal che ero arrivato; una guardia accorse dentro, io aspettai lì, scrutavo le enormi travi che sorreggevano il tetto della grande capanna quando il guardiano fu già di ritorno: “Ha detto di attenderlo nella tua capanna, verrà lui da te, non prendere nessun altro impegno, vuole passare un pomeriggio al fiume Hire, ha molte cose da raccontarti”.
Lo ringraziai e tornai da mia mamma, notai che c’era qualcosa che la turbava, ma non le chiesi niente, fu lei a parlarmene con un’espressione quasi di disgusto: “Non capisco che cosa sia successo a tuo padre. Quando è tornato l’ultima volta dal fronte, quello distante sei giorni, anche se vittorioso sembrava triste, la notte... faceva incubi e piangeva. Tutti dicono che lui combatte per qualcosa ma l’unica verità è che lui combatte contro qualcuno, sono più di vent’anni che non vede onori o glorie ma solo nemici borbundi”.
C’era molta rabbia nelle sue parole e la compresi. Mio padre era andato via di mente forse? Non ebbi il coraggio di chiederglielo, le dissi che ne avrei parlato con Mapal e lei aggiunse:
“Chiedigli che atrocità stanno commettendo aknesi e borbundi in quell’inferno”.
La guardai indeciso, io sapevo bene cosa avveniva a sei giorni di distanza, a Nord: “Papà sta lottando, insieme ad altre centinaia di comandanti e circa duemilacinquecento guerrieri contro un enorme villaggio borbundo, dicono il più ostile tra i villaggi borbundi che abbiamo conosciuto e al quale abbiamo recato offese e morti. Questo villaggio, conosciuto come il villaggio di Vipa, sta reagendo in un modo insolito, usano le loro donne come muri e i loro figli come scudi pur di non cederli a noi come schiavi. In poche parole, i nostri guerrieri sono costretti a farsi strada annientando bambini, anziani e donne, laghi di sangue... numerosi i giaguari che attendono la notte per racimolare un po’ di carne umana dai campi di battaglia, ecco che cosa avviene a sei giorni di distanza, così me ne hanno parlato”.
“Potremmo mai vivere in pace, senza guerre?” mi chiese.
Pensai che Sirio avrebbe sputato in un occhio a sua mamma se gli avesse chiesto una cosa del genere... Io invece ero imbarazzato, non sapevo che cosa dirle. Fortunatamente in mio aiuto accorse Mapal, aveva sentito il discorso dall’esterno della capanna ed aveva la risposta pronta: “La guerra è inevitabile, o meglio, lo diventa dal momento che insegniamo ai nostri figli che noi siamo aknesi, loro borbundi, gli altri touciani, nomadi... e così facendo perdiamo la consapevolezza di chi siamo veramente: molto di più di quei stupidi nomi, molto di più! Le guerre diventano inevitabili da quando decidiamo che il suolo, l’albero, i fiumi possono appartenere a me o a te: è «cosa di tutti», non mia o tua! Solo un branco di scemi potrebbe rivendicare gli alberi della foresta o i monti come propri! Chi ha spirito di appartenenza o attaccamento si dimentica che siamo di passaggio in questo mondo, un passaggio breve e senz’ombra di dubbio sprecato se trascorso facendosi la guerra; si potrebbero fare molte altre cose interessanti!”.
Tacque per un attimo e mi accorsi che temeva di aver sminuito l’intelligenza di mia madre con quella risposta, pertanto riprese a rivolgerle la parola: “La prima volta ho spedito io tuo marito in quell’inferno e me ne sono profondamente pentito; questa volta ha scelto lui di andarci, quindi mi dispiace, ho anche cercato di fermarlo, Zaita è un comandante che agisce per me e mi ha pubblicamente disobbedito... questo perché neanche lui stesso riesce ad addomesticare il fuoco che ha dentro e solo lui può”.
Mia madre annuì e io e Mapal uscimmo fuori, c’erano tre Guardiani che mantenevano una certa distanza onde evitare di essere troppo invadenti, salutai la mamma e me ne andati con lui verso il fiume Hire, sempre accompagnati dai Guardiani che dovevano tutelare l’incolumità di Mapal.
“Tu sai che ho sempre avuto stima di tuo padre, vero?” Mi chiese.
