Sono tutti morti sono tutti morti sono tutti morti.
Sono queste le parole che non fanno altro che risuonare ripetutamente nelle mie orecchie. La morfina può aver eliminato il dolore fisico, ma posso dire con assoluta certezza che questo di dolore, non lo potrà estirpare più nessuno dal mio cuore.
Fuori dalla centrale di polizia di New York, i giornalisti fremono per entrare e contendersi la mia prima foto. Gli agenti hanno sbarrato le porte, chiuso con la sicura le finestre, lasciato passare solo le persone essenziali.
Ho della cenere sul vestito bianco, sulle mie mani. Le mie ginocchia sono sbucciate, i capelli pieni di nodi. Cosa direbbe mia madre se mi vedesse ora?
Non devo aspettare molto per avere una risposta. Sento il tornado di voci causate dall'arrivo della mia famiglia nell'edificio. Mia madre si è fiondata nella stanza degli interrogatori e mi ha sferrato uno schiaffo. Riesco a sentire la potenza del suo palmo anche a distanza di ore sulla mia guancia.
Lo sguardo di mio padre è stato piuttosto chiaro, invece: i segreti di famiglia devono restare tali.
Mi hanno lasciata seduta su una sedia di plastica grigia per quelle che mi sno sembrate ore. Dopo aver bendato stretto il mio braccio ormai storpio, messo qualche punto in modo frettoloso, continuo a sanguinare copiosamente. Un inserviente è entrato poco fa e ha posizionato un secchiello nero proprio sotto le mie ferite più gravi; non vogliono che sporchi il pavimento. Un bip rosso insonoro ed intermittente in alto a destra, mi segnala che mi stanno osservando attraverso una videocamera di sorveglianza.
Mi osservano come se fossi un animale selvatico pronto ad attaccare.
«Ricordi in che anno siamo? Sai chi sei? Sai cos'è successo?» la stessa donna che mi ha portato qui mi ha posto questa serie di domande, lo so per certo.
So anche per certo di non aver risposto.
Il ricordo è sfuocato. Sembra la registrazione di una videocamera di sorveglianza che hanno provato a manomettere. Ricordo il suono prepotente delle sirene, la palazzina in fiamme. Ricordo i corpi a terra. Austin.
«Mi hanno drogata.» lo dico in modo così sicuro che per un attimo la donna sembra spiazzata.
«Questa è un'accusa molto grave. Stà attenta a ciò che dici.» con un impercettibile segno del capo mi indica la piccola telecamera lampeggiante.
Annuisco, lo faccio più volte. «Mi hanno drogata.»
La poliziotta trascrive qualcosa su un taccuino. «Va bene. Chi?»
Sto per risponderle istintivamente. So chi lo ha fatto. Rivedo la scena del liquido trasparente che scende e va a mescolarsi con la mia semplice Coca cola. Rivedo gli occhi neri di Khai su di me.
Ma per qualche motivo non lo dico. Per qualche motivo la mia bocca si ostina a rimanere chiusa.
«Non lo so.»
Mi guarda attentamente, poi si porta le mani in grembo. «Bene, allora si procederà con delle analisi per la conferma.» prende una pausa e prima di alzarsi posa una busta trasparente con una zip sul tavolo. La fa scivolare verso di me.
Riconosco il contenuto e mi costringo a mantenere un'espressione del tutto neutra come mi hanno insegnato fin da bambina.
E' arrivata quasi alla porta quando si volta un poco di profilo per aggiungere qualcosa.
« E' morto un ragazzo, assassinato da questa stessa pistola che tu avevi in mano sulla scena del crimine. Voglio davvero aiutarti ragazza.» dice. «E credimi quando ti dico che avrai bisogno di tutto l'aiuto del mondo.»
Non ho mai toccato il fondo, prima.
Ma ora che le mie ginocchia sono sbucciate e il cuore mi si è sgretolato in piccoli pezzi, sento di averlo inevitabilmente fatto.
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Tutte le brave ragazze finisco all'inferno
RomanceCosa succederebbe se una ricca ragazza dell'Upper Est Side di New York un giorno finisse in carcere accusata di omicidio? Cosa succederebbe se tutto il tuo mondo, tutto ciò che hai creduto di conoscere e la tua stessa identità scomparissero da un gi...