𝟏. 𝐈𝐋 𝐅𝐀𝐒𝐂𝐈𝐍𝐎 𝐒𝐄𝐃𝐔𝐂𝐄𝐍𝐓𝐄 𝐃𝐈 𝐍𝐄𝐖 𝐘𝐎𝐑𝐊 𝐂𝐈𝐓𝐘

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AMBER

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AMBER


Dicono che New York sia la città dei sogni.
O almeno, è quello che la maggior parte delle persone pensa.
Personalmente, avevo sempre attribuito quest'ideologia a film e serie tv, ma dovevo ammettere che a volte persino io, che in quelle strade ci ero cresciuta, mi ritrovavo a perdermi nei suoi panorami e a viaggiare con la mente.

La verità però, era che in certi posti il mondo sembrava più bello di quanto in realtà non fosse. E quando eri in una città fatta di luci scintillanti e riflessi infiniti quale era New York, e ti ritrovavi a osservarla dall'alto mentre gli ultimi raggi di sole morivano dietro i profili dei palazzi, non potevi far a meno di chiederti se stessi sognando.

Avevo solo ventun anni, ma ero già stata nei luoghi considerati tra i più belli al mondo. Dalle spiagge dorate delle Maldive alle vette innevate delle Alpi, dalle città d'arte italiane ai deserti sconfinati del Nord Africa. Eppure, non c'era altro posto in cui immaginavo la mia vita.

New York, e più precisamente Manhattan che era considerata il suo cuore pulsante, era una città di giganti di vetro e cemento che sfioravano il cielo, e per me era casa. Eppure, quando i colori caldi del tramonto si dissolvevano nell'indaco del cielo, mi perdevo a osservarla come se non l'avessi mai vista prima. Era il momento della giornata che preferivo, quello in cui tutto sembrava rallentare. Dove il rumore della città appariva attutito, e gli angoli consumati da quell'incredibile flusso di vita, dai sogni e dalle corse quotidiane, si riempivano di un calore inatteso. E dove anche i dettagli più piccoli risplendevano di fascino: dalle scale d'emergenza che si arrampicavano sulle facciate dei palazzi, alle finestre che iniziavano a illuminarsi, rivelando l'intimità segreta di una città che non smetteva mai di vivere, nemmeno al calare del sole.

Era qualcosa di quieto, profondo, che non gridava, ma che riempiva l'anima di chi si fermava a guardare, e a volte, mi sembrava quasi di poter vedere le tracce di tutte le storie che si erano intrecciate per le sue strade, di tutti i sogni rincorsi e le vite che si erano sfiorate in silenzio.

«Hai una penna?» mi domandò all'improvviso Emma, seduta di fronte a me.

«Perché dovrei?» replicai girando il viso e riportando l'attenzione su di lei.

«Matita labbra?» mi chiese allora.

Mi accigliai, mentre mandavo giù un altro sorso di Cosmopolitan, poi afferrai la borsa e me la portai sulle gambe, ma il mio sguardo non si mosse dai suoi occhi. «Che devi farci?» mi venne spontaneo da chiederle, perché qualcosa mi diceva che non era affatto per le sue labbra. Emma a mala pena usava il mascara, e poi il fatto che mi aveva chiesto una penna la diceva lunga sull'utilizzo che avesse intenzione di farne.

«Tu dammela» fu la sua risposta.

Mentre cercavo di capire cosa avesse in mente, tirai fuori una matita di un color carne leggermente rosato, e di una tonalità appena più scura delle mie labbra. Era la mia preferita in assolto, su di me aveva un effetto così naturale che sembrava quasi di non averla.

𝐈𝐍𝐕𝐎𝐋𝐎𝐍𝐓𝐀𝐑𝐈𝐎Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora