5. ALLIE

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Le settimane successive passano in fretta e l'estate giunge quasi al termine.
Oggi è il mio ultimo giorno di lavoro. Non riesco ancora a credere che tra poco inizierò l'università. Dopo due anni di sacrifici, inizierò una nuova vita.

Il campus è poco distante da qui, questo mi permetterà di tornare durante l'estate per continuare a lavorare. Però, almeno, respirerò un'aria diversa. Potrò mantenermi gli studi da sola, grazie ai risparmi messi da parte in questi anni di duro lavoro, senza l'aiuto di nessuno.

È una giornata frenetica e la gente continua a entrare al bar, ma sono troppo euforica per lamentarmi. Un paio di ragazze si siedono nell'unico tavolino disponibile e vado a servirle subito. Prima finisco e prima potrò andare di sopra a fare i bagagli.

Dopo qualche Coca-Cola, tanti hamburger e moltissimi bambini, rimane solo un cliente nel locale, quindi posso permettermi un momento di pausa appoggiata alla lavastoviglie.

«Non sarai già stanca?». Gwen decide di provocarmi un po', come sempre. In effetti, credo che sia il suo sport preferito.
La mia espressione distrutta parla da sola, provocandole una risata leggera. Il suo sorriso si trasforma in tristezza e mi abbraccia, stritolandomi più del solito.

«Non voglio che tu te ne vada».

Rimango immobile – gli abbracci continuano a non piacermi – ma la sincerità del suo affetto mi fa sciogliere un po'. Mi stacco da lei e metto le mani sulle sue spalle.

«Ehi, non preoccuparti. Tornerò a romperti le palle prima che tu te ne accorga», la rassicuro.
Gwen abbozza mezzo sorriso, tirandomi un pizzicotto.

«Ahi, e questo per cos'era?». Mi massaggio il braccio e la guardo, in attesa di spiegazioni.
«Anche se tornerai, non vuol dire che ti perdoni per lasciarmi qui da sola». Finge di arrabbiarsi, tirando fuori i bicchieri dalla lavastoviglie.

La sento ridacchiare sottovoce, segno che non fa sul serio, quindi mi giro verso il locale ormai vuoto e alzo gli occhi al cielo. Lo so, lo faccio spesso.

Fuori è buio pesto, ma l'ultimo cliente non accenna ad andarsene, così vado a vedere se ha bisogno di qualcos'altro. Magari capirà che stiamo chiudendo.

«Salve, posso portarle altro?».

Appena alza lo sguardo capisco che è ubriaco. Mi irrigidisco subito.

«Potresti venire a casa con me, ragazzina. Sai, per farmi compagnia». Il ghigno che mi rivolge e l'alito che puzza di vodka mi fanno venire da vomitare, ma resto calma. Non è la prima volta che mi trovo in questa situazione.

«Mi dispiace ma dovrebbe andarsene, stiamo chiudendo». Mi giro per allontanarmi, quando mi sento afferrare per il polso.

«Come osi trattarmi così? Lurida puttanella», biascica a denti stretti.
Strattono il braccio, ma la sua presa è troppo forte. «Scommetto che, in realtà, tutto questo ti piace», sghignazza, stringendo la presa.

La mia mano libera lo colpisce sul naso. Il sangue inizia a scendere sul suo viso, imbrattandogli la maglietta e facendolo indietreggiare.

L'uomo si riprende velocemente e si avvicina di nuovo, sollevando il pugno in aria. Chiudo gli occhi preparandomi all'impatto, ma non sento niente.

Li riapro in tempo per vedere un ragazzo alto e dai capelli scuri pararsi davanti a me, pronto a bloccare la mano dell'uomo a mezz'aria e colpendolo alla gola. L'uomo perde l'equilibrio e cade a terra con un tonfo degno del suo peso. Il ragazzo s'inchina sull'ubriaco e solleva di nuovo il pugno. L'uomo si rialza subito, scappando con la coda tra le gambe e borbottando qualcosa di incomprensibile.

Il ragazzo misterioso si gira verso di me e mi afferra la mano, ma io la ritraggo all'istante. Notando la mia reazione indietreggia un po', quel tanto che mi basta per riconoscerlo.

«La tua mano. Si è rotta?». Indica con un cenno il braccio che nascondo dietro la schiena.
Non capisco di che cosa stia parlando, finché un dolore lancinante mi pervade le dita. Porto lo sguardo sulla mano e noto che le mie nocche sono di uno strano colore violaceo e ricoperte di sangue. Non è mio.

«Sto bene». Cerco di mantenere un'espressione tranquilla, anche se vorrei urlare dal male che mi fa.

«Sicura?», insiste, mostrando una smorfia sarcastica.

È chiaro che non mi crede. «Ho detto che sto bene. Me la cavavo anche da sola», rispondo acida, in parte per il dolore ma, soprattutto, perché mi irritano le persone insistenti.
La sua espressione passa da preoccupata a incazzata nel giro di un nanosecondo.

«Se lo dici tu...». Incrocia le braccia guardandomi con aria strafottente, mentre mi pulisco la mano sul grembiule.

«Grazie per avermi aiutata. Non serviva. Puoi andare ora».

È ovvio che vorrebbe ribattere qualcosa, ma non dice altro: si gira ed esce sbattendo la porta.
Nello stesso momento in cui lo vedo scomparire nel buio, Gwen esce dalla cucina, fissando incredula il pavimento cosparso di goccioline rosse. Corre verso di me, coprendosi la bocca con le mani.

«Oddio, stai bene? Adesso esco e lo picchio, giuro! Anzi, lo spedisco a calci in culo dalla polizia e po...».

È agitatissima, ma la fermo prima che vada fuori a urlarlo al mondo. «Sto bene, stai tranquilla. Adesso puliamo questo schifo e poi andiamo a casa, okay? Non preoccuparti», la rassicuro, cercando di soffocare il dolore alla mano stringendo i denti.

È strano che non sappia cosa rispondere, ma alla fine annuisce e mi aiuta a lavare per terra senza obiezioni. Terminato il lavoro, ci salutiamo.
Il mio ultimo giorno qui si è concluso alla grande, direi.

Salgo nel mio appartamento e vado in bagno a lavarmi le mani, fascio con cura la ferita e procedo a cambiarmi anche i vestiti. Sono troppo stanca per farmi una doccia, quindi decido che la farò domani mattina.

Toccare il letto, dopo tante ore in piedi, è una sensazione meravigliosa.
Sebbene il dolore alla mano sia persistente, la mia mente si distrae e si domanda come mai quel tipo fosse lì.

Perché mi ha aiutata? Si aspettava qualcosa in cambio?

Certo che se lo aspettava, nessuno fa niente per niente. L'ho imparato a mie spese.

SENZA FARLO APPOSTADove le storie prendono vita. Scoprilo ora