6. Morti inglorioseNon vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza.
(Quarta lettera ai tassalonicesi,13-14)
Bisanzio, 3 aprile 1000 d.C.
Una tomba spoglia, per essere quella di un grande re.
Salazar passeggia per la cripta, cercando un segno o qualunque cosa che gli possa far intuire d'aver scovato finalmente i segreti della pietra filosofale. L'ha cercata in ogni angolo del mondo, in ogni anfratto buio e polveroso che gli sia venuto in mente, per cavarne solamente un pugno di mosche e nient'altro: gli alchimisti hanno distrutto tutto il proprio lavoro, pur di non condividerlo con la posterità. Hanno bruciato e tagliuzzato via, sepolto vivi e morti, per nascondere le proprie ricerche sulla pietra della vita eterna.
E Salazar, adesso, vuole tutto quello che è stato distrutto, bruciato, sepolto e tagliuzzato dagli alchimisti bizantini. Vuole questo e molto di più: una parte di lui, quella meno importante e sicuramente meglio nascosta, vorrebbe solamente tornare nella biblioteca di Hogwarts con la soluzione al proprio cruccio – e tornare da lei.
Recuperarla alla corte di Ottone – deve essere rimasta lì, non crederà mai alle parole dell'ennesimo re insonne in una montagna – e tornare a casa, ma senza essere una famiglia e, chiedendosi silenziosamente, dell'amore cosa se ne faranno?
Tosca Tassorosso sfiorirà, certo che dovrà farlo e lui vivrà per sempre con quel ricordo indelebile, la fanciulla piena di speranze che era stata, che forse è tuttora. Che sarà per sempre. E quando lei morirà lui vivrà con quei pensieri, finché l'eternità non si ripiegherà su sé stessa e avrà una fine, perché anche le cose eterne tendono a un collasso esistenziale – e finiscono così.
Salazar si china a osservare il pavimento, costellato di ciarpame, di gioielli preziosi che per lui non hanno un valore, quelli no, che se ne farà mai di croci tempestate di gemme, di corone e diademi, nemmeno fossero quello di Corinna Corvonero, di scettri del potere ma niente potere effettivo. Lui cerca la runa.
La runa di Ur, quella più potente e primordiale, nascosta tra i graffi del pavimento come l'ennesimo segno inutile che la vita potrà imprimergli davanti. Eppure è lì, sotto i suoi piedi, e Salazar la riscopre come un tesoro: ed è quello, la forza primitiva che fluisce nel carattere e gli consente di picchiettare con la bacchetta sopra di essa, facendo comparire una scala nascosta.
Sono gradini ripidi, insensata è l'attesa con cui scende quegli scalini, mentre la voce di Carlo Magno gli risuona nella mente: non troverete abbastanza, riguardo la pietra. Ma qualunque cosa troverà sarà meglio di un niente che risuona come fallimento nella sua mente congelata, nelle sue mani bramose sulle pareti di pietra che scendono giù, sempre più giù. Non è forse vero che gli inferi risiedano nel sottosuolo?
Che l'accolgano pure, dunque: un inferno in cui non crede, di cui la runa Ur è solamente l'anteporta assieme a una tomba spoglia e disadorna, un inferno in cui non crederà mai, ma che forse esiste davvero ed è rappresentato, per lui, dagli occhi di ghiaccio – delusi e disincantati – con cui Lady Tosca l'ha guardato andar via. Salazar ne brama il perdono, certo che lei non esiterà a concederglielo, come brama la pietra e la vita eterna.
Ed è sciocco e ingenuo da parte sua, e lui detesta così tanto quella sua debolezza, che il Lumos con cui rischiara la grotta in cui è sceso non basta, né basterà mai, a fare lo stesso effetto con quei pensieri che gli ottenebrano la mente, deformandola.
La grotta gli appare davanti, in tutta quella sua incredibile vastità: sembra un labirinto infinito, e lui è pronto ad esplorarlo. Osserva la propria bacchetta, scura quanto un velo di tenebra, e un sorrisetto ironico gli increspa le labbra.
«Guidami» sussurra, facendo tremare l'aria.
La bacchetta pare recepire il comando, e come corda di liuto si tende, invitando il proprio padrone a fidarsi del suo istinto magico. Salazar non se lo fa ripetere due volte e comincia a camminare, con il suono di quei passi che è l'unico rumore mai udito e mai percepito nella tomba del defunto imperatore, dai quasi trent'anni dalla morte ingloriosa del proprio proprietario.
