Capitolo Otto - L'improvvisa solitudine di Moro

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L'improvvisa solitudine di Moro.


Tra le tante carte e le innumerevoli piste seguite, riapparve nella  mia mente "L'AFFAIRE MORO" , "AFFAIRE" non a caso perché fu il titolo della mia tesi di giornalismo a fine anni 80, e il fatto che io lo continui a chiamare "Affaire Moro" , viene dal troppo poco noto libro di Leonardo Sciascia intitolato esattamente così. Scritto a pochi mesi dall'assassinio del neo statista (ndr), statista dichiarato solo ad inizio dei suoi 55 giorni di calvario che lo condussero alla fine. Quasi epitaffio da vivo prima che ne fosse sentenziata la condanna a morte.

Moro fu il caso più evidente di isolamento che la storia della repubblica ricordi. E la cosa più eclatante fu che l'isolamento venne proprio dai suoi più cari (e anche non) compagni di partito.

Quel libro scritto da Sciascia, quando il cadavere dello statista era ancora caldo, fu una delle più lucide analisi di come questo fenomeno si fosse realizzato e sotto gli occhi di tutti. Anche pochi anni fa questo eclatante caso faceva ancora cronaca, come se qualcuno chissà da dove volesse a tutti i costi scrivere la parola fine con la verità definitiva su questo affaire di stato .

Fu chiaro fin da subito , e sottolineato ampiamente da tutte le principali testate, che una volta passato allo stato di rapito, Moro non fosse più il fino ad allora presidente della Democrazia Cristiana, ma una qualche entità esterna ignota che da un momento all'altro, nelle mani dei terroristi, potesse venire manipolata a loro piacimento. E fu così che iniziarono, sempre tutti i giornali all'unisono, a identificarlo come "statista". L'intuizione dello scrittore siciliano nel vedere questa trasformazione a caldo dell'uomo di partito attivo sulla scena da almeno 30' anni come fosse già considerato un busto di gesso, un monumento o un nome su una via, in queste pagine poco lette era già tutto scritto chiaro nero su bianco.

Ricordo in particolare una delle sue ultime lettere ai suoi colleghi di partito in cui aveva ormai capito da tempo di essere stato abbandonato e sentendosi alla fine della prigionia scrisse questa lettera indirizzata direttamente ai suoi compagni di partito:

"Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente nega­tive posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il corag­gio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equili­brato. È vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lie[to]. Ma non ho subito nes­suna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte.

E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non l'avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons Zama, all'Avv. Veronese, a G.B. Sca­ glia ed altri, senza né conoscere, né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell'autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse.

Perché questo avallo alla pretesa mia non autenti­cità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo iden­tità di vedute la

circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che rite­nevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In con­creto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a com­ penso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Bri­gate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la D.C., sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del Partito Socialista, riserva che è augurabile sia chiarita d'urgenza e positivamente, dato che non c'è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere una funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fal­lisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltis­simi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vit­time innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il princi­pio era era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c'era l'esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testi­monianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità com­portava, non s'intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continua­rono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla D.C.? È nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i problemi. E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avallata dalla D.C., la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a mort[e.] Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sin­cera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l'equi­voca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Son più volte che chiedo a Zac­cagnini di collocarsi lui · idealmente al posto ch'egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al Presidente del Consi­glio che tutto sarà fatto com'egli desidera E che dire dell'On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto, (per così dire libero, comodo, a Piazza, ad esempio, del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l'On. Piccoli. Per parte mia ho detto e documentato che le cose che dico oggi le ho dette in passato in condizioni del tutto oggettive. È possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l'esito? Possibile che non vi siano dei corag­giosi che la chiedano, come io la chiedo con piena lucidità di mente? Centinaia di Parlamentari vole­vano votare contro il Governo. Ed ora nessuno si pone un problema di coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammis­sibile. Se altre riunioni formali non le si vuol fare, ebbene io ho il potere di convocare per data con­veniente e urgente il Consiglio Nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gl'impedimenti del suo Presidente. Così stabilendo, delego a presiederlo l'On. Riccardo Misasi.

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