Asociale

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Sono uno psichiatra e l’altro giorno mi è capitato un caso che mi ha fatto correre un brivido gelido lungo la schiena. Qualche tempo fa arrivò una nuova famiglia nel quartiere, una coppia sui sessanta con un figlio sulla trentina. Il figlio era un cosiddetto “asociale”, che si vedeva molto raramente fuori casa. Naturalmente, non potevo chiedere nulla direttamente ai genitori, ma sembrava abbastanza ovvio che si fossero trasferiti nella nuova casa per sfuggire allo stigma sociale.

Con il passare delle settimane il figlio usciva sempre meno fino al punto da non lasciare più l’appartamento. Ora era diventato un completo asociale, chiuso costantemente nella sua camera. Ogni notte sentivo sua madre gridargli contro, nella sua camera. Quando la incontravo casualmente lei mi salutava con un sorriso, ma aveva sempre un’aria pallida e tirata.

Passarono sei mesi dall’ultima volta che avevo visto il figlio; il padre venne a trovarmi e mi disse: “Potrebbe venire a trovarci, domani?” Non ero mai diventato un loro amico, né ero stato coinvolto professionalmente con la loro famiglia, ma come dottore e vicino di casa, sentii il dovere di aiutarli e accettai.

Il giorno successivo andai a casa loro e venni accolto dal padre e dalla madre. “Prego, venga con me,” disse la madre, dirigendosi verso la porta della camera da letto del figlio. Di fronte alla porta, la madre gridò, “Sto per aprire!”

Entrò e cominciò a urlare “Perché stai ancora dormendo? Tirati su!” Tirò via di scatto le coperte dal letto e, sotto di esse, vidi qualcosa che mi lasciò incredulo e sconvolto. Sul letto era sdraiato soltanto un manichino, senza vestiti né lineamenti del volto. Fu a quel punto che il padre parlò: “La persona che volevo vedesse è mia moglie. Non riesce ad accettare la realtà.”

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