È ingloriosa sempre, riflette Salazar addentrandosi nei cunicoli sotterranei, la morte: la gloria dei defunti è fittizia, insensata, e lui non sarà mai pago d'esser ricordato nella morte. Lui vuole essere ricordato in vita, perché è quella che conta, e allora avrà bisogno di vivere per sempre.
Lui non sarà Olaf Tryggvason, tuffato nell'acqua gelata del mare del Nord, e mai riemerso, mai addormentato, mai ritrovato.
Non sarà mai Carlo, re dei Franchi, silenzioso e attento su un trono di ghiaccio che mai lo lascerà andare, defunto e rimpianto.
E non sarà nemmeno re Giovanni Zimisce, morto ingloriosamente d'una malattia mortale, che è il modo peggiore di lasciare questa piatta terra: non ci sarà il tifo, per Salazar, né alcun altro malanno che lo trascinerà nella tomba.
Lui sarà colui che ha scoperto la chiave di volta per la vita eterna, ed è così che finalmente trionferà su Godric Grifondoro, che forse spererà in una morte gloriosa che sconvolgerà i cuori di ogni puttana residente sull'isola degli Angli. Una tomba spoglia, per lui, niente di più: che lo seppelliscano con onore e con la sua spada, ma sarà Salazar che rimarrà in piedi dopo tutti loro, con la gloria eterna a incoronarla.
Si ferma, nel rinvenire uno scrigno di pietra che adorna un vicolo cieco, ricoperto di rune: emana una forza magica non indifferente, constata pieno di aspettative.
«Alohomora» sussurra, spalancandolo come l'ennesima bocca, l'ennesimo scrigno, piena di oscurità. S'avvicina a grandi passi, divorando quella distanza, per chinarsi di fronte a quella pietra dura e fredda e svelandone il contenuto.
Due pergamene, altra pergamena stracciata, e un uovo di gallina. Salazar spalanca gli occhi, pieno di domande, e afferra smanioso il contenuto dello scrigno, cercandovi delle istruzioni, ricerche, resoconti, qualunque cose.
Ne rinviene un testo runico che fatica a decifrare, con delle immagini tristemente inequivocabili. Gli tremano le mani, nel nascondere le due pergamene nella propria bisaccia, mentre osserva curioso l'uovo di gallina, minuscolo in quelle mani sottili, ma troppo grandi per poterlo abbracciare come merita.
Un urlo di frustrazione gli rompe le labbra.
***
Hogwarts, 4 aprile 1000 d.C.
È rinchiusa nelle sue stanze, come una prigioniera, come avesse invisibili catene ai polsi pronte a tenerla imbrigliata lì, tra il letto e il suo scrittoio, legandola per sempre al rumore sconnesso e insensato dei propri pensieri. Corinna non ha mangiato, nelle ultime ventiquattr'ore, tant'era la frustrazione d'esser rinchiusa da giorni sola insieme ai propri pensieri – e al diadema che, quieto sul suo capo, le suggerisce di continuare a tentare. Che il veleno è l'arma delle donne, ed Edward Gaunt merita una morte da donna per aver tramato insieme a un altro uomo, che lei ama e odia con intensità devastante, e allora che muoia d'una morte ingloriosa, senza speranza d'attraversare un regno dei cieli in cui la gloria è requisito primario per accedervi.
Corinna trema, stretta nella propria veste da camera, troppo leggera per quei venti primaverili che sospirano come spifferi dalla finestra, e un pensiero insensato le devasta la mente: anche Godric meriterebbe il veleno.
Perché amore e odio sono stranamente vicini, dentro di lei, stranamente complementari e allora lei amerebbe veder morire una persona che odia e ama, solamente perché ne ha guastato i piani così come ha fatto anche con il suo cuore.
Perché Godric le ha proibito di vedere chiunque, persino Helena, soprattutto Helena: teme che Corinna stia coltivando i segni di una pazzia tutt'altro che gloriosa e, allora, potrebbe avvelenare anche quella figlia di cui a stento ha ricordato l'esistenza. Non ha permesso nemmeno alla sua puttana di portarle i pasti, incaricando un Elfo domestico: forse pensa, a ragione, che Corinna cercherebbe di strozzare Emma con le sue stesse mani – e mai macchia di sangue sarebbe più dolce da detergere.
Lei è già sfiorita, nella solitudine di quei giorni, dove il suo unico contatto con il mondo è la propria finestra. Helena che gioca nei prati con Edward Gaunt, facendole fremere le mani di gelosia e disperazione, Emma che intreccia una corona di fiori di campo canticchiando una vecchia ballata, Lord Grifondoro che tira di scherma con il proprio assistente.
E Corinna vorrebbe semplicemente che, tranne la sua bambina, fossero tutti morti.
Le ha tolto la bacchetta, Godric, come se la stesse mettendo in castigo, dicendole che per un po' non avranno bisogno di intrighi da donna – geniale, è Corinna, ma pur sempre donna – e che allora le lascerà il tempo di riflettere e di tornare, saggia e assennata, come prima. Ma lei riesce solamente a covare vendetta.
Le agita il sangue in piacevole tempesta, pensare che un giorno ballerà, vestita con uno degli abiti gialli1 di Tosca sulla tomba di Grifondoro, e allora sarà finalmente libera. E potrà recuperare senno e dignità, tutte le cose che Lord Godric le ha tolto, ed essere madre, ma mai moglie: l'unica persona per cui avrebbe potuto rinunciare al proprio nome è lui, per un altro non lo farà mai, non ne avrà il coraggio. E potrà recuperare anche quegli anni persi nel nome di un odio che la divora lentamente, disfacendo tutto l'autocontrollo e la profonda calma che l'hanno sempre caratterizzata.
Morirà di morte gloriosa, Corinna, circondata da persone che l'amano e la rimpiangeranno per sempre. Ma mai vicino a Godric, questo no, non la tormenterà persino in quel luogo dove le anime viaggiano post mortem.
Qualcuno bussa alla porta, facendola sobbalzare: il suo primo pensiero vola ad Helena, quella bambina ribelle cui sicuramente mancherà la madre, e non sarà bastato un giovane sciocco e insulso come Edward Gaunt a farle dimenticare quella mancanza viscerale che la starà avvelenando.
Corinna alza il capo, orgogliosa, decisa a mostrarsi gelidamente altera anche nelle giornate peggiori che la vita le sta riservando.
Ma, quando la porta s'apre in un fastidioso cigolio di cardini non oliati, Corinna deve trattenere un verso di sorpresa – e malcontento – che rischia di spaccarle le labbra in un sussurro. Helena s'è dimenticata di lei per un altro giorno, e non ha infranto l'esplicito divieto del padre di andare a trovarla. È una bambina obbediente, Helena, non infrangerà mai un divieto così netto, non se le è stato imposto dal padre.
Corinna sospira, di fronte al viso del giovane assistente di Lord Grifondoro. Quella livrea odiosamente rossa e oro l'acceca come il raggio di un sole morente, e lei stringe occhi e labbra, piena di disappunto.
«Harold» constata, atona, con un tono privo di ogni cortesia. «Sembra che Lord Grifondoro si sia ricordato di me. Ditemi, avete qualche buona nuova da porgermi?».
Il ragazzo china il capo, mostrandole una testa piena di capelli rossi, e scuotendolo con aria turbata. Corinna sorride, dolcemente, di fronte quell'inchino.
«Alzatevi» risponde, imperiosa. «E ditemi ciò che avete da comunicarmi. Sono sicura che niente potrà arrecarmi più dolore di quanto già Lord Grifondoro non abbia fatto, privandomi di mia figlia».
«Potete uscire, mia signora, vedere vostra figlia e chi vorrete» risponde l'assistente, cupo. «Ma Lord Godric mi ha detto di riferire che, al momento, non potrà restituirvi la bacchetta».
Lei ride, facendo tremare i muri. «Mi rende pari delle sue schifose puttane» commenta, volgarmente. «E sia: sono sicura che, nell'alto dei cieli, qualcuno comprenderà la folle ingiustizia che sta perpetuando nei miei confronti».
Harold non risponde, ha la traccia di un rossore che gli rende gli zigomi del medesimo colore dei capelli, mentre gli occhi sono come incollati sul viso di Lady Corinna, contratto dal dolore. Lui lo comprende, quanto la spezzerà l'essere costretta a vivere come una Babbana, ma sa anche che non ha speranze di far mutare idea al suo signore.