Gli risposi con un’altra domanda: “Per caso non ne hai più?!”.
Si mise a ridere: “No, anzi, la stima che provo per tuo padre aumenta e basta, ma devi sapere alcune cose: tuo padre è ritornato in campo di battaglia ed ha aperto dialogo coi nemici, vuole una tregua, una sorta di pace... Tuo padre è un pazzo se pensa che i nostri generali lo lasceranno fare, per quanto le sue intenzioni siano affettuose nei confronti dei suoi guerrieri rimane uno sciocco. I Vertici hanno perso troppi uomini e speso troppe energie per conquistare quei luoghi e ora tuo padre forse riesce ad ottenere la “pace”… tuo padre si sta facendo nemici gli amici e amici i nemici, un pessimo affare perché significa che si sta mettendo contro gli aknesi, ma il motivo è nobile e finché ho forze lo difenderò da tutti gli altri generali. L’unica persona da cui non posso difenderlo è il Divino Shamano e probabilmente non riuscirei a difendere neanche me stesso da lui, il Divino Shamano è troppo influente, troppo potente, troppo forte!”.
Aveva uno sguardo leggermente triste… uno sguardo rapito dallo scorrere dell’acqua del fiume Hire: “Stanno preparando un contingente di 500 uomini da spedire a sei giorni da qui; Zaita ha detto di no e ha fatto tornare indietro una cinquantina di suoi guerrieri dal campo di battaglia per dimostrare che sono inutili, è un chiaro segno che i dialoghi col nemico funzionano... quello che tuo padre non sa è che i vertici spediranno ugualmente quel contingente da lui, partiranno domattina, non si sono in alcun modo consultati con tuo padre, io ho obbiettato e rinviato l’invio di quei uomini, ma la maggioranza vince, mi dispiace che i vertici non si siano consultati militarmente con tuo padre, per lui veder arrivare quel contingente senza esser stato neanche avvisato sarà un colpo duro, un piccolo tradimento.”
Gli raccontai che mio padre la notte aveva terribili incubi e non dormiva... mi rispose: “Che ironia, avevo un incarico, una missione speciale che avrebbe sicuramente influito positivamente su di lui, forse avrebbe avuto modo di conoscere un mio vecchio amico capace di curarlo... eppure ha scelto di ritornare lì”.
Allora gli chiesi che missione avesse in serbo per mio padre, con la speranza che la affidasse a me, sarebbe stato un enorme onore:
“Perché tu capisca devi ascoltare tutta la mia storia. Ero giovane, un guerriero senza alcun titolo, e ci era stato affidato l’incarico di esplorare e perlustrare le Terre dei Giaguari. Ci eravamo infiltrati nella foresta per quattordici giorni, in otto guerrieri contando il comandante, ostacoli di ogni genere, serpenti e insetti di ogni specie, si faceva fatica a respirare e come se non bastasse il ringhiare dei giaguari di notte ci faceva tremare il cuore. Al quattordicesimo giorno, proprio quando stavamo optando per il rientro al villaggio iniziai a sentirmi “strano”. Non ci misi molto a ricordare che un ragno mi aveva morso, ma non avrei mai pensato che fosse velenoso. Stavo scoprendo direttamente sulla mia pelle che suo veleno non uccideva subito, ma paralizzava ogni muscolo del corpo. Ero caduto per terra a peso morto, tutti e sette gli altri corsero subito a sostenermi e capire cosa succedeva, ma non ero più in grado di muovere la lingua e i battiti del mio cuore erano impercettibili. Quegli stupidi mi credettero morto e se prima avevano qualche dubbio riguardo il rientro al villaggio ora erano sicurissimi che fosse il momento di tornare e in fretta. Partirono quasi subito lasciandomi disarmato e ben disteso a pancia in su, perché attraversare le paludi fangose con un cadavere era impensabile. Il sole stava calando, vedevo tutto e sentivo tutto. Avevo il presentimento che ci fosse qualcuno ma non potevo muovere la testa per controllare. Il mio timore più grande era che immobile com’ero, sarei stato la preda più ambita della foresta per chiunque. Dopo un po’ mi ero messo a pensare che non aveva senso preoccuparsi, non potevo far nulla, così tentavo di spegnere i pensieri e la notte passò con me immobile a guardare le stelle e tutti