L'unica speranza che potrebbe nutrire – che, segretamente, nutre anche lui – è che Lord Salazar e Lady Tosca facciano ritorno, l'una pronta a sorridere e perdonare, l'altro pronto a giustificare l'uso di un veleno.
«Sono davvero dispiaciuto, mia signora» sussurra, con una complicità che non vorrebbe mostrare. «Ho parlato in vostro favore, ma Lord Godric è irremovibile».
Corinna sorride. «Si tratta del tempo, Harold» risponde. «Arriverà anche la mia stagione e, allora, sarò io a tenere in pugno Lord Godric e si pentirà di avermi umiliata in tal modo».
Lui non risponde, ha gli occhi pieni di speranza, che invadono la mente di Corinna con il pensiero sfuggente di una possibilità.
***
Godric sorride, non riesce a fare altro.
È una bella giornata, il sole fa capolino dalle nubi come per rassicurare il mondo che la primavera è finalmente arrivata, e lui si gode quei pallidi raggi, seduto sull'erba. Emma è poco distante, chiacchiera fittamente don Edward Gaunt mentre intreccia una coroncina di margherite.
Il tentativo di avvelenamento di Corinna li ha uniti, la ragazza ha passato giornate intere al capezzale del figlio di Salazar, aiutandolo a ripristinare la propria salute. E Godric s'è lasciato consumare per giorni da un'assenza indimenticabile, che lo fa annaspare nell'aria frizzante di aprile, alla ricerca di consolazione.
Ha la spada posata di fianco, quasi come potesse difenderlo dai propri ricordi e dai propri pensieri, ma è troppo persino per quel magico manufatto: e così, con una corona di fiori che comicamente gli pende dai ricci d'oro bruno, Godric riflette e pensa, e ripensa, finché la testa e il cuore non gli dolgono in sincrono.
Le risate di Emma e di Ed Gaunt lo disturbano, lo costringono a fronteggiare una realtà dei fatti che è dolorosa, affilata come la sua spada, e che lo sconvolge ogni volta che si ritrova a contemplarla: Corinna non c'è, le ha proibito categoricamente di uscire dalle proprie stanze. E lei, che mai s'è inchinata e mai s'è spezzata sotto il suo tocco tutt'altro che gentile, ha chinato il capo e lì è rimasta, togliendosi il diadema dal capo per non dover ascoltare pensieri che non siano i suoi.
Corinna non c'è, le ha tolto la bacchetta e una parte fondamentale di sé stessa, costringendola a fare i conti con la sua impossibilità di rovinargli i piani. Eppure l'ha fatto, perché è un mese che la evita ed è un mese che i suoi occhi, neri e insistenti, lo perseguitano in sonno e veglia a parimerito.
«Mio signore» Harold lo scuote da quei pensieri, facendolo sobbalzare sull'erba umida. «Ho fatto ciò che mi avete chiesto».
Godric alza il capo, gli brillano gli occhi come due stelle, ma non ha abbastanza coraggio per domandare: teme che gli dica che è afflitta, Lady Corvonero, che è spezzata sul suo dover reggere il peso delle proprie azioni. Che non è più lei. Che è sparita in un turbine di dimenticanza, e non le appartengono più nemmeno i propri pensieri.
Emma ride, a squarciagola, come a volersi burlare di quei pensieri – forse, se solamente li conoscesse, lo farebbe per davvero. Ma lui, a ridere di Corinna Corvonero rinchiusa nelle proprie stanze come una bimba in castigo, non riuscirebbe mai.
Sarebbe dissacrante, ridurrebbe la divinità di Lady Corvonero a una cosa macchiata e stracciata come pergamena sporca, inutile, che non rivela niente. E, il problema di Godric, è esattamente questo: non riesce a turbarne la sacralità nemmeno con la macchia d'un respiro troppo ravvicinato.
«Bene, Harold» risponde, cercando di tenere a freno la curiosità che gli anima il cuore. «Lei...».
Come sta? È cambiata? Sono riuscito a spezzare l'anima ferrea di Corinna Corvonero, l'ho distrutta come un idolo di pergamena umida?
Ma lui scuote il capo, con aria addolorata. «Sempre lei» risponde, atono. «Non... non penso sia in grado di mostrarvi pentimento, mio signore».
Godric annuisce, certo che sì, pensa. Quando mai Corinna s'è pentita delle proprie azioni, mostrando rimorso per aver cercato di avvelenare un ragazzo di appena diciassette anni, distruggendone la vita come fosse un inutile coccio di terracotta.
La immagina come è sempre stata: bella e fiera, il capo mai chino per il peso delle proprie azioni, mentre Harold le comunicava che non avrebbe riavuto la propria bacchetta.
«Lei...» il ragazzo annaspa, come se l'aria gli pesasse nei polmoni. «Ha riso. Ha detto che potevate toglierle la bacchetta, ma che lei...».
«Lei cosa?» domanda Grifondoro, con irruenza. «Dimmi, Harold, dimmi».
L'urgenza gli sfigura la voce, e i lineamenti, è proteso verso il suo servitore con la segreta speranza che possa confessargli che Lady Corinna s'è sciolta in un fiume di lacrime. E che gli abbia detto che lo ama così pazzamente da compiere un'azione talmente empia e indegna di lei. Ma, e questo lo percepisce con sicurezza, Corinna non potrà mai farlo.
Corinna tirerà fuori gli artigli e graffierà, ferirà, avvelenerà chiunque tenterà di rinchiuderla tra le quattro mura della propria mente – lui compreso. In questi casi, l'amore non serve, serve che la vendetta brucia più di esso e, allora, più che amante e amata, Corinna è vendicativa e desiderosa di vendetta.
«Ha detto che rimarrà sempre sé stessa, qualunque cosa voi decidiate di fare di lei» risponde, placido. «E poi...».
Godric ride, pensando quanto quell'osservazione sia degna e pienamente coerente con quel che è Corinna. E lei è così ben delineata da far apparire lui, l'erede dei Grifondoro, solamente una copia sbiadita dei propri predecessori. Non v'è antichità nel coraggio, che si rinnova e si migliora di generazione in generazione, ma ve n'è nella bruta intelligenza che Corinna applica con violenza, con un'astuzia per cui Salazar sarebbe fiero.
«Non è la sua stagione» risponde, quieto, sebbene quelle parole lo agitino come poche altre. «Dovremmo pregare, tutti noi, per il momento in cui avverrà il rovescio della nostra fortuna e, allora, essa passerà dalla sua parte».
Harold china il capo, ha qualcosa che gli sta bruciando l'anima, nascosta nella tasca del mantello, dove prega che Godric – che pur non riesce a vedere attraverso gli oggetti – non la nota mai.
«Non può durare più di una stagione» risponde, ma gli trema la voce. «Dopo di lei toccherà di nuovo a noi, e allora ci rialzeremo. Lo facciamo sempre».
Ma non ne è poi così sicuro, pensa, guardando il sorriso aperto e sfrontato del suo signore. Perché Godric ride, amaramente, e ha una nota di gelosia impressa come una ruga sulla fronte spianata.
«Fai attenzione, Harold» commenta, bonariamente. «La donna che scegliete di amare è pericolosa, e amara, come la morte».
Harold tace, nella tasca del suo mantello, lo stralcio di pergamena che Lady Corinna gli ha affidato.
Lord Salazar,
Dovete tornare al castello. Ho bisogno di voi.
***
Hogwarts, 5 aprile 1000 d.C.
La porte sbatte come un sospiro troppo forte, facendola sobbalzare: Corinna non s'è alzata dal proprio scrittoio, dove ha scritto il biglietto per Lord Serpeverde, ed è già notte inoltrata – la mezzanotte del nuovo giorno è suonata da un pezzo, ma lei non s'è mossa, e il vassoio con la cena la osserva timidamente.
Alza lo sguardo, con un movimento rigido del collo, per incontrare lo sguardo furibondo di Lord Grifondoro. A lei viene da ridere, ma inghiotte quel sentimento, mettendo su un sorriso cortese, mentre giocherella con la piuma d'aquila con cui scrive.
«Lord Godric» lo saluta, senza muoversi dalla propria postazione. «Non v'aspettavo: è molto tardi, stavo per coricarmi».
Lui avanza a grandi passi, facendo crollare nella propria marcia un tavolino di quercia, che bacia il pavimento con un rumore che sa di cuore infranto. Una candela spenta si rompe a metà, perché è spenta e spezzata anche questa stessa esistenza, nella caduta rovinosa dal tavolino.
Ma ciò non basta, né il rumore né la caduta, a rompere anche l'avanzata di Godric: ha il fuoco negli occhi, Corinna non l'ha mai visto furioso in quella maniera.