i suoni della foresta a farmi compagnia. All’alba iniziai a percepire le gocce d’acqua cadermi sulla pelle. Erano poche gocce, ma presto sarebbero aumentate. Molto probabilmente quella zona sarebbe diventata in brevissimo tempo paludosa e io sarei annegato morendo in modo orribile. Le mie orecchie, tutto ad un tratto, sentirono un rumore diverso da quelli che avevano sentito tutta la notte: erano passi umani! Disteso a faccia in su, incapace anche di muovere gli occhi, dovetti aspettare che comparisse lui davanti al mio campo visivo. Era un ragazzino molto alto, addosso aveva stracci e bandane color blu, come noi aknesi abbiamo il rosso... si era fermato al mio fianco, ogni tanto si guardava intorno, poi si era chinato per toccarmi le guance e sentendo che ero ancora caldo aveva accennato ad un sorriso che calmò le mie emozioni. Mi aveva sollevato da terra con gentilezza e apparentemente senza fatica, tenendomi con le mani da sotto le ginocchia e dietro la schiena. Guardava spesso il cielo consapevole che a momenti avrebbe diluviato. Mi aveva portato in una piccola capanna mimetizzata nel verde. Mi aveva chiuso gli occhi e sussurrato di riposarmi, parlava una lingua simile alla nostra per cui riuscivo a capirlo; sembrava una forma più antica di dialetto. Passò diverso tempo, ormai non contavo più le ore, poi ad un tratto mi accorsi che riuscivo a ruotare gli occhi e a muovere le dita delle mani. Un rassicurante senso di benessere mi stava pervadendo. Mi stavo completamente riprendendo, mi tirai in piedi lottando con un senso di vertigini che mi confondeva ancora. Cercavo in tutti i modi di stiracchiare e distendere i miei muscoli, di verificare la sensibilità che stava tornando nel mio corpo. Ora volevo parlare con colui che mi aveva salvato. Lo vidi fuori dalla capanna, davanti ad un piccolo focolare dove stava preparando da mangiare: aveva catturato un tapiro, una prelibatezza. Avevo moltissima fame e lui, come se mi potesse leggere nei pensieri, mi invitò con la mano a sedermi accanto. Avvicinandomi mi ero accorto che era proprio giovanissimo, più giovane di me, ed io ero poco più di un ragazzo allora. Trascorsi ventuno giorni con quel meraviglioso umano. Il suo nome è Hymsa, sognava di diventare il più grande raccoglitore di erbe curative al mondo, lo troverai nel posto che ti indicherò, ma dovrai abbandonare il tuo arco prima di raggiungere quel posto, altrimenti non si farà mai vivo, non si farà vedere né tantomeno avvicinare anche solo per discutere. Mi raccontò le Verità Assolute dell’universo che solo adesso inizio a comprendere veramente ed accettare…”.
Fissava l’acqua del fiume con uno sguardo incantato, rapito forse dal suo fluire, prese un lungo sospiro prima di riprendere: “Se tuo padre dovesse mettere tregua ai conflitti a nord...”, ma a quel punto lo interruppi io: “Gli aknesi avranno più tempo per esplorare l’est, le terre dei giaguari e forse oltre, temi trovino il villaggio di questo tuo amico?”.
Lui mi rispose: “È molto lontano, bisogna seguire il fiume Hire verso est e prima di giungere alla madre dei fiumi, si può vedere una piccola diramazione del fiume Hire, un ruscello che va nella foresta: questa diramazione sembra un fiumiciattolo piccolo e insignificante, ricoperto da foglie verdi e melma, sembra che stagni, ma se lo si segue per giorni si nota che diventa sempre più grosso, diventa un torrente poi un fiume. Seguendo il suo corso, quando si giunge alla cascata, se si è disarmati, può essere che si faccia vivo lui... tuo padre e adesso tu siete gli unici a conoscenza di questo posto e di quest’uomo, gli altri aknesi non ne conoscono l’esistenza per il semplice fatto che il posto è lontano da qui e per il fatto che hanno la foresta alleata, è quasi inaccessibile quell’area… il problema è che quando gli aknesi hanno “fame” si spingono oltre... in cuor mio temo per lui e il suo popolo, sì”.
Non l’avevo mai visto così preoccupato per altri, doveva essere veramente un brav’uomo questo Hymsa.  

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