«Certo, che mi aspettavate» sibila, ma suona più come se avesse sputato quelle parole. «Non comportatevi da stupida con me, mia signora, perché non vi crederò mai».
Lei ride, alimentando quel fuoco che gli brucia dentro, infiammandolo ancora di più: Godric la raggiunge, afferrandola per le spalle senza curarsi d'essere delicato, e la scrolla, come per farle ripartire un cervello che si rifiuta di metter a fuoco la razionalità con cui ha sempre lavorato.
«Perché avrei dovuto?» risponde Corinna, senza cedere di un millimetro. «Sono passati trenta giorni, dall'ultima volta che vi ho visto: vi ho aspettato per i primi dieci, ma poi...».
«Ma poi eravate così disperata da tentare di far tornare Salazar, Corinna?» sibila lui, stringendola per le spalle. «Pensavate che bastassero due sorrisi per portar via Harold da me?».
Corinna sorride, inclinando il capo, e un'onda di capelli neri le sfiora la fronte come l'ennesimo strascico d'oscurità che potrà mai sperimentare. «Sta tornando» risponde, indicando trionfalmente una pergamena sulla propria scrivania. «Siete sciocco, se pensate che io in trenta giorni non sia riuscita a contattarlo».
Godric, sciocco, lo si sente per davvero: Harold è stato il lumino con cui lei l'ha attirato, quand'erano giorni che lui la ignorava persino dei propri pensieri, e adesso in lui v'è quella rabbia cieca e sorda che obnubila ogni sentimento che possa mai avere provato nei suoi confronti. E sospira, cercando di dissipare quella nube rossa che gli colora lo sguardo, ma non ci riesce, non ci riesce e allora la presa sulle spalle di Corinna non accenna ad andare via.
«Siete voi, la sciocca» sibila, scrollandola nuovamente. «Se pensate che Salazar tornerà per voi, lui... tornerà quando gli farà comodo, e solamente con Lady Tosca».
Corinna sorride, irriverente, e con una mano sfiora quella di lui, che le affonda nella carne bianchissima.
«Tornerà» prevede, con calma. «Io lo so, Salazar... è il mio più caro amico, se mi ha scritto che tornerà per salvarmi da voi, lo farà».
Godric sorride, amaramente. «Quand'è che ho smesso di essere quello che vi salva?» sussurra. «Per essere quello da cui avete bisogno di essere salvata?».
Lei lo guarda, snudandolo con una singola occhiata nerissima, e allora quel sorriso altro non è che l'ennesima cicatrice sul suo volto sereno, impassibile. «Siete sempre stato così, mio signore» risponde, placidamente. «Ma vi siete sempre pensato come quello che mi avrebbe salvata».
Lui la lascia andare, come scottato: s'è sempre cullato in quella illusione sciocca e un po' folle – che lei l'amasse – e che gli ha fatto pensare di essere il principe che l'avrebbe salvata da una torre in fiamme, da un drago o da uno stregone che la teneva in ostaggio tra le mura oscure della sua mente. Pensava, Godric, di poterla salvare da sé stessa.
«Vi odio» le sussurra, sulle labbra, facendola rabbrividire. «Voi... fate di tutto per farmi arrabbiare».
Lei gli sfiora il volto, graffiandolo, e ride facendolo sobbalzare. «E voi vi arrabbiate perché siete pazzo di me» risponde, irriverente. «Ma non potete salvarmi da niente, mio signore, quindi state a vedere: non manca molto, Lord Salazar e Lady Tosca torneranno presto».
Lui ride, facendo tremare la stanza, come un tuono. «Vedremo, Lady Corinna» risponde. «Nel mentre siamo io e voi, e tra noi due vinco e vincerò sempre io».
Corinna vorrebbe ridere, ma lui le strappa un bacio dalle labbra, mordendogliele, e passandole una mano tra i capelli con forza, attirandola più vicina a sé.
Lei si aggrappa alle sue spalle, con forza, infilzandogli le unghia sulla schiena, facendolo sobbalzare. «Arrendetevi» sussurra, sulle labbra di lui. «Vincerò io, Lord Godric. Aspettate e vedrete».
«Lord Salazar non vi ringrazierà per aver cercato di uccidere suo figlio» risponde lui, tormentandole una ciocca di capelli. «Né lo farà Lady Tosca».
«Lord Salazar e io siamo legati» risponde Corinna, placidamente. «In modi che nemmeno voi potreste comprendere».
Lui la guarda ma non ha il coraggio di chiedere, così sospira, le sfiora il volto con distratta dolcezza, come per dirle addio. Forse, lo sta facendo per davvero.
Corinna ride, gettando indietro la testa ed esponendo la gola ai suoi morsi, ai suoi baci, con il fremito delle corde vocali che viene totalmente percepito dalle labbra di lui.
«Avete perso, Godric» ribadisce lei, sfiorandogli i capelli con aria distratta. «Non pensate mai più di poter vincere in astuzia contro di me. E ridatemi la mia bacchetta».
«Come fate a esserne così sicura?» risponde, lui, con aria di sfida. «Di avere vinto?».
Vorrebbe aggiungere qualche altra cosa, ma gli mancano le parole e il cuore inizia a battere più lentamente, dolorosamente.
«Perché ho fatto avvelenare la vostra cena» risponde Corinna, atona. «Se sarete amabile valuterò di farvi sopravvivere, avete più o meno qualche minuto».
Lui chiude gli occhi, sente il tempo che pian piano rallenta.
«Vi amo ancora» le ricorda.
Corinna ride, dura. «Ma non basta più» risponde. «Pensate a qualcosa di meglio».
***
Zugspietze, 20 aprile 1000 d.C.
«Siete arrivata anche voi, finalmente» Carlo Magno la osserva, con aria corrucciata, entrare dentro la montagna dentro cui dimora. «Lady Tassorosso, la nuova proprietaria della mia corona. O dovrei chiamarla coppa?».
Tosca sorride, lo guarda con una sorta di timore reverenziale, ma muove comunque un passo nella sua direzione. «Mio re» esordisce, con rispetto. «Se mi aspettavate, è perché sapete cosa sto cercando. O chi sto cercando».
Il re sorride, la barba bianca coperta di brina: morto di morte ingloriosa, Carlo Magno, sospira neve nella montagna in cui è costretto a rimanere finché dimenticanza non ne cancelli le impronte dalla faccia della terra.
«Certo che ne sono a conoscenza, Lady Tassorosso» risponde, con calma. «Lord Salazar è passato di qui, qualche tempo fa, mi perdonerete se sono inesatto: qui, il tempo, scorre in maniera diversa, in un certo senso si potrebbe dire che non passi mai».
Lei sorride, con comprensione, ha i capelli biondissimi macchiati di neve: è stanca e sta tremando, si stringe il busto tra le braccia, ma niente riesce a far vacillare quel sorriso sereno, pieno di speranza. Lo ritroverà, sta sicuramente pensando, ormai è così vicina da far male. Sente quasi la presenza di Salazar in quella montagna, come fosse ancora lì, lo vede quasi, e allora sospira e chiude gli occhi e lo vede, lì, a chiedere informazioni sulla pietra.
«Voi sapete dov'è andato» commenta, e suona quasi come l'ennesima accusa che muove a quei re insonni nelle montagne. «Vi prego, maestà. Aiutatemi a trovarlo».
Carlo, re dei Franchi, chiude gli occhi con aria stanca, le mani incatenate lungo il trono in un'inerzia forzata e innaturale.
«Siete una donna innamorata, Lady Tosca, è la specie di donna più pericolosa al mondo» constata, con burbera dolcezza. «Ho aiutato Lord Salazar nella sua ricerca, e lui s'è ripromesso di trovarvi e riportarvi a casa con lui».
Lei sorride, luminosa come una stella, pronta a ricevere quell'informazione tanto agognata, tanto desiderata.
Ma il re la guarda e ha solamente uno sguardo triste, quasi affranto, da offrirle. Ed è questo che la distrugge definitivamente, ovvero la consapevolezza che quel viaggio non è ancora finito, che non sarà così semplice riportare Salazar a casa, con lei.
«Dovete tornare a casa, mia signora» commenta Carlo Magno, con comprensione. «Hogwarts ha bisogno di qualcuno a mediare tra i due litiganti».
Tosca lo guarda, ha uno sguardo più glaciale di tutta quella brina ch'esce dal corpo del re, come se la traspirasse. Raddrizza la schiena, con l'orgoglio che Corinna le ha insegnato, e alza il mento con uno sguardo di sfida.
«Non tornerò» risponde, sicura. «Io ho bisogno di lui in una maniera che non è nemmeno descrivibile, vostra maestà. Che esistenza vuota vivrei, se smettessi di cercarlo?».
Lui sorride, pieno di complicità, ha compreso. Ha colto quella disperazione come si coglie la neve, in uno scroscio di pioggia, e l'ha compresa in un battito di ciglia durante una tempesta: Carlo Magno sorride, e i denti sono solamente l'ennesimo blocco di gelo, di fronte a quella determinazione.
«Lo troverete» prevede. «Ma non presto come pensate, purtroppo: grandi avvenimenti devono sconvolgere questo mondo, e Lord Salazar è destinato a farne parte».
Lady Tosca scuote il capo con forza, facendo volare via dall'acconciatura una ciocca di capelli biondi. «L'unico destino che ha, l'unico dovere cui deve adempiere» risponde, con forza. «È quello di stare con me».
«Meraviglioso» commenta il re dei Franchi, con sincero stupore. «Siete così devota, al vostro amore, che è impossibile non volervi aiutare. Perciò, ascoltatemi bene».
Lei affila lo sguardo, lo osserva con la massima attenzione: non ha studiato quanto Corinna, ma Tosca conosce le leggende sulle doti profetiche dei re intrappolati nelle montagne. Perciò aspetta le rivelazioni del re più grandi di tutti, in silenzio.
«Il vostro amato si trova a Bisanzio, attualmente» esala il re, stancamente. «Ma, se doveste andar lì, non lo troverete mai più».
Tosca trattiene il fiato, di fronte a quelle parole, sperando in una soluzione che il sovrano ha ma che, al contempo, sembra non arrivare mai.
«Ha trovato la culla dell'alchimia per scoprire che tutti gli appunti sulla pietra sono stati distrutti» continua Carlo Magno, a occhi chiusi. «Ma ha trovato qualcosa che gli sarà comunque utile, negli anni a venire. Interrompete le sue ricerche, fatelo adesso, e avrete qualche anno in più con lui. Fatelo procedere, e lo guarderete sprofondare».
Tosca spalanca gli occhi chiari, sgomentata. «Ditemi dove devo andare» sussurra, agitata. «E andrò».
Il re sospira, facendo nevicare davanti ai piedi di lei. «Tornate alla corte di Ottone» sussurra, con aria stanca. «Lì troverete Lord Salazar impegnato nei suoi studi. Portatelo via di lì: il breve regno del mio erede avrà un prosieguo violento e, nell'anno del Signore successivo, una fine ingloriosa».
«Che intendete dire?» sussurra Tosca, spaventata. «Salazar... potrebbe morire?».
Carlo Magno annuisce, addolorato. «I re muoiono di malattia ogni giorno» commenta. «E Lord Salazar non è e non sarà mai immortale. Non lasciatelo al fianco del suo sovrano, o vi perirà».
Tosca annuisce, pronta.
«Non lo farò» sussurra, con passione. «Lo porterò via di lì, ve lo prometto. Ditemi come posso fare per salvargli la vita».
«Tra qualche mese, Roma si rivolterà» svela il sovrano, aprendo gli occhi improvvisamente. «Salazar rischierà la vita. Portatelo via di lì entro il prossimo febbraio».
«Gli salverò la vita» sussurra, convinta. «Ma come posso fare per convincerlo?».
Il re sorride, tristemente. «Lo è già, convinto» risponde. «Per motivi che non posso essere io a svelarvi».
Tosca abbassa lo sguardo e, convinta di non esser vista, s'asciuga una lacrima che silenziosamente le ha sfregiato il viso.
Quando si Smaterializza, di fronte allo sguardo costernato del sovrano, il suono è lo stesso del proprio cuore mentre s'infrange.
Buongiorno a tutti!
Eccomi qui con il nuovo capitolo (il prossimo, Peccati speculari, sarà online il 21 gennaio: save the date).
Queste sono le note:
1Riferimento all'episodio, del XVI secolo, in cui Anna Bolena danzò sulla tomba di Caterina D'Aragona vestita di giallo.
Se ci fossero domande, non esitate a contattarmi.
Gaia
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Il racconto della regina
Fanfiction[Tosca/Salazar, Godric/Corinna, accenni futuri di Helena/Barone | Long-fic] Il ghiaccio è crepato, all'orizzonte, crepato e imperfetto su un orizzonte nascente, e riflette la luce del sole. Da lontano, sembra di essere nuovamente sulle scogliere